Da Area di maggio 2012
Se Massimiliano Latorre e Salvatore Girone fossero stati cittadini statunitensi, Obama sarebbe andato a riprenderseli con le buone o le cattive e, in quest’ultimo caso, avrebbe mandato un Rambo, come da “migliore” cinematografia a stelle e strisce. La fiction, per definizione, inganna e che l’India non sia (solo) il paese esotico che tanto affascina il nostro immaginario ce lo ha confermato la vicenda dei nostri due Marò. Se i nomi dei due fucilieri della Marina militari, grazie a una quanto mai opportuna mobilitazione popolare, sono diventati noti, molti altri, oltre a condanne ingiuste, hanno subito la pena accessoria dell’anonimato. Per loro i riflettori non si sono accesi.
Parliamo di Tommaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, due nostri connazionali finiti in carcere in India dopo aver assistito, increduli e impotenti, alla morte di Francesco Montis, l’amico con cui stavano visitando l’antica e suggestiva regione dell’Uttar Pradesh. Dal sogno al peggiore degli incubi: la prigione. Il tutto nello spazio di pochi minuti. Un attimo prima sei in vacanza, quello successivo ti prepari a diventare un numero di matricola. Non fai neanche in tempo a comprendere l’ accusa di omicidio – formulata in una lingua che non è la tua – che ti hanno già condannato. In carcere dal 7 febbraio del 2010, sono in attesa di una sentenza definitiva. Una situazione tanto imprevista quanto penosa. Dura da accettare, in particolar modo se hai la coscienza pulita. No, non si tratta di un film, il cui protagonista finisce immancabilmente per dimostrare la propria innocenza, che peraltro dovrebbe rimanere presunta fino a prova contraria. Non è prevista neanche la più letteraria delle soluzioni: l’evasione. Dalla realtà è difficile fuggire. A raccontarcela sono Fabio Polese e Federico Cenci, entrambi redattori dell’Agenzia Stampa Italia, in un libro appena uscito – Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero (Eclettica Edizioni) – che non ha la presunzione di fungere da giudice né di dichiarare a spada tratta l’innocenza dei nostri connazionali. Polese e Cenci non cavalcano quello che il Corriere della Sera, con riferimento alla “crociata” statunitense per la Knoxs, chiamò «nazionalismo giudiziario», quando un passaporto diventa più rilevante di un alibi o di una prova. Si tratta, piuttosto, di un’inchiesta realizzata grazie al contributo dei familiari e degli interpreti diretti, le cui voci, come sottolinea il titolo, sono troppo spesso condannate al silenzio dell’indifferenza.
Quello di Tommaso ed Elisabetta, infatti, non è un caso isolato. Nel libro c’è spazio anche un’intervista a Giovanni Falcone, padre di un altro ragazzo passato per il girone dantesco della giustizia indiana. Storie emblematiche di detenuti italiani vengono sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell’uomo e assolutamente non compatibili con l’obiettivo della riabilitazione cui la pena dovrebbe essere finalizzata. Secondo i dati ufficiali della Farnesina sono circa 3mila i cittadini italiani detenuti all’estero, di cui 2mila in carcere in attesa di processo e una trentina in attesa di essere trasferiti in Italia per scontare la pena nelle patrie galere. Con un inciso: gli uffici consolari, secondo la convenzione di Strasburgo, dovrebbero far ottenere al detenuto il trasferimento in Italia per scontare la pena in uno dei nostri penitenziari. Per gli Stati Uniti, però, che non hanno ratificato la suddetta convenzione, il trasferimento dovrebbe essere condizionato dalla stipula di un accordo bilaterale. Sì, ci sono italiani detenuti anche negli Usa, paese che di erge a campione dei diritti umani salvo calpestarne quelli minimi, che diventa garantista e giustizialista a seconda che l’indagato sia americano o straniero, pronto a scatenare una “guerra” mediatica e diplomatica per sostenere le ragioni dei propri cittadini sempre e comunque (dalla tragedia del Cermis all’uccisione di Calipari) e tutt’altro che rispettoso degli altrui diritti quando l’accusato è straniero. Peggio ancora se italiano, in quel caso il pregiudizio è la scorciatoia che porta dritti alla condanna. È quanto è capitato a Carlo Parlanti, classe 1964, da pochi giorni tornato in Italia dopo aver scontato sette dei nove anni di reclusione incassati in California. Nessuno pensi alle spiagge di Los Angeles, il carcere di Avenal è tra i luoghi meno accoglienti del mondo: capannoni di cemento armato senza finestre, sovraffollamento al 200%, risse quotidiane. Persino la Corte Suprema ha definito disumane le condizioni di vita in tale prigione. Parlanti, assalito tre volte, ne è uscito vivo, con l’epatite C come souvenir. Denunciato dall’ex convivente Rebecca White, è stato condannato per lesioni e violenza sessuale. Un processo che – come ha commentato il Procuratore di Milano – «in Italia non avrebbe resistito neanche quindici minuti, altro che processo». La presunta vittima non mostrava segni di maltrattamento e solo tre anni dopo la denuncia produrrà foto che la ritraggono con un vistoso ematoma all’occhio sinistro. Non c’è referto medico. Nessuna prova, nessun testimone. Al procuratore distrettuale non rimane che convincere i giurati che la violenza contro le donne fa parte della “cultura” italiana.«Vedono l’italiano tipico come quello descritto dalla serie tv I soprano: mafioso, alcolizzato e picchiatore di donne. E più volte, durante il mio procedimento, si è fatto riferimento a questo». È l’intervista a Carlo Parlanti ad aprire Le voci del silenzio. Una storia come tante altre. Diritto di difesa dei nostri cittadini sistematicamente eluso. Spregio al diritto internazionale e inadempienza dei consolati patri. Condanne discutibili sotto il profilo probatorio. Italiani abbandonati al loro destino, come Enrico Chico Forti, classe 1959, arrestato nell’ottobre 1999 e da dodici in un carcere di Miami, condannato all’ergastolo in Usa. Ex campione internazionale di windsurf, dall’inizio degli anni Novanta produttore di successo in Florida, è stato accusato di truffa, accusa da cui sarà assolto ma che paradossalmente è stata usata scorrettamente come movente per un omicidio che non ha commesso. Ha perso tutto, la famiglia, i tre figli, tutti i suoi beni per pagare le spese processuali. Niente testimoni, impronte e arma del delitto.
«La Corte non ha le prove che lei abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto», ha scritto il giudice a verbale. Il diritto Miranda, che prevede l’assistenza di un legale durante qualsiasi deposizione rilasciata da una persona ufficialmente accusata di crimine, è stato negato. Il consolato italiano è venuto a sapere dell’arresto di Chico solo dai giornali e ben nove giorni dopo il fatto. È stata chiesta la revisione del processo, basata su un’ampia documentazione probatoria che può dimostrarne, sostengono i suoi avvocati, la totale innocenza. È stato chiesto, inoltre, un intervento dello Stato presso la Casa Bianca, ma la nostra diplomazia è estremamente timida, per usare un eufemismo, quando si tratta di far valere i nostri diritti. La subordinazione dell’Italia, al riguarda, è persino imbarazzante e basta ricordare Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti o, per avvicinarci ai tempi nostri, il “caso” di Derek Rocco Bernabei, trattato esaustivamente nel libro di Polese e Cenci. Rocco era un giovane di origine italiana nato nel 1967 e cresciuto in Virginia ucciso da un’iniezione di veleno dopo un processo alquanto discutibile il 14 settembre del 2000. Condannato per aver violentato e assassinato la sua fidanzata, senza prove e malgrado la ragazza avesse subito ripetuti tentativi di violenza da parte di altri. Altri che, però, non erano italiani. «Durante i sette anni di prigionia sono stato colpito, torturato, disumanizzato», scriveva Rocco nel novembre 1999 al Parlamento Europeo. Una richiesta di aiuto rimasta inascoltata. A occuparsi della tutela dei diritti degli italiani detenuti all’estero, già un centinaio di casi all’attivo, c’è dal 2008 l’Onlus Prigionieri del Silenzio. La presidente è Katia Anedda, ex compagna di Carlo Parlanti. «Mancano idonei strumenti di assistenza – dice nell’intervista raccolta nel libro – con la conseguenza che, molto spesso, i detenuti all’estero non ricevono neppure le cure mediche del caso, né un’appropriata difesa legale: l’Italia, infatti, non prevede in questi casi l’istituto del gratuito patrocinio e anche gli aiuti che possono essere concessi dai Consolati italiani sono solo facoltativi. Tutto ciò causa condizioni di detenzione veramente inique e una tutela legale debole, quando non inesistente, che comporta condanne ingiuste». Sarà mica che, con tutti i suoi difetti, il sistema giudiziario italiano andrebbe rivalutato?
Roberto Alfatti Appetiti
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