sabato 9 dicembre 2006

Bukowski, il ribelle dell'anticonformismo

Dal Secolo d'Italia del 22 marzo 2006
rubrica "Sei un Mito"
«Alla mia generazione, Bukowski sembrava più vero di Jack Kerouac: noi eravamo già sulla strada e in viaggio, ma lui sì che ha affrontato il disagio di che cosa significa essere ragazzi per gli altri quando ci si sente vecchi dentro. A noi dava la trasgressione, compagna di sbronze solitarie». Sono parole di Matt Dillon, classe 1964, l’attore che interpreta Charles Bukowski, o meglio Henry Chinaski, suo alter ego letterario, in Factotum. Il film, che prende il nome da un romanzo di Bukowski del 1975, è l’ultima delle tre pellicole dedicate al grande scrittore americano. Realizzato lo scorso anno dal regista Bent Hamer, è in uscita nelle sale italiane il prossimo 31 marzo. Dillon è uno dei tantissimi bukowskiani impenitenti, conquistati dalla personalità di Bukowski e dalla sua abilità di scrittore autentico, capace di mescolare umorismo e brutalità, disgusto e gioia. «Bukowski è il mio idolo. Tra i diciannove e i vent’anni ho letto tutti i suoi libri, c’è stato un tempo in cui mi esaltavo per certe sue frasi e, dato che tutti mi vedevano come un cattivo ragazzo, facevo mie le sue parole: "A Sud di nessun Nord" oppure "l’amore è un cane che viene dall’inferno"». E “cattivo” Bukowski lo era di sicuro. Pochi come lui si tenevano alla larga da ogni forma di buonismo: «Mi piaceva sentirmi cattivo. Chiunque poteva essere buono, non ci voleva niente, cercare di essere buono era una cosa che mi dava la nausea». Altro bukowskiano dichiarato è Gino Armuzzi, classe 1960, che allo scrittore ha dedicato un esilarante romanzo di formazione, Sognavo di essere Bukowski (Sperling & Kupfer). L’autore tratteggia, con brillante leggerezza, il percorso esistenziale di un bocconiano in crisi mistica: «Bukowski, con la sua storia e i suoi racconti, mi fece capire in un lampo quanto incredibilmente inutile, cogliona e priva di senso fosse stata fino ad allora la mia vita». Il libro attraversa così miti letterari, colonne sonore e mode giovanili dei ragazzi che nella Milano degli anni Ottanta si destreggiavano tra Sex Pistols e Duran Duran, e volevano «vivere come Miller, morire come Mishima e uccidere come Burroughs, sognando di essere Bukowski». Non è la prima volta, peraltro, che Buk viene accostato a Burroughs, Kerouac e più in generale al movimento beat. Eppure è lui stesso ad affermare di non avere niente in comune con quelli che definisce ironicamente «gli apprendisti stregoni della beat generation». Anzi, disprezza «gli scrittori che si mettono in mostra nel gran baraccone hippie. Giganti dell’umanità? Cazzate. Giganti della pubblicità». Alle protest song di Bob Dylan e di Joan Baez preferisce Brahms e Mahler. E prova la stessa infastidita indifferenza per l’esistenzialismo, che pure esercitò una notevole influenza sui beat. Nel 1964, nonostante fosse a Parigi ed avesse ricevuto espresso invito, si rifiuta di incontrare Sartre. Non nasconde la sua insofferenza per il ‘68. Come ha scritto Jean-François Duval ne Buk e i beat (Archinto), non esita a prendere le distanze da «beatniks, hippies, proto-hippies, maoisti, contestatori sessantottini, una strana progenie che egli non avrebbe mai procreato, che non sarebbe mai nata da lui». E’ il 1968, dal 25 al 29 agosto si tiene a Chicago la convention del partito democratico. La città è invasa da migliaia di giovani che improvvisano un’imponente manifestazione. Sul giornale underground Open City, Bukowski, con il suo caratteristico stile caustico, esprime la più totale disapprovazione per i manifestanti: «gli avvenimenti di Praga hanno raffreddato la maggior parte di quelli che si erano dimenticati dell’Ungheria. Eppure restano a bighellonare nei parchi con le icone del Che e i ritratti di Castro a mo’ di amuleti, a strillare OOMM-OOMM con Burroughs, Genet e Gisberg in testa». «Un conto è chiacchierare di rivoluzione con tre teste di cazzo di scrittori di fama internazionale, un’altra cosa è farla davvero». Non ama chi sale in cattedra: «I professori impegnati finiscono con il diventare tanti coglioni». Come ha scritto Jim Christy ne La sconcia vita di Charles Bukowski (Feltrinelli): «I personaggi dei suoi libri non si evolvono, non sono lì a rappresentare alcuna Grande Idea». Bukowski non vuole cambiare il mondo e non ripone alcuna speranza nel progresso. Ciononostante la sua faccia, sfigurata da una violenta forma di acne giovanile e devastata dall’alcol, è diventata essa stessa un’icona del ribellismo degli anni Sessanta e Settanta e, come tale, ancora oggi strumentalizzata da pacifisti e sedicenti progressisti. Certamente a Bukowski avrebbe dato fastidio vederla stampata sulle magliette indossate dagli epigoni del sessantottismo imperituro, parte integrante del marchaising culturale e commerciale del carrozzone conformista di sinistra. Appropriazione quanto mai indebita per un “fascista immaginario” che detesta le associazioni benefiche, le mobilitazioni democratiche e tutto quanto esprima buone intenzioni. Che alle piazze preferisce la solitudine: «uno scrittore che scende nella strada è uno scrittore che non sa nulla della strada». Scommettitore abituale, agli studenti politicizzati, ribelli di professione, preferisce i frequentatori degli ippodromi: «Arrabbiati, preoccupati, ingannati, scannati, inculati ma pronti a ricascarci, se rimediavano i soldi». Quando, nel 1969 e a soli 47 anni, Kerouac muore, Bukowski è ancora pressoché uno sconosciuto che vive ai margini della “cultura ufficiale”. Nel 1970, a quarantanove anni, quattordici dei quali passati da dipendente delle poste, (dalla cui esperienza trae Post Office, il suo primo romanzo), sceglie di licenziarsi e di fare lo scrittore a tempo pieno. La sua penna è il tritacarne nel quale passa al setaccio l’american way of life. La società statunitense descritta nelle sue opere è molto diversa dalle immagini stereotipate ed edulcorate che vorrebbero presentare il nuovo continente come una terra promessa, un paradiso in terra. La rappresenta per quello che è: tutt’altro che un modello d’esportazione. E la vita è resa sopportabile, e a tratti piacevole, dall’alcol e dalle donne, alle quali dedica un romanzo-omaggio, Donne (Guanda). Non è un caso se il suo nome diventa noto prima in Europa, a metà anni Settanta, mentre negli States raggiungerà la meritata popolarità soltanto molto tempo dopo e soprattutto grazie alla traduzione cinematografica delle sue opere. E buona parte del merito sarà di un italiano, Luciano Vincenzoni, famoso sceneggiatore e collaboratore dei registi più importanti, oltre che appassionato bukowskiano. E’ lo stesso Vincenzoni a rivendicare, nel suo Pane e Cinema (Gremese Editore), l’essere stato il primo a parlare dello scrittore negli ambienti hollywoodiani e a far scoppiare nella mecca del cinema una vera e propria bukowskimania: «Fu una scoperta, nessuno di loro conosceva questo autore underground». Un amore, quello di Hollywood per Bukowski, non ricambiato. «Al cinema ci vado poco, il mio tempo lo so ammazzare per conto mio e non ho bisogno di aiuto». E poi: «Il cinema fa schifo, non riusciranno mai a fare Céline». Eppure il successo di Bukowski sarà suggellato nel 1981 proprio sul grande schermo. Il film è Storie di ordinaria follia (dal nome della celeberrima raccolta di racconti) ed è diretto da un altro italiano, il regista Marco Ferreri. Accanto ad una splendida Ornella Muti, è l’attore Ben Gazzarra ad interpretare Chinaski-Bukowski, al quale non piacerà né il film né l’attore: «Le sue espressioni sembrano quelle di un uomo che soffre di stitichezza». La grande popolarità negli Stati Uniti arriva, però, solo nel 1987 con il film Barfly, adattamento cinematografico di un racconto dei suoi «dieci anni da ubriaco». Il termine potrebbe tradursi in “ubriacone” o, più esattamente, in “mosca da bar”. Bukowski spiega: «E’ un’espressione americana di slang per qualcuno che sta seduto sullo sgabello di un bar dal momento in cui si sveglia al momento in cui il bar chiude. E così non deve guidare la macchina, non deve timbrare il cartellino, non deve farsi coinvolgere dalla società». Il film, diretto da Barbet Schroeder e interpretato da Mickey Rourke e Faye Dunaway, è molto apprezzato dal pubblico. Ma il cinema non è il mondo di Bukowski. Nonostante abbia scritto personalmente la sceneggiatura, non va nemmeno a Cannes a presentare il film. Descrive la sua esperienza sul set in un romanzo, Hollywood Hollywood, un divertito atto d’accusa: «Hollywood? Il luna park dell’idiozia». Come tutti i miti che si rispettino, non mancano locali che portano il suo nome: dal Bukowski Café in Christinenstr. 16 a Berlino al Bukowsky Bar di Milano. Sì, proprio così. Con l’ultima lettera sbagliata. Perché, come ha scritto Paolo Roversi nel suo Bukowski. Scrivo Racconti poi ci metto il sesso per vendere (Stampa Alternativa): «Una y in fondo non cambia di molto le cose e la sostanza resta: solo ad un mito si dedica un bar». Nel 1995 è addirittura la compassata BBC a realizzare un documentario sulla sua vita. E anche se Bukowski non ha mai scritto per il teatro, soltanto in Italia sono ben tre le pièces recentemente tratte dai suoi libri, a conferma di come sia sempre vivo l’interesse per questo grande anticonformista. Bukowski. Confessioni di un genio con Alessandro Haber. Le ultime ore di Buk Chinaski, ispirato ad una delle ultime opere di Bukowski, Pulp, la più surreale, nella quale un investigatore indaga per scoprire se Céline sia ancora in vita. E L’amore è quel che conta – Da Bukowski a Dante, che racconta l’incontro, nel 1976, tra Bukowski e la moglie Linda Lee, novella Beatrice dantesca. «Linda è stata mandata dagli dei per salvarmi la vita» ebbe a dire Bukowski, ma, come osserva giustamente Paolo Roversi, nella trasposizione teatrale la storia ha «un happy end americano che avrebbe fatto sghignazzare il vecchio». A noi piace pensare che Hank, come preferiva farsi chiamare, venuto a mancare nel 1994, sia ora da qualche parte – lassù – con la Pall Mall senza filtro tra le labbra, a bere una birra con i suoi miti: «Le vecchie pellacce che si sono battute così bene: Hemingway, Céline, Dostoevskji, Hamsun». E John Fante, «il nostro mentore, il nostro Dio», l’unico che avesse mai riconosciuto come maestro. Neanche a farlo apposta, un altro italiano, sia pure un dago, un abruzzese di seconda generazione nato negli States.

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