giovedì 25 aprile 2013

“La pelle dell’orso” di Righetto, una storia di formazione per sconfiggere il dolore di una perdita e la paura del futuro

Pubblicato sul Secolo d'Italia.it il 25 aprile 2013
L’aquila, il lupo, il cervo e l’orso. Gli animali della montagna non sono animali come gli altri. Non sono addomesticabili. Non sono animali da compagnia. Mai si adatterebbero a vivere nelle nostre giungle di asfalto e cemento, in cui a farla da padroni sono – semmai – gli squali della finanza, i tecnocrati che giocano con noi come il gatto con il topo. Eppure, malgrado siano così lontani, così “altri” rispetto alla nostra “civiltà”, gli animali della montagna sono radicati da sempre nel nostro immaginario e continuano a popolare sogni e incubi di intere generazioni di bambini e adolescenti. Con il passare degli anni, poi, finiamo per doverci misurare con un altro incubo, più sottile ma non per questo meno insidioso, quello della quotidianità. E di quei fantasmi lontani finiamo per dimenticarcene, quasi che non fossero esistiti se non nelle nostre fantasie. A pochi, del resto, capita di imbattersi davvero, nel corso di una vita, in animali che “hanno un che di magico e solenne, come la processione di Pentecoste o come la messa cantata la notte di Natale”. È quando accade, invece, al piccolo Domenico ne “La pelle dell’orso” (Guanda, pp. 155, € 14), il nuovo romanzo di Matteo Righetto.
Se fino ad adesso l’autore padovano della classe 1972 ci aveva raccontato storie di uomini pronti a tutto che, per sopravvivere, si “animalizzano” come i grandi mammiferi della Savana – “Savana Padana”, pubblicato nel 2009 dall’editrice Zona, è non a caso il titolo del romanzo con cui ha esordito in narrativa – con quest’ultima prova cambia decisamente genere e ambientazioni. Non c’è la bassa provincia padovana a fare da sfondo ai folli inseguimenti d’auto, alle sparatorie e ai cadaveri che hanno segnato il western in salsa padana di un autore che si è imposto come interprete di punta del nuovo pulp italiano. Lasciate le distese di barbabietole da zucchero, i campi di soia, le case coloniche, le paludi e le cascine abbandonate che accompagnano il fiume Bacchiglione verso l’Adriatico – “Bacchiglione Blues” (Perdisa Pop, 2011) è il suo secondo romanzo – Righetto ci fa incamminare verso le vette venete ed ecco sotto i nostri occhi comparire lo spettacolo ottobrino delle cime del Lagazuoi, della Marmolada, del Fanis, e il Civetta, il Pore, il Col di Lana, il Sass Pordoi. Non ci sono bande criminali a contendersi il controllo del territorio, stavolta, ma un padre e un figlio alle prese con un dolore comune – la morte di Claudia, moglie e madre – e un’impresa spaventosa: dare la caccia al feroce orso bruno che sta terrorizzando la regione, el diàol, il diavolo, come tutti l’hanno ribattezzato. Siamo nel 1963 e Pietro Sieff ha solo quarantacinque anni ma sembra un vecchio, non è più il cacciatore coraggioso che, trent’anni prima, aveva abbattuto l’ultimo orso bruno apparso su quei territori.
È un uomo sconfitto, intrattabile e irascibile. La moglie è morta e “senza di lei gli sembra di vedere il cielo a metà”. Con il figlio Domenico, quasi tredicenne, divide la casa di Colle Santa Lucia e silenzi impenetrabili che sembrano averli trasformati in due estranei. Sarà quell’impresa assurda, tanto spropositata rispetto alle loro forze (due vecchi fucili) da essere folle, ad avvicinarli. “Come se stessero rinascendo insieme”, suggerisce Righetto, la cui abilità narrativa ci restituisce l’atmosfera magica e surreale del bosco sino quasi a farcene sentire gli odori e i rumori e, con essi, il battito accelerato del cuore dei protagonisti. “Impara a riconoscere la puzza dell’inferno, figlio mio, perché presto ce lo troveremo di fronte”, avverte Pietro ogni qualvolta si trovano davanti una vittima sbranata e putrescente dell’orso. C’è spazio per la poesia, una poesia dura, intagliata nella pietra, essenziale e di poche parole. È quando si fermeranno a riposare nella baita che il padre aveva costruito vent’anni prima per stare solo “con la mamma quando eravamo morosi”, che quell’uomo così cupo da sembrare ostile inizia a parlare. “Al buio suo padre parlava di più”, scrive Righetto. Nel silenzio di quelle ore scompare l’ego dell’autore e si ascoltano solo i pensieri eccitati di Domenico alla scoperta, finalmente, di suo padre, di un uomo che temeva di aver perso insieme con la madre, l’amata madre che gli scaldava il latte ogni mattina. “Quando era lei a versarlo nella scodella, il calore di quel latte era diverso da tutti gli altri”. Un romanzo tenero quanto potente, intimamente familiare eppure universale, “La pelle dell’orso”, in cui non mancano, come nei precedenti, colpi di scena e finale a sorpresa, “perché non era solo una pericolosa avventura – capisce Domenico – ma una vera e propria missione”. L’aveva ben detto Pietro: “Vince solo chi ha più fegato”. Il coraggio necessario a combattere il dolore per una perdita e la paura del futuro, un “nemico” che, per quanto possa apparirci difficile e minaccioso, vale la pena di affrontare.
Roberto Alfatti Appetiti

Nessun commento: