giovedì 16 maggio 2013

Libri. “Fascistelli” avventure di un militante FdG tra Bukowski, Fante e l’Abruzzo montano

Pubblicato su Barbadillo.it il 16 maggio 2013
È il fratello minore di Accio Benassi. Ricordate il fasciocomunista di Antonio Pennacchi interpretato sul grande schermo da Elio Germano? Partiva dalla Latina degli anni Sessanta (oops, Littoria) per fare la Rivoluzione a Roma. Vittorio Brasile, un metro e ottanta sviluppato in sedici anni, coltiva la stessa scriteriata vita e la stessa insopprimibile inquietudine. L’anima gli moccica, voce del verbo mordere in abruzzese. Decide di diventare fascista nella primavera del 1993, proprio mentre Tangentopoli sta “rivoticando” il mondo. Ribaltando, precisa la nota a pie’ di pagina, perché in “Fascistelli” (Il Cerchio editore, pp. 86, € 10) italiano e dialetto abruzzese si mescolano piacevolmente in una commedia dal sapore contadino e dal vigore fantiano.
La Civitella in cui l’autore, Stefano Angelucci Marino, brillante attore e regista teatrale della classe 1974, ha ambientato questo romanzo dichiaratamente autobiografico, è «un borgo noioso popolato da noiosi esseri umani» della provincia di Chieti rurale e montana, non lontana dalla Torricella Peligna che diede i natali alla famiglia dello scrittore italoamericano ampiamente rappresentata nei suoi romanzi. I mitici Bandini, per intenderci. Padre muratore e madre ultracattolica, proprio come il papà e la mamma di Vittorio, Donna Maria.
 «Lei sapeva di sonno, fritto, terriccio dei vasi, borotalco e Baby Shampoo Johnson. Era molto, molto più vecchia dei suoi quarantaquattro anni. Mia madre era alta solo un metro e sessanta, ma con i tacchi – come diceva la buon’anima di mio padre – pareva nu femminone. Viveva unicamente per tre cose: il figlio, il culto del marito “lavoratore instancabile“ morto giovane per una brutta malattia, e per Gesù. Culto condiviso da Vittorio che, quando si rivolge direttamente a Gesù, ricorda la candida irriverenza del giovane Arturo Bandini, alter ego letterario dello stesso John Fante. Figlio di immigrati italiani, Arturo è un ragazzo sanguigno e vanitoso, ma anche sensibile e autentico, con una passionaccia per i perdenti. La stessa che spingerà Vittorio a schierarsi con gli unici due (sfigatissimi) fascisti del liceo classico “G. B. Vico” di Chieti, «la scuola che ha preparato, sfornato e consegnato al mondo cervelli del calibro di D’Annunzio, Scarfoglio, Spirito, Pomilio, Ortiz, Chiarini e Paratore».
Amabilmente velleitari, Arturo e Vittorio hanno la vocazione ad andare controcorrente, leggono «libri che la massa non può leggere», quella stessa massa che, spiega Arturo, «non ha letto Spengler e non sa che l’occidente è in declino». Gli fa eco Vittorio: «L’Occidente con le sue regole, le sue leggi e la sua deriva, mi stava stretto! Troppo stretto! Più guardavo le cose, più mi saliva una rabbia, mi saliva il sangue al cervello! Fuggivo la massa, tutto quello che mi circondava mi faceva schifo». Per (di)mostrasi, gli occorre un atto esemplare e lui ha un sogno “esplosivo”: far saltare il viadotto di Villa Santa Maria. Solo per il gusto di poter rivendicare il gesto: «per far trionfare la bellezza del nostro paese sugli orrori del tardo capitalismo occidentale». Le “sparate” del giovane Vittorio ricordano quelle di un altro grande irregolare, Charles Bukowski quando, nell’autobiografico “Panino al prosciutto”, racconta come nel Los Angeles City College, che lui frequentava svogliatamente, amasse far saltare sulla sedia gli insegnanti «tutti sinistrorsi e antitedeschi» con sconcertanti affermazioni filonaziste. Nel giro di pochi mesi, all’interno del college, il giovane Hank aveva raccolto un folto gruppo di «accoliti» e «seguaci» e attirato le simpatie degli studenti che militavano nel movimento «americani per il partito d’America».
Per Vittorio Brasile, che anela a farsi «una reputazione da bastardo», la strada più “sicura” è varcare le porte della locale sezione del Movimento Sociale Italiano, porto di rari galantuomini ma anche di millantatori professionisti e sconclusionati perdigiorno. «Gli ultimi, quelli isolati, senza una lira in tasca, ignoranti, casi umani, le carogne del Msi». Il lettore si trova così davanti a una strepitosa galleria di personaggi, di quelle che non si dimenticano facilmente. Tonino Fendente, il fascistone perennemente preceduto dalla sua fama. Ginetto, il reduce, l’ultimo del pase. L’evoliano Paoloemilio Bosco, dall’aria vagamente aristocratica e con un dopobarba da voltastomaco. Più che un esercito, una pattuglia sgangherata degna del gruppo Tnt di bunkeriana memoria. Con nemici ben più attrezzati. Uno su tutti: Zio Remo, ovvero il potente ministro Gaspari, «il democristiano dei democristiano, favori e raccomandazioni, raccomandazioni e favori, un capitano sciagurato e irresponsabile che allegramente sulla nave dello Stato ha fatto salire chiunque e qualunque cosa: postini, portantini, bidelli, consorzi, infermieri, primari, impiegati comunali, ospedali, fabbriche in quota Cassa del Mezzogiorno, insegnanti e ponti-viadotti».
E poi c’erano i compagni, naturalmente, i cui giovani «si sono adattati al mondo post-comunista abbracciando senza nessun problema il credo liberale. Anzi, a sentirli parlare, i veri liberali erano loro. Si erano lasciati trasformare dalla odiata società capitalista nella quale vivevano, rinunciando a combatterla». La madre di tutte le battaglie: quella contro il mondo moderno. Non avendo grandi mezzi a disposizione, per combatterla Brasile, «orfano di un mondo che non avevo vissuto ma che conoscevo grazie ai film, ai fumetti, ai cartoni animati, ai libri e ai racconti dei miei nonni» deve affidarsi al suo immaginario e ai suoi eroi di riferimento, «eroi ribelli come i figli di puttana leggendari, ribelli e dannati che più ribelli e dannati era difficile anche solo immaginarli». Da Capitan Harlock a Mister No, da Blade Runner al Corto Maltese di Hugo Pratt, da Gabriele D’Annunzio a Goldrake e tanti altri.
Se Artuto Bandini/John Fante si fortificava con massicce dosi di Nietzsche, Vittorio Brasile/Stefano Angelucci Marino si affida a Céline, Junger, Kerouac, lo stesso Fante, Drieu La Rochelle, Berto Ricci, Malaparte, Hemingway, Chatwin e Brasillach. «Il sorriso di Robert Brasillach risultava insopportabile anche alle mafie politico-culturali dell’epoca tangentopoli della repubblica italiana. Brasillach, faccia da bambino, occhialini rotondi e una sciarpa rossa al collo inquietava noi e il mondo  per la gioia, il vitalismo, l’esuberanza che emanava in ogni sua foto, in ogni suo scritto. Leggere a sedici anni “I Sette Colori” di Brasillach significò avere sotto mano quello che avevo intuito ma che fino ad allora non ero stato capace di esprimere. Brasillach presentava questo ‘uomo nuovo fascista’ come lo spettacolo più sconvolgente del XX secolo, ed era vero, nel bene come nel male. Ne vedeva l’amore per la vita, il suo essere così diverso dal “militante radicale, dal magro cospiratore socialista, dal bevitore di aperitivi, di mozioni, di compromessi”. Per tutto il romanzo correva un sentimento di rivoluzione e di cambiamento, un’attenzione verso i fermenti culturali che permetteva di capire come il fascismo vissuto da certi giovani degli anni ’30 fosse ben diverso da quell’idea di destra conservatrice, anticomunista isterica che ideologicamente in Italia ne aveva preso il posto ai giorni nostri, chiusa a ogni progetto, a ogni scambio, al nuovo».
Passare dai libri alla militanza rappresenterà, per il protagonista di questo spassosa tragicommedia di Angelucci, un lento risveglio che segnerà la distanza abissale tra i suoi sogni di fascista immaginario e le anacronistiche nostalgie di un ambiente condannato al piccolo cabotaggio politico. I comizi, le gite a Predappio, le riunioni interminabili quanto improduttive, i consigli comunali di una aridità intollerabile, le velenose dosi quotidiane di inedia e frustrazione.
Il percorso umano, culturale e politico di Vittorio Brasile è simile a quello di migliaia e migliaia di ragazzi che hanno attraversato e riempito di vita le polverose sezioni del Fronte della Gioventù, vera e propria benzina per una macchina che aveva perso il gusto di correre e preferiva troppo spesso rimanere ferma in garage, aspettando tempi migliori. Quei tempi non sono mai arrivati. O meglio, proprio quando sembrava fossero arrivati, con la destra saldamente insediata al governo della Nazione, la fragilità di quel mondo, l’inadeguatezza della sua classe dirigente, ha spento le aspettative di quella generazione, di quella degli Accio Benassi e delle altre che l’hanno preceduta.
Il romanzo di formazione di Stefano Angelucci Marino, oggi affermato direttore del Teatro del Sangro, per quanto autoironico sin dal titolo e spietato nel denunciare i limiti e le contraddizioni della destra italiana di quegli anni, non è mai amaro né, tantomeno, sprezzante o liquidatorio nei confronti di una esperienza che rimane degna di essere stata vissuta fino in fondo. Perché quella forza scanzonata, quella fiducia sbarazzina, quella voglia incontrollabile di rialzarsi dopo ogni sconfitta che anima il cuore del sedicenne Vittorio, è rimasta esattamente dov’era. «Ho cercato nel mio piccolo di liberarvi dai vecchi schemi – dice ai camerati – per portare il nostro amor di patria da Civitella verso l’Europa. Niente, una battaglia persa». Chiudendo il libro, tuttavia, resta il sorriso e la consapevolezza che la guerra è ancora lunga e ovunque si combatterà ci troverà pronti.
Roberto Alfatti Appetiti
* Fascistelli di Stefano Angelucci Marino, Il Cerchio editore, pp. 86, € 10

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