sabato 8 dicembre 2012

Leo Longanesi, il giornalismo italiano ha un debito di riconoscenza verso di lui

Da Area di novembre 2012
Paradossale che il re del paradosso sia stato giudicato con la stessa perentoria superficialità che gli è stata troppo spesso imputata, sino a costargli un riconoscimento definitivo dell'establishment letterario nazionale.
«Le apparenze hanno per me uno straordinario valore e giudico tutto dall’abito». Paradossale, che il re del paradosso sia stato giudicato con la stessa perentoria superficialità che gli è stata troppo spesso imputata sino a costargli un riconoscimento definitivo dall’establishment letterario nazionale. «Ci vuole coraggio per essere superficiali», avvertiva Longanesi. L’hanno preso alla lettera e alla lettera troppo spesso si sono fermati, pescando qua e là nello sconfinato patrimonio di aforismi lasciato dallo scrittore di Bagnocavallo. Liquidandolo come battutista, riservandogli quei giudizi spietati e a volte sommari che egli aveva seminato nel breve ma intenso cammino della sua vita. Ignorando sistematicamente, o quasi, lo scrittore di razza, il padre del giornalismo moderno, il maestro insuperato di grafica e arte tipografica, l’editore controcorrente e, non ultimo, l’artista geniale capace di dipingere e incidere. «Uno dei pochissimi uomini al mondo che non abbia dovuto aspettare i figli dei suoi coetanei per farsene dei discepoli e che abbia saputo diventare il maestro della sua generazione», hanno scritto Indro Montanelli e Marcello Staglieno nella bella biografia edita da Rizzoli nel 1984. Tanto precoce da scriversi egli stesso la prima biografia nel 1927, a soli ventidue anni, senza aver (quasi) mai messo il naso fuori dall’amata Romagna e senza il necessario corredo di studi. «Ho bazzicato il ginnasio e il liceo e sono sempre passato col sei e tutto quello che non so l’ho imparato in quegli anni. La mia ignoranza – ironizzava con una punta di civetteria – è infinita». Mancanza di cultura abilmente rimpiazzata da una straordinaria quanto continua sintesi di intuizioni e tenacia. «Longanesi condusse dal primo all’ultimo giorno, e con impegno di crociato, la più seria e disperata battaglia che mai sia stata ingaggiata da uno scrittore – scrivono Montanelli e Staglieno – perché se è  vero che fu una battaglia perduta, in nome di un mondo immaginario, inventato di sana pianta da lui, fu lo stesso una bella battaglia, come tutte quelle senza speranza». Un talento, il suo, speso o meglio dissipato in mille rivoli. Che si trattasse di fabbricare un logo, sceneggiare un film o illustrare un almanacco, pensare una campagna pubblicitaria (senza avere la benchè minima cognizione di marketing) o politica o tutte e due le cose insieme, non si risparmiava, perdendo intere giornate a perfezionare ogni dettaglio oppure, da generoso talent scout qual era, incoraggiando altri a fare quello che lui avrebbe fatto decisamente meglio.
«Aveva l’arroganza del disinteresse, il piacere del superfluo, dell’inutile, del fine a se stesso e l’orrore della ripetizione», ha ricordato Montanelli, che di Longanesi si dimostrò l’allievo più capace, quello che gli rimase vicino fino alla fine, condividendone tristezza, malinconia e disperazione. Rimanendo entrambi fedeli alle idee giovanili senza lasciarsi vincere dalla nostalgia, dalla caricatura, dalla battaglia di retroguardia. Su questo Longanesi non transigeva. Osservava la guerra e già pensava al dopo. «Che catastrofe! Pensa a quanti reduci avremo, quando sarà finita». Conservatore in un paese in cui non c’era niente da conservare, tutt’altro che moderato, come si direbbe ora, si segnala tra i più intransigenti. Borghese e antiborghese al tempo stesso,  è sempre pronto a denunciarne tic e ipocrisie, paladino di un’idea di tradizione che s’era inventato lui e che non era mai esistita, neanche nell’Ottocento o prima. Nemico del modernismo senza per questo essere un reazionario. «La modernità non mi esalta né mi sorprende; se l’automobile mi è utile me ne servo e basta». Un visionario ancorato alla realtà che, piuttosto che affidarsi alle ideologie, decise di crearsi un’Italia a sua immagine e somiglianza. «L’Italia che egli difese era una pura e semplice creazione della sua fantasia e del suo gusto – ha scritto ancora Montanelli – e chi gli rimproverava di aver inventato una borghesia, uno stile, un costume che erano soltanto suoi, cioè di aver regnato su un reame senza territorio, senza esercito, senza nulla, e di averlo fatto contare, invece di diminuirlo, ne esalta il valore». Chissà quanti pubblici riconoscimenti e guadagni avrebbe raccolto se non avesse coltivato quell’unica feroce e irrinunciabile debolezza: essere dalla parte di chi perde. Vicino a Mussolini quando Mussolini inciampa – «Il delitto Matteotti figurerà nella storia, minimizza Leo, come un semplice delitto comune» – e irridente quando il duce è in auge. E a fascismo caduto l’atteggiamento non cambia. A chi ne ricorda, a titolo di benemerenza, la fronda contro il Regime, lui ricorda la lunga militanza fascista, sottolinea come le sue critiche fossero talmente benevole da passare quasi inosservate al vaglio della censura. «Antifascista io? Vogliamo scherzare? Sono stato direttore dell’Assalto di Bologna, ho fondato l’Italiano, ho inventato il motto “Mussolini ha sempre ragione”». Un curriculum poco invidiabile nell’Italia del secondo dopoguerra. Tutti si affrettavano a nascondere sotto al tappeto camicia nera e distintivi e lui ne rivendicava l’appartenenza con la stessa foga con cui, al tempo del Minculpop, ostentava la sua insofferenza nei confronti del Regime: «Fascista io? Cacciato via come deviazionista dall’Assalto, direttore e fondatore di Omnibus, il foglio più sequestrato d’Italia… ».
Dall’Assalto, indubbiamente, sarà cacciato per aver criticato il senatore Tassinari, tra i principali finanziatori del fascismo bolognese. Omnibus, invece, malgrado il clamoroso successo e l’entusiasmo iniziale di Mussolini, dura poco – appena due anni: dal ’37 al ’39 – ma è abbastanza per riformare il giornalismo italiano nel solco del rotocalco di matrice anglosassone. Per il capostipite dei settimanali di informazione (politica e letteraria), Longanesi non si limita a scrivere l’editoriale ma ne rivoluziona l’impaginazione e la grafica. «È l’ora dell’attualità. È l’ora delle immagini. Il nostro nuovo Plutarco è l’obiettivo Kodak, che uccide la realtà con un processo ottico e la fissa come la farfalla sul cartoncino. Oggetti e persone, fuori dal tempo, dello spazio e delle leggi di casualità, divengono una visione. La fotografia coglie il mondo in flagrante. Diamo tante immagini accanto a testi ben fatti: ecco un nuovo genere di giornalismo». Edito da Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori, il settimanale ospita le firme di Montanelli, Ennio Flaiano, Mario Soldati, Arrigo Benedetti, Alberto Savinio, Alberto Moravia, Vitaliano Brancati e Mario Pannunzio. Quando quest’ultimo darà vita a Il Mondo, non potrà prescindere dalla lezione di Longanesi, di cui è altrettanto importante l’esperienza de L’Italiano. Fondata nel ’26, la testata, per quanto si presenti, recita il sottotitolo, come “il giornale della Rivoluzione fascista”, prende le distanze dall’iconografia del regime. «Questa rivista non ha mai stampato la parola “stirpe” o “era cesarea”… Dio ci scampi e liberi dagli archi di trionfo e dai fasci coi festoni». Dal punto di vista culturale, poi, è persino più innovativa di Omnibus, tanto da pubblicare per la prima volta autori stranieri e in particolare americani sino a quel momento sconosciuti, da William Saroyan a John Fante. La sua attenzione verso autori internazionali, peraltro, fa cadere l’accusa inconsistente di chi prova a sminuire come “provinciale” il giornalismo di Longanesi, sostenendo che fosse rimasto il paesano irascibile e incolto di un tempo. Non solo, quando si tratta di prendere posizioni nette e scomode, Longanesi non ci pensa due volte. Basti ricordare il numero monografico con cui L’Italiano respinge in maniera categorica le leggi razziali in Germania facendosi beffe del razzismo nazionalsocialista. La storia, poi, prese un’altra direzione ma nel dopoguerra Longanesi non tirò i remi in barca. Al contrario, sferrò l’offensiva: nel 1946 nasce la casa editrice che ancora porta il suo nome, l’unica a dichiararsi di destra in anni difficili. Perché di fronte c’è l’egemonia culturale della sinistra, il verbo è quello progressista. Se non è solo, poco ci manca. Una cosa è certa: la casa editrice è lui, così com’era stato ai tempi de L’Italiano Editore. Lui decide chi tradurre o pubblicare. Lui inventa successi a tavolino: ordinerà a Flaiano di scrivere Tempo di uccidere, romanzo che a sorpresa si aggiudicherà il Premio Strega. Lui fa l’editing e, in alcuni casi, riscrive i libri come se fossero i suoi.
Inventarsi una politica culturale di destra è un’impresa, tantopiù con un Msi ripiegato in un’altrettanto complicata battaglia di sopravvivenza. Longanesi lo fa da opinion maker qual era, chiamando a racconta attorno a Il Borghese, fondato nel 1950, quella borghesia diffusa, quel ceto medio che magari turandosi il naso vota Dc o cede al qualunquismo ma che si riconosce facilmente nella battaglia longanesiana. Il Borghese diventa così il contraltare conservatore al settimanale dell’allievo Pannunzio, quel Mondo che pur proveniendo dalla comune matrice liberale è spostato a sinistra. Non troppo, ma abbastanza da dispiacere a Longanesi, che fu «l’ultimo vero grande difensore della destra. Egli stesso avrebbe desiderato proprio questa definizione». Parola di Montanelli, che mai disconobbe il grande debito di riconoscena nei confronti di Longanesi, un debito di cui, più in generale, dovrebbe farsi carico l’intero giornalismo italiano. Dal ricordato Il Mondo di Pannunzio a Epoca di Benedetti, da Il Giorno di Mattei, di cui Longanesi pensò struttura e impaginazione, ai settimanali più vicini a noi. Un’avventura, quella del Borghese, che durò poco. Se durante il fascismo c’era il duce, in fin dei conti, a coprirgli le spalle, negli anni Cinquanta il numero dei nemici finì per superare di gran lunga quello degli amici e il potere non figurava certo tra questi. Quando rifiuta di sottoscrivere un aumento di capitale, Giovanni Monti diventa socio di maggioranza e lo mette alla porta. Il 27 settembre del ’57 muore d’infarto a soli cinquantadue anni. «È un peccato vivere, quando tanti elogi funebri ci attendono», aveva scritto poche settimane prima. Preso alla lettera, anche questa volta.
Roberto Alfatti Appetiti

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