giovedì 18 aprile 2013

Libri. ‘Signor Comandante’ di Romain Slocombe su Francia, collaborazionisti, amore e fascismo

Pubblicato su Barbadillo.it il 18 aprile 2013
«Nell’autunno del ’41 ebbi l’onore di far parte del primo grande viaggio ufficiale degli scrittori francesi a Weimar. Ero in ottima compagnia, c’erano Marcel Jouhandeau, Drieu La Rochelle, Robert Brasillach, Abel Bonnard, Ramon Fernandez e André Fraigneau. Quanto a Jean Giono, si tirò indietro adducendo come pretesto che in Germania si rifiutavano di mettergli a disposizione un’automobile con autista».
Siamo nel 1942, ad Andigny, antico feudo normanno, e la voce narrante è di Paul-Jean Husson, ufficiale della Legion d’onore, Croce di guerra 1914-1918, scrittore acclamato, editorialista dei quotidiani più prestigiosi, membro dell’Académie Française e collaborazionista convinto. Tiene conferenze con Lucien Combelle, s’infiamma con «il prodigioso Céline che per primo chiedeva la piena e totale alleanza tra la Germania hitleriana e la nostra nazione», partecipa alle manifestazioni di Jacques Doriot e frequenta l’Istituto tedesco di Parigi con l’amico Drieu La Rochelle, con il quale va spesso a cena da Ramon Fernandez, il giornalista e scrittore di origini messicane, ex comunista passato tra i collabos. «Noi, tutti noi, dicevamo a voce alta e forte, sui giornali e sui settimanali che davano spazio alla nostra giusta indignazione, quello che la maggioranza dei francesi pensava e non osava dire: gli ebrei ci rubavano il pane, invadevano illegalmente il Paese e preparavano una rivoluzione ebraica con la complicità di Léon Blum». Sostiene l’intervento italiano in Abissinia – «i difensori della Civiltà contro i selvaggi etiopi» – e si impegna in prima persona nella campagna in favore del ritorno al governo del maresciallo Pétain che, non a caso, nel formare l’esecutivo di Vichy, penserà a lui come possibile ministro dell’Informazione o dell’Istruzione. Paul-Jean Husson, tuttavia, non è mai esistito, anche se per dare vita al protagonista di “Signor Comandante” (Rizzoli, 2013, pp. 250, traduzione di Maria Vidale) Romain Slocombe, parigino della classe 1953, si è dichiaratamente ispirato a coloro che si sono macchiati di intelligenza con il nemico, attingendo a piene mani dalle loro biografie e opere.
«Ai miei occhi, una pace europea durevole sarebbe stata possibile soltanto grazie a un riavvicinamento francotedesco», dice Husson e le sue parole potrebbero tranquillamente essere attribuite a Drieu La Rochelle, Brasillach, Rebatet e a tutti quegli intellettuali che ritennero che in un’Europa governata da Hitler – «che conosce l’importanza degli scrittori e per il quale ogni azione politica ha senso soltanto se serve da cornice e supporto a un’azione spirituale» – la Francia avrebbe conservato e persino rafforzato la propria identità nazionale e reagito a una decadenza che altrimenti temevano potesse diventare irreversibile. «Il disordine preparava la rovina della patria – nota Husson – e io potevo solo assistere all’irrimediabile declino della Francia, la quale da tempo aveva perduto il posto che le spettava nel mondo: il primo». Come i suoi “camerati”, prima ancora che collaborazionista è un patriota, o meglio: è collaborazionista in quanto patriota. Ama e odia quella Francia che, «dopo la fine della Guerra, non ha più voluto affrontare la realtà, preferendo una politica di furbizie, elusioni e raggiri». Il suo Paese, per citare Brasillach, gli fa male. «La nazione francese, incancrenita dall’individualismo corruttore generato dall’assurda teoria repubblicana che predicava i diritti dell’uomo, sembrava sprofondare sempre più in una spaventosa apatia. L’anarchia democratica, denunciata con lucidità da Charles Maurras, lasciava il mio paese in balia di quattro piaghe: gli ebrei, i protestanti, i meteci e i frammassoni». Non rimane che schierarsi con la Germania «in quella che era stata la guerra della rivoluzione nazionalsocialista contro la plutocrazia angloamericana e che, a partire dalla memorabile data del 22 giugno 1941, era diventata anche una guerra contro quella forma di civiltà particolarmente degradante che è il bolscevismo». Parole che ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, soffiano su un fuoco mai sopito.
«Straordinario e agghiacciante», così L’Express ha definito il libro quando, nell’agosto 2011, ha fatto la sua comparsa nelle librerie francesi. Le altre reazioni della critica sono state tra il tiepido e lo scandalizzato, tanto più perché non si trattava dell’opera di uno storico progressista ma di un artista, affermato sì presso le migliori case editrici ma soprattutto come fotografo, illustratore, autore di noir e fumetti, che sino a quel momento si era cimentato con l’immaginario giapponese piuttosto che con “colpevoli” mai del tutto perdonati. A che titolo rievocata quella pagina (strappata) di storia e riapriva una questione che ha a lungo diviso i francesi? La collaborazione, nata dopo l’incontro tra Pétain e Hitler a Montoire-sur-le-Loir il 24 ottobre del 1940 con la famosa stretta di mano tra i due politici, segnò il tradimento della Francia o, al contrario, l’unica via da percorrere per salvarla? Al di là del verdetto della storia, il dubbio rimane, così come la rispettabilità delle scelte individuali. Quando la NiL éditions lanciò questa collana di romanzi epistolari, Slocombe ha avuto l’idea e il merito di riproporre tale tema scrivendo questa lunga lettera di Husson al Comandante tedesco della Sottoprefettura di Andigny che, nell’edizione italiana, è accompagnata da un’epigrafe (di Paul Léautaud) altrettanto provocatoria: «Il tradimento può essere il segno di un’intelligenza superiore, interamente affrancata dalle ideologie civili». E intelligente Husson lo è. Nel 1934 ha 58 anni, i suoi libri sono tradotti in moltissime lingue, i drammi rappresentati nei migliori teatri, la critica saluta ogni suo romanzo come un capolavoro e nelle scuole i ragazzi studiano le sue poesie. Fermo sostenitore della necessità di un profondo rinnovamento etico e politico del Paese, vede nell’occupazione nazista l’occasione per far rinascere una grande Francia. Qualcosa, però, cambierà quando l’intransigenza di quest’uomo “couvert de femmes”, per dirla con Drieu, dovrà misurarsi con la passione per Ilse, la giovane e bellissima attrice tedesca ebrea che ha sposato il figlio. «La mia coscienza era totalmente occupata – ancor più occupata della mia patria, se mi consente questo infelice paragone – dall’oggetto meraviglioso e incomparabile del mio amore», scrive. Sarà così costretto a scegliere tra quell’amore impossibile e l’adesione convinta al fascismo. Un’adesione che, come anche quella dei suoi colleghi, non è dettata da contingenze e opportunità, meno che mai da utilità personali, se si considera il salato conto che ognuno di loro pagherà alla storia scritta dai vincitori.
Dopo la caduta del governo di Vichy, stando ai numeri dati da De Gaulle nelle sue Memorie, furono oltre 10mila i collaborazionisti giustiziati senza aver avuto un regolare processo. Altri, come Brasillach, il poeta più brillante più brillante della sua generazione, ne ebbero di sbrigativi quando inconsistenti. L’autore de “I sette colori” pagò con la vita. Drieu La Rochelle decise di togliersela: «Ho giocato e perso, esigo la morte». Forse fece altrettanto anche Ramon Fernandez, la cui morte è avvenuta, come si suol dire, in circostanze misteriose: il 2 agosto del 1944, poco prima della liberazione di Parigi, cedette a un attacco di cuore, ma non si è mai escluso il suicidio o l’intossicazione da alcool. Lucien Combelle venne condannato a 15 anni di lavori forzati e graziato solo nel 1951. Bonnard – che fu ministro dell’Istruzione e della Gioventù a Vichy – dopo la fuga a Sigmaringer (come Céline) si stabilì in Spagna e fece brevemente ritorno in Francia solo nel 1960. Lucien Rebatet, autore del principale “bestseller” della collaborazione, “Les Décombres” (Le macerie), in cui indica come responsabili dello sfacelo della Francia ebrei, politici e militari, fuggì anch’egli a Sigmaringer per poi tornare molti anni dopo. Chardonne se la cavò con qualche settimana di prigione e con un temporaneo divieto di pubblicazione delle opere. Marcel Jouhandeau, che pure non aveva mai nascosto la propria ammirazione per la Germania nazista, vide archiviate le accuse contro di lui. Henry de Montherlant che ne “Il solstizio di giugno” (1941) aveva messo nero su bianco il proprio culto per l’eroismo e i suoi sentimenti filotedeschi, se la cavò con poco più di una tirata d’orecchie.
A chi vorrà conoscere la sorte di Husson, imprigionato a Fresnes un mese prima di Brasillach, invece, non rimane che leggere questo romanzo romantico e ripugnante al tempo stesso, in particolare quando si sofferma sulle torture ai partigiani che, a leggere le descrizioni offerte da Slocombe (la crocifissione, le unghie strappate una a una, gli occhi infilati e estratti con forbici e coltelli, le sistematiche violenze sessuali), ricordano quelle feroci prassi riferite dallo storico Fabrice Virgili ne “La France virile” (Payot et Rivages) in cui a essere assassinati e torturati furono le giovanissime presunte “putains des boches”, colpevoli anche solo di «aver sorriso a un tedesco», e tutti coloro che in qualche misura avevano sostenuto il governo Vichy. Nelle guerre civili, del resto, distinguere i buoni dai cattivi è operazione di mero manicheismo, utile forse alle speculazioni di parte e alla propaganda, non certo a restituire pagine di storia drammatiche. Slocombe ci è riuscito, rivelando i costumi, le convenzioni sociali e le contraddizioni di un’epoca tragica quanto affascinante.
Roberto Alfatti Appetiti
*Signor Comandante (Rizzoli, 2013, pp. 250, traduzione di Maria Vidale) di Romain Slocombe

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