Dal Secolo d'Italia del 26 aprile 2006
rubrica "Sei un mito"
«Se Bruce Chatwin fosse stato grasso, miope e con i capelli color topo avrebbe avuto una vita, e una reputazione, molto diverse». Parola di Susannah Clapp, editor, amica e confidente dello scrittore inglese, nonché autrice della biografia Con Chatwin (Adelphi 1998). Ma, del mito, Chatwin aveva le physique du rol, una dichiarata vocazione e il narcisismo necessario ad alimentare la sua stessa mitologia. Alto oltre il metro e ottanta, capelli biondi, fronte spaziosa incendiata da penetranti occhi azzurri, era, per usare le parole del noto mercante d’arte John Kasmin, di una «bellezza quasi oltraggiosa».Piaceva agli uomini come alle donne.«Un cavaliere uscito da una leggenda medievale» lo definisce la scrittrice Shirley Conran. Ricco di carisma. «Non si tratta solo di bellezza» precisa Susan Sontag «è un’aura, una luce negli occhi. Ci sono poche persone al mondo con una presenza che incanta e ammalia».La Clapp lo rappresenta come «un viaggiatore, un cantastorie e un dilettante di genio, con la passione dell’insolito. E’ stato anche di quei rari scrittori che non hanno avuto bisogno di diventare postumi per essere baciati dalla fama». Ma Chatwin, istrionico conversatore e dandy postmoderno innamorato di se stesso, è riuscito ad evitarsi la smorfia dell’invecchiamento ed è morto giovane, a soli quarantotto anni, nel 1989.A ucciderlo è stata una malattia che proprio in quegli anni faceva la sua irruzione sulla scena internazionale, l’Aids. Ma anche la vera causa della morte è stata a lungo avvolta nello stesso alone di mistero che ne aveva circondato la vita, rimanendo nascosta dietro un improbabile quanto «rarissimo fungo del midollo osseo». Nel coccodrillo pubblicato dal quotidiano londinese The Indipendent, Micheal Ignatieff lo descrive «incorreggibilmente elegante», un esteta impenitente. Smanioso di fare nuove esperienze, intimamente infantile, ironico e disincantato, sfuggente, irrequieto, Chatwin non mancava di autoironia: «Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere, ma i miei primi sforzi fallirono miseramente». Aveva esitato prima di accettare la proposta di Francis Wyndham, definito dallo stesso Bruce «una colossale fonte di ispirazione per un’intera generazione di scrittori in Inghilterra», di collaborare al supplemento culturale del Sunday Times. Infiammato dagli esempi di André Malraux e Alexandre Dumas, era troppo preso dai suoi viaggi di ricerca tra le tribù nomadi dell’Afghanistan, dell’Africa, della Mauritania e della Persia.«L’idea di un impiego mi fa orrore», aveva detto. Invece vi trascorse tre anni e quel periodo rappresentò un utile apprendistato per la sua affermazione da scrittore. Scrisse da Parigi, New York, Mosca, Marsiglia, dall’Algeria e dal Peru. Bruce Chatwin aveva molte vite, mescolate con frenesia dissipatrice e irrefrenabile in un vortice di interessi, viaggi, incontri, libri. Un vero camaleonte, capace di rinventarsi, con lo stesso talento, in più identità: esploratore, archeologo, esperto d’arte, giornalista e poi scrittore affermato, uomo sposato e bisessuale. Controverso, dibattuto, amato, criticato.«Di Bruce Chatwin si può dire di tutto e il contrario di tutto e sarà sempre vero» scrive Nicholas Shakespeare, autore della colossale biografia Chatwin (Baldini & Castaldi, 1999).Una cosa è certa: Chatwin rimane un mito. Per lui parlano le cifre.I suoi bestsellers, tutti pubblicati dall’Adelphi, In Patagonia (1977), Sulla collina nera (1982), Le vie dei canti (1987), Utz (1988), Che ci faccio qui (1989), Anatomia dell’irrequietezza (1996), sono tradotti in ventisette paesi e solo in Inghilterra hanno superato da un pezzo il milione di copie vendute.Ma oltre al successo editoriale, Chatwin si è imposto soprattutto come una delle principali mode culturali degli anni Novanta e il suo astro, a diciassette anni dalla morte, non accenna a spegnersi.Attorno alla sua figura di avventuriero colto e affascinante si è scatenata la Chatwinmania. A Berlino, nella Goltzstrasse, c’è il “Chatwins”, un negozio specializzato in libri di viaggio, ad Amsterdam una galleria d’arte della Houweg ha scelto di chiamarsi “Le vie dei canti”, mentre a Parigi una casa editrice ha preso il nome “Utz”.Si vendono ancora t-shirt con impresse la sua immagine e il titolo della raccolta di articoli usciti sul Sunday Times, Che faccio qui? La frase riprende la celebre domanda che Rimbaud si era posto in Etiopia ed è talmente entrata nell’immaginario collettivo al punto da diventare il titolo anche della brillante rubrica giornalistica di Enrico Vanzina. E non è un caso che Lanna e Rossi l’abbiano scelta quando hanno inserito Chatwin nella loro antologia Fascisti immaginari (Vallecchi, 2003) proprio alla C di Che ci faccio qui?Come con tutti i miti che si rispettino, allo scrittore inglese vengono dedicate mostre fotografiche, convegni di studi e tesi universitarie. La sua opera ha persino ispirato un fumetto, Swanp Thing.Il celebre ritratto scattatogli da Lord Snowdon, nel quale il Chatwin viaggiatore ci appare con l’immancabile zainetto sulle spalle e con intorno al collo, appesi per le stringhe, un paio di pesanti scarponi di montagna, è l’attualissima icona di un nomadismo che, come ha sottolineato bene Alessandro Campi, tra i primissimi scopritori di Chatwin in Italia, «non costituisce una fuga, non è la risposta ad una generica inquietudine generazionale o a qualche fallimento esistenziale, bensì un bisogno profondo e insopprimibile della specie umana». Così come l’uso del caratteristico e immancabile moleskine nero è diventato oggetto di culto almeno quanto accessorio ricorrente dei giovani di tante generazioni.«La scrittura è la pittura della voce» aveva annotato sul suo taccuino Chatwin, che possedeva, per usare le parole di Nicholas Murray «un talento definito incantatore per raccontare storie, unito ad un’energia intellettuale che non conosceva soste». Murray è l’autore de L’alternativa nomade, prima biografia italiana di Chatwin (Settimo Sigillo, 1994) realizzata a cura di Chiara Dell’Aglio e Maria Cristina De Angelis. Alessandro Campi, che come direttore della collana Disenciclopedia ne ha voluto fortemente la pubblicazione, presenta Chatwin come «un individualista antiborghese, un aristocratico affascinato dalle personalità fuori dal comune».«Se una definizione gli si può dare», scrive Stenio Solinas, autore della prefazione, «è quella di anarchico di destra». Se è vero, come ritiene Murray, che Chatwin manifestasse «idee genericamente di sinistra» e «votasse laburista», come assicura la Clapp, Solinas osserva come questo stridesse «con i suoi atteggiamenti quotidiani, quelli tipici di un conservatore, e con la sua ribadita antipatia per hippies ed esponenti della “controcultura” della contestazione, ai quali imputava di aver corrotto a colpi di marxismo e, nel nome di un implicito etnocentrismo, tradizioni secolari».Eppure il mito Chatwin piace anche a sinistra, nonostante, sempre per rimanere alle parole di Solinas, «l’individualismo di Chatwin, la sua asocialità, il dandismo e l’estetismo che lo caratterizzavano, il non essersi mai scaldato per alcune di quelle cause per cui la Sinistra invece aveva preso fuoco (pacifismo, contestazione, terzomondismo), il non aver fatto mai parte della schiera di intellettuali petulanti e firmaioli, apostoli dell’impegno a senso unico che hanno funestato l’ultimo trentennio, sarebbero dovuti fungere da deterrente».Nel ‘68 gli studenti erigevano barricate, ma gli avvenimenti del maggio ‘68, racconta Shakespeare, «gli passarono accanto inosservati».Politicamente non era affatto un «ingenuo», come affermava invece l’amico Salman Rushdie. Come spiega Stenio Solinas nel suo bellissimo libro di «una educazione intellettuale» Compagni di solitudine (Ponte alle grazie, 1999), aveva idee precise: «Non si era appassionato al comunismo sovietico, né ai cataclismi della rivoluzione culturale cinese, né al marxismo in salsa hippie-pacifista. Rifiutava ogni totalitarismo, non credeva alle “magnifiche sorti e progressive”, e quindi ad un concetto indefinito di progresso. Non riteneva i sistemi di governo esportabili come fossero un paio di scarpe; detestava “l’internazionalismo specioso”. Non amava il sistema capitalistico basato sul consumo e sul profitto, ma rifuggiva da ogni terzomondismo d’accatto così come da ogni neocolonialismo di ritorno».E’ stato un grande scrittore? Sicuramente sì. Ma forse si potrebbe rivolgere a Chatwin, troppo impegnato «a fuggire da ciò che era per cercare di essere qualcos’altro», la stessa obiezione che Morand si sentì rivolgere da un’amica: «Non avete scritto il libro che avreste potuto scrivere perché avete avuto una vita troppo bella». E con lo scrittore francese molte erano le cose che aveva in comune, soprattutto la passione per i viaggi e l’indole aristocratica. E poi, come ha scritto Shakespeare, «i collaborazionisti esercitavano una forte attrazione su Bruce, che non rispettava nessuna ferrea linea di comportamento politico».Oltre a Morand, ammirava Malaparte, Drieu La Rochelle e Henry de Montherlant. E nel 1974, intervistando per il Sunday Time Junger, nei confronti del quale nutriva, come ha scritto il critico John Russel, «un’illimitata e ossessiva considerazione», Chatwin chiederà al letterato tedesco proprio una testimonianza su Montherlant.E Junger ricambierà tale simpatia, tanto da mostrargli una fotocopia del sangue sparso sul biglietto lasciato dal suo amico Montherlant al momento del suicidio.Tra gli autori che più lo affascinavano, troviamo Flaubert, Byron, il primo Hemingway e l’autore del Viaggio in Armenia, Osip Mandel’stam, «il più importante scrittore russo liquidato dal cannibale del Cremlino», come Chatwin chiamava Stalin. Ma leggeva e apprezzava anche Spengler e Borges. «Non si può andare da nessuna parte senza aver messo un Borges nella valigia».Soprattutto Chatwin non amava essere definito uno scrittore di viaggi: «mi ha sempre irritato. Per questo ho scritto qualcosa su due personaggi che non si sono mai mossi da casa». Il romanzo è Sulla collina nera. Era consapevole che «nessun uomo può vagabondare senza una base. Bisogna avere una sorta di cerchio magico a cui si appartiene. Non è necessariamente il posto in cui si è nati o in cui si è stati allevati. E’ un posto con cui ci si identifica».Per Bruce quel luogo, «il centro emotivo della mia vita», era senz’altro il Galles celtico dove aveva ambientato il racconto, una zona che la Clapp descrive così: «zona di cieli alti e chiese basse, di vecchie famiglie di contadini, di coloni solitari e stravaganti: dagli anni Sessanta si è popolata di alternativi. I più irrequieti non sempre sono stati ben accolti dalla gente del posto, tanto che nei paesi comparivano spesso cartelli con la scritta QUI NIENTE HIPPIE». Motivo di più per Chatwin di sentirsi a casa.
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