mercoledì 28 maggio 2014

Tutti dicono che sono un bastardo (recensione di Domenico Paris su L'Occidentale)


Sul più grande fuorilegge della storia della letteratura
22 Maggio 2014
9 marzo 1994: accudito dalla moglie Linda Lee, muore a San Pedro (distretto portuale della città di Los Angeles) Charles Bukowski. Alla fine, come preconizzato nell’ultimo capolavoro Pulp, la Signora Morte ce l’aveva fatta ad acchiappare anche lui. Ci piace però immaginare che il vecchio Hank, nonostante la chemioterapia avesse inevitabilmente fiaccato la sua pellaccia,abbia salutato il teatro dell’assurdo di questa vita terrena con il consueto ghigno incorniciato sul viso.
Se volete sapere effettivamente come è andata a finire e se vi interessa entrare nelle stanze segrete dell’esistenza del più grande fuorilegge che la letteratura ricordi, non lasciatevi scappare Tutti dicono che sono un bastardo di Roberto Alfatti Appetiti, edito dai tipi della Bietti (336 pagine). La parabola umana e artistica del “duro” di Andernach viene ricostruita all’interno del libro con puntualità certosina, ma anche, soprattutto, con una scorrevolezza stilistica che permette di leggerlo come fosse un romanzo (un ottimo romanzo).

Dentro, ci troverete tutto: dai primi, spaventati vagiti emessi dall’infante Heinrich Karl (non ancora Henry Charles) a due passi dal Reno fino alla (tardiva) consacrazione a stella di prima grandezza nel firmamento artistico statunitense. In mezzo, ovviamente, il racconto appassionato e approfondito di tutte le stagioni attraversate dall’autore di Storie di ordinaria follia: le botte subite dall’odiato padre,la presa consapevolezza della propria “diversità”, l’epifania di una vocazione che riuscirà a farlo sopravvivere nei momenti più bui, il periplo disordinato tra le grandi città degli Stati Uniti, il rapporto con le donne e quello con la bottiglia.
Insomma, puro Bukowski al cento per cento. Piace poi sottolineare la particolare cura con la quale Alfatti Appetiti ha indagato il rapporto tra il narratore e poeta americano e alcuni suoi illustri colleghi: l’amore incondizionato per Hamsun e Fante, la devozione nei confronti del Céline di Viaggio al termine della notte, l’ammirazione conflittuale nei confronti di Hemingway, lo spregio mostrato per l’opera di Faulkner e di cento altri “classici” antichi e contemporanei, la presa distanza dalla Beat Generation, alla quale troppo spesso (e assolutamente contro la sua volontà) veniva associato.
Molto ben riuscito è anche il capitolo dedicato al rapporto tra Bukowski e l’altro grande “santone” della letteratura americana, Jack Kerouac, nel quale l’autore non si limita ad un semplice paragone-giustapposizione sulle influenze esercitate da questi due “giganti” sulla cultura contemporanea e successiva, ma prende di mira una serie di luoghi comuni “populisti” con i quali si è soliti approcciare alla loro opera e al loro pensiero.
Con lo stesso coraggio e la stessa lucidità, Alfatti Appetiti getta luce sulle sempre controverse e mai comode posizioni ideologiche espresse dal Maestro nel corso della sua esistenza. Ne viene fuori un profilo nuovo rispetto all’interpretazione comune e corriva che si ha dell’uomo Bukowski, il cui modo di vedere i fatti della vita (la suaweltanschauung, verrebbe da dire) fu sempre “oltre le righe”, anche e soprattutto su argomenti scomodi, pesanti, che intralciarono ma non riuscirono ad arrestare l’ascesa di questo splendido underdogdella penna verso i vertici delle classifiche editoriali e, soprattutto, nei cuori di milioni di lettori in tutto il mondo.
Insomma un ritratto a tutto tondo, nel quale la minuzia biografica (mai banalmente agiografica, sia detto) si sposa con una acuta capacitàdi rappresentare ed interpretare una figura di cotanto calibro. Adatto tanto al “bukowskiano” di lunga data, quanto a chi –se esiste!- non si è ancora mai avvicinato all’opera e alla vita del vecchio Hank
Fonte: L'Occidentale

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