martedì 13 novembre 2012

La condanna senza fine dell'irregolare Giuseppe Berto

Dal Secolo d'Italia dell'11 novembre 2012

Nulla da eccepire sulle edizioni tascabili, tantopiù in epoca di spending review. Tra una bistecca e un’edizione di lusso, per quanto cartonata, a essere sacrificata è la letteratura. Se però t’imbatti in “Tutti i racconti” di Giuseppe Berto – per la prima volta raccolti in un unico volume – il conto è presto fatto: 13 euro per 528 pagine è un vero affare. In particolar modo perché alcuni dei racconti sono inediti e antecedenti al “male oscuro”, quella malattia che ne suggellò la fama mondiale ma anche l’involuzione narrativa. A essere deprimente, però, è la veste editoriale con cui la Rizzoli ha riportato il nostro in libreria.
I racconti seguono l’ordine cronologico ma non c’è alcuna data, non ci sono note, non è dato sapere su quali periodici o quotidiani siano stati originariamente pubblicati. Non c’è un minimo di apparato critico, non c’è neanche l’introduzione, perché non può essere considerata tale un breve testo in cui Berto stesso rivendica le due caratteristiche principali della sua scrittura: «la felicità del narrare e una vena di romanticismo che tenacemente s’accompagna prima alle crudezze del neorealismo e poi allo humor del psicologismo».
Possibile che non ci fosse alcuno disponibile a spendersi per Berto, lasciando all’autore l’onere della presentazione? Possibile che a distanza di oltre tre decenni dalla sua scomparsa, Berto venga ancora considerato uno scrittore minore, un dilettante fortunatamente asceso alla ribalta, un intruso nell’ambiente letterario nazionale e non una delle voci più importanti del Novecento? La diffidenza di ieri poteva anche essere comprensibile. Berto era un non allineato, un irregolare allergico alle consorterie culturali che mai si sarebbe fatto cooptare, un guastafeste. E in quanto tale era stato ripagato con gli interessi. «È stato la più grande vittima dell’establishment letterario del dopoguerra», ha scritto Dario Biagi nella bella biografia “La vita scandalosa di Giuseppe Berto” pubblicata qualche anno fa da Bollati Boringhieri. Gaetano Tumiati, scomparso anch’egli poche settimane fa, ebbe a sottolineare il concetto: «Era un bastian contrario, un uomo che era rimasto coerente a un’idea di italianità che non fosse quella di una democrazia sciatta e mandolinista». Non era solo un collega e un amico, Tumiati, autore dell’autobiografico “Prigionieri nel Texas”. Con Berto era stato “ospite” nel Fascist Criminal Camp “George E. Meade”, il campo di concentramento statunitense per “non cooperatori” in cui Berto ha scritto parte dei racconti ripubblicati da Rizzoli. «Ottenne molti consensi in America – spiegò Tumiati – mentre i nostri critici lo marchiarono superficialmente come autore “fascista”». E fascista lo era davvero quando, nel 1940, tre anni prima della deportazione americana, appena venticinquenne scrisse “La colonna Feletti”, il racconto che apre l’antologia della Bur e restituisce con visionaria partecipazione la fine di quella colonna composta da centocinquanta soldati. Berto non avea paura della guerra, la cercava, la pretendeva. «L’aver partecipato con onore a questa guerra – ripeteva – costituirà un buon diritto per fare la rivoluzione». Da allora l’etichetta di superfascista gli era rimasta appiccicata addosso e lui, malgrado si definisse piuttosto «un anarchico per rassegnazione e per disgusto», non faceva molto per smentirla. «Uomo orgoglioso e leale, pur di non rinnegare gli ideali, contribuiva ad alimentare la diceria», testimonia Biagi. Lo faceva sbeffeggiando le repentine conversioni all’antifascismo di tanti colleghi, facendosi fustigatore del malcostume letterario e denunciando già allora la degenerazione partitocratica, scrivendo libri come “Guerra in camicia nera” che, per dirla ancora con Biagi, «determinò la sua definitiva messa all’indice».
Fine pena mai, per quella condanna d’indegnità che colpì lui e tutti coloro che avevano aderito al fascismo senza poi volerlo rinnegare, neanche quando un minimo di diplomazia gli avrebbe semplificato la vita e moltiplicato i guadagni. «L’ostracismo, anzi l’eliminazione totale di uno dei pochi scrittori autentici d’Italia», per usare le parole di Sergio Saviane, è una delle regole non scritte ma ancora vigenti. Modesta proposta alla Rizzoli: valeva la pena ripubblicare Berto per poi mortificarlo e nasconderlo? Non sarebbe stato più giusto offrire ai suoi lettori vecchi e potenziali una raccolta che non suscitasse la stessa desolazione che Berto e i suoi camerati devono aver provato nel deserto del Texas?
Roberto Alfatti Appetiti

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