sabato 9 dicembre 2006

John Fante, l'italoamericano innamorato di Hamsun

Dal Secolo d'Italia del 12 aprile 2006
rubrica "Sei un mito"

«Com’è possibile che esista uno scrittore che non abbia sbagliato una sola pagina, una sola riga? Forse perché Fante è uno scrittore così come Pelè era un calciatore». A porsi la domanda, e a rispondersi, è lo scrittore Marco Vichi, tra gli autori del libricino che l’editore Fazi, nel 2003, ventennale della morte del famoso autore americano di origini abruzzesi, ha pubblicato insieme al primo documentario italiano in VHS su John Fante. Profilo di uno scrittore, realizzato da Giovanna Di Lello. E non deve sorprendere né tanto meno scandalizzare l’accostamento al celebre calciatore. Perché Fante non è soltanto uno scrittore e forse non lo è stato mai fino in fondo. Non di quelli che fabbricano un bestseller l’anno, accondiscendenti con la grande macchina editoriale, pronti a strizzare l’occhio ai critici e a rassicurare gli intervistatori con opinioni politicamente corrette. Mai accomodante, sempre sopra le righe, impetuoso, scostante, eccessivo, irridente e collerico, John Fante è stato fuoco vivo. Ha rinunciato a fare il romanziere per fare della sua vita un romanzo. Ha venduto l’anima al diavolo hollywoodiano e si è messo a scrivere soggetti e sceneggiature per le più importanti major americane, arrivando persino a sfiorare l’Oscar per l’adattamento cinematografico del suo romanzo Full of Live (1952), il più significativo successo in vita. Ed è morto ricco e pressoché sconosciuto, nonostante fosse divorato dal vizio del gioco e malgrado avesse lavorato con i più importanti nomi del cinema, da Capra a Orson Wells. Il diabete gli ruberà le gambe e la vista, non gli lascerà il tempo di godere della meritata fama, che arriverà, inarrestabile e planetaria, trasformando lo scrittore di nicchia in un autore cult, anzi in un must. «Uno dei miracoli americani dalla formula segreta, come la Coca Cola o Kim Novak» l’ha definito lo scrittore Sandro Veronesi. Come tutti i miti, infatti, John Fante dispone di una entusiasta quanto trasversale pattuglia di fans, i fantiani, che, come scrive Marco Vichi, «hanno un gran desiderio di fare proseliti, e senza la promessa di un guadagno, né per le tasche né per l’anima. E’ solo la voglia di regalare ad altri le emozioni che abbiamo provato noi». E John Fante è lo scrittore di emozioni per eccellenza, incompatibile con l’immagine di scrittore sociale costruitagli da Elio Vittorini, che l’aveva pubblicato nell’antologia Americana (Mondadori 1941), presentandolo come icona dell’immigrato di seconda generazione e cantore delle masse dei diseredati, piuttosto che per quello che davvero era: un genio della narrazione, un individualista anticonformista e provocatorio, del quale era evidente sopra ogni altra cosa, per dirla con Fulvio Panzeri, «l’irregolarità nei confronti del sogno americano».«Fante è terribilmente maschile – spiega Vichi - nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente ghirigori psicologici, niente spiegazioni troppo spiegate o riflessioni compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni, né vergogna di rivelarsi e di rivelare agli altri. Fante non si nasconde, non c’è bisogno di andarlo a cercare dietro le parole: lui è lì, aperto come fosse stato sbudellato, sfrontato e rabbioso, buono e cattivo in modo violentemente umano». Bukowski trovò le sue opere «scritte con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore» e, assalito da un contagioso entusiasmo, convinse il proprio editore, John Martin, a farne ristampare i libri. Da allora la schiera dei fantiani si è allargata a dismisura. Prima in Europa che negli States, dove troppo a lungo, per le sue origine italiane, è stato confinato tra gli scrittori “etnici”. Pur essendo nato negli USA, nonostante il suo innegabile talento, per i critici americani, troppo presi ad esaltare la narrativa proletaria nata dalla depressione, Steinbeck e Caldwell su tutti, rimaneva pur sempre un “dago”, spregiativa espressione con la quale vengono definiti agli oriundi italiani, il cui milieu anima l’intera opera fantiana (il nomignolo fa riferimento al vino rosso degli immigrati e proprio Dago Red è il titolo di una raccolta di racconti di Fante del 1940). In Italia lo riscopre Pier Vittorio Tondelli. La gioventù post ideologica degli anni Ottanta si riconosce nei suoi personaggi. La fantemania travolge tutto e tutti, senza distinzioni politiche, a sinistra come a destra, forse soprattutto a destra. Céline, Palahniuk e Fante. Cosa hanno in comune il grande scrittore di Viaggio al termine della notte, il geniale autore di Fight Club e John Fante? E soprattutto, si è chiesto recentemente un giornalista di Diario, il settimanale diretto da Enrico Deaglio, cosa ci fanno i loro nomi scritti a caratteri cubitali all’entrata di un centro sociale di destra accanto a quelli del tradizionalista e superfascista Evola e dell’immarcescibile D’Annunzio? Com’è entrato Fante nell’immaginario della destra diffusa? La risposta, in realtà, l’hanno già data Luciano Lanna e Filippo Rossi nella loro brillante antologia Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra (Vallecchi, 2003). A John Fante è dedicata un’intera voce del libro. E non è la prima volta che ci si occupa, da destra, di Fante. Lanna e Rossi ricordano come già il 10 dicembre 1938 Leo Longanesi avesse ospitato sulla rivista Omnibus «Il droghiere, un brano tratto dal suo romanzo Until Spring, Bandini, insieme a un profilo dello scrittore». Così come ai severi giudizi di Giuliano Gramigna e Oreste del Buono sulle prime opere di Fante si contrappongono invece gli elogi del Candido di Guareschi: «Un lettura che ci ha interessato, divertito e persino commosso».E poi le sue opinioni sull’attualità parlano da sole. Ogni occasione è buona perché John, che ama «fortificarsi con pesanti dosi di Nietzsche», brandisca come un ascia bipenne la sua avversione al comunismo. «Chiunque ami il comunismo dovrebbe vedere Berlino Est». Al suo giudizio iracondo e sarcastico non sfuggono i critici comunisti, «i rossi dallo sguardo allucinato», colpevoli di bocciargli i racconti per motivi politici. Se ne lamenta con H. L. Mencken, suo mentore e primo editore all’American Mercury: «Capita che un racconto abbia un tema cattolico, e non c’è proprio ragione per cui un fottuto dannato agente, che si suppone tratti di opere letterarie e non di propaganda, dovrebbe rifiutarlo». La moglie, la poetessa Joyce Smart, spiegò che «Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra» e che questo atteggiamento aveva costituito un vero e proprio ostacolo per la sua carriera in un ambiente fortemente politicizzato, quale quello cinematografico, che lo aveva avvertito sin dall’inizio come un renitente, un intruso, un infiltrato. Quando, tra il ’57 e il ’60, viene in Italia per lavorare, esplode nel constatare che «ci sono sei milioni di comunisti in Italia, l’intera industria del cinema è dell’intellighenzia rossa del tipo che prevaleva ad Hollywood. Si identificano facilmente perché danno voce a cliché antiamericani». Ma di allinearsi non vuol sentir parlare: «Mi farò mettere contro il muro e sparare prima di sottoscrivere il marxismo da salotto di uno stupido gruppo di laureati di Harvard. Simpatizzano con le masse. Questa è una bugia. Usano le masse come materiale, ma non simpatizzano se non in modo ipocrita. Sono comunisti perché il comunismo in questo paese paga. Per quello che mi riguarda non simpatizzo con le masse. Le masse esisteranno sempre. Sono formate da sciocchi. Sono necessari alla società. Se proprio lo devo dire, odio le masse. Ho vissuto con loro e ho sentito il loro fiato sporco e le loro menti vuote. L’istruzione non le tocca. Niente può toccarle. Sono segnate. Che muoiano. Devo farmi gli affari miei, in questa vita, ovvero sopravvivere. Che è un lavoro tremendo. Non mi sporcherò le mani cercando di salvare le masse». La consacrazione del mito passa ancora una volta attraverso il grande cinema. Dopo Aspetta primavera Bandini, incolore film del 1989 prodotto da Coppola, diretto da Domenique Derrudere ed interpretato da Joe Mantenga, Faye Dunaway e Ornella Muti, Fante e Arturo Bandini tornano in questi giorni nelle sale americane (per vederlo in Italia dovremo pazientare qualche mese). Stavolta ad essere trasposta in versione cinematografica è un’altra sua opera, Chiedi alla polvere. Un libro fatale per molti. Lo scrittore Gaeteano Cappelli ricorda quando ventenne lasciò Potenza per andare a studiare a Roma: « E fu proprio in quell’epoca che mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere di John Fante. C’era tutta la mia vita lì dentro. Leggevo e rileggevo quelle pagine. I sogni e le speranze di provinciale che girovagava solitario per le vie della grande città». E soprattutto si identificava, come molte altre generazioni di giovani del secondo dopoguerra, con quel personaggio perdente ma sempre pronto a rialzarsi: Arturo Bandini, spericolata controfigura di Fante, protagonista di una vera e propria saga. Figlio di immigrati italiani, Arturo è un giovane sanguigno e vanitoso, irritabile se non iracondo, ma anche sensibile e autentico, che per scrivere si trasferisce dal Colorado in California. Si innamora follemente di una cameriera messicana, Camilla Lopez, ma il corteggiamento si dimostra disastroso. La storia si intreccia con la romanzesca vita di Fante, si mescolano, si confondono. E’ di Fante il periodo dei «ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore», con un unico incessante pensiero, scrivere: «aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo. Mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore, Knut Hamsun, non abbandonarmi». A realizzare il film tratto da questo libro e prodotto da Tom Cruise, è stato Robert Towne, il grande sceneggiatore di Chinatown, ma soprattutto fantiano storico. Nel ruolo di Arturo c’è l’irlandese Colin Farrel, mentre Camilla è affidata alla bellezza di Salma Hayek. E noi fantiani aspettiamo, ansiosi di vedere come sarà interpretato quello stesso Arturo Bandini che, nel romanzo La strada per Los Angeles (mai pubblicato finché Fante rimase in vita perché, come confidava lo stesso scrittore, «dentro ci sono cosette che metterebbero il fuoco al culo a un lupo») non esita a dare del «minus habens» a chi «non ha letto Spengler e non sa che l’Occidente è in declino». Bandini, una testa calda, un irregolare, un maledetto libertario, un fascista immaginario, uno di noi.

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