Dal Secolo d'Italia del 10 maggio 2006
rubrica “Sei un mito”
«Raimondo al Quirinale». Largo ai giovani, che, se Ciampi è del 1920, Vianello è del 1922, 84 anni compiuti pochi giorni fa, il 7 maggio. L’idea non è originale ma rimane attuale, come sanno essere attuali solo le persone antiche. Sette anni fa, è Pietrangelo Buttafuoco dalle colonne de Il Foglio a lanciare la campagna per Vianello alla presidenza della Repubblica. E, siccome a volte i numeri hanno la loro importanza, Sette, come si chiamava fino all’altro ieri il magazine del Corsera, dedicò all’attore romano la copertina. E rieccoci qua, alle prese con la scelta del primo cittadino d’Italia, ma Vianello non figura in nessuna rosa di nomi.Eppure è «un custode dinamico della memoria, un moloch televisivo», come lo definisce Angelo Mellone nel suo recentissimo Dì qualcosa di destra. Da Caterna va in città a Paolo Di Canio (Marsilio): «E’ riuscito ad incarnare il lato goliardico dell’identità della coppia italiana insieme alla moglie Sandra Mondaini».Spassose, al riguardo, le sue battute: «Se mi guardo indietro non ho pentimenti. Dovessi ricominciare farei esattamente tutto quello che ho fatto. Tutto. Mi risposerei anche. Con un’altra, naturalmente». Difficile credergli, più seriamente risponde la moglie: «Ci siamo trovati sulle cose basilari, l’amore per la famiglia, l’assenza di avidità e di ambizione. Se avessi avuto un marito ambizioso mi avrebbe dato fastidio».«La felicità è sapersi accontentare» afferma lui, consapevole di come «il segreto della mia lunga carriera sia stato, come per Corrado (l’indimenticato presentatore, ndr), quello di non essere mai in prima pagina, niente fuochi d’artificio mondani, niente paparazzi alle costole».Ma nonostante il carattere schivo, sobrio, distaccato ed ironico, da antidivo per eccellenza, Raimondo Vianello è un mito che supera i confini del piccolo schermo, uno dei pochissimi personaggi del mondo dello spettacolo capace di farsi apprezzare da un pubblico vasto quanto affezionato, nel quale si mescolano disinvoltamente più generazioni. Un punto di riferimento anche per i nuovi comici, troppo spesso capaci solo di fare satira militante e a senso unico. Enrico Bartolino lo ha recentemente riconosciuto, criticando «la satira urlata, la caciara e l’eccessiva regionalizzazione di comici come Panariello» e concludendo: «A noi comici manca la classe di Vianello».E Raimondo la sua fama se l’è costruita un pezzettino alla volta, iniziando giovanissimo e quasi per caso, per poi reinventarsi continuamente, imponendo uno stile che, se non risultasse irriverente, definiremmo senza esitazioni quirinalizio. A partire dal fisico da granatiere. Altissimo, magro, slanciato, biondo, una fisionomia nordica accompagnata da un senso dell’umorismo sottile, colto, caustico ma mai volgare, disincantato senza essere cinico, un vero gentlman nell’aspetto e nei modi.E non è un caso se nel 1945, nel Cantachiaro n.2, prima rivista satirica del dopoguerra ideata da Garinei e Giovannini, debutta proprio nel ruolo di un ufficiale, nonostante la sua esperienza da militare non fosse stata delle più felici. Bersagliere, aveva aderito all’esercito della Rsi «per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: “Vianello, si salvi chi può!”».Così Vianello ritenne di «non volersi perdere la sconfitta», per usare le parole di un altro repubblichino, Mauro De Mauro, il giornalista siciliano ammazzato dalla mafia nel 1970. Scelta che costò a Vianello la detenzione nel campo di concentramento americano di Coltano, insieme ad altri futuri colleghi come Walter Chiari o Enrico Maria Salerno.Decisione dolorosa, per i genitori, anche quella di fare l’attore. La madre, la marchesa Virgilia Accorteti e il padre Giulio, ammiraglio, avrebbero voluto che il figlio seguisse la carriera militare, diplomatica o, al limite quella forense, continuando a studiare giurisprudenza e, semmai, a sferrare qualche dritto nella celebre palestra Colombo di Roma. Ma l’incontro con il teatro di rivista rappresentò per il giovane Vianello «un colpo di fulmine».«Per mio padre fu come se gli avessero affondato la flotta» e, per lenirne il dispiacere, Raimondo acconsentì di modificare il cognome in Viani. Forse l’ammiraglio sarebbe stato contento, però, se fosse vissuto abbastanza per imbattersi nella recente pubblicità del Replica di Eberhard, un orologio di lusso ispirato ad un modello anni Trenta destinato agli ufficiali della Regia marina militare, così presentato: «Ironico, eclettico ed elegante. Se fosse una persona, sarebbe Raimondo Vianello».La carriera decolla quando passa nella compagnia di Wanda Osiris, la più grande soubrette di quei tempi. Collabora con Erminio Macario, Carlo Dapporto e Gino Bramieri, sino all’incontro determinante con Ugo Tognazzi, dal quale nasce quel sodalizio che li farà diventare la coppia più popolare della commedia all’italiana e della neonata tv degli anni Cinquanta e trasformerà Vianello prima nello scanzonato mattatore televisivo che conosciamo e poi, molti anni dopo, nell’ironico e raffinato conduttore di molti programmi di successo, tra cui quelli sportivi, nei quali coniugherà la sua passione per il calcio con la opportuna sdrammatizzazione delle tensioni sportive.Al successo Vianello e Tognazzi arrivano con il varietà televisivo Un, due, tre. Con quella trasmissione, gli italiani scoprono la tv, si trovano in casa dei pochi che la possiedono o nei bar che, grazie alla tv, attirano decine e decine di clienti. Il nome del programma si deve al fatto che in quel 20 gennaio del 1954 le telecamere nello studio tv sono solo tre, appunto la uno, la due e la tre. E’ una televisione molto diversa da quella attuale, artigianale, nella quale gli effetti speciali ancora non prevalgono sui testi, curatissimi. Le battute fulminanti e gli esilaranti sketch dei due attori, fanno la fortuna di ben sette edizioni. Sino a quando i vertici Rai decidono, nel 1959, di punire la presunta irriverenza di una innocente parodia del presidente Gronchi che, nell’ambito di una serata in onore del capo di Stato francese Charles De Gaulle, era scivolato e caduto nel palco reale della Scala. Il programma viene sospeso di lì a poco.Difficile riassumere giornalisticamente le carriere di Vianello, la cui versatilità lo ha portato a cimentarsi con successo in molte avventure artistiche. Lunga la sua collaborazione con Steno, sia come attore che come sceneggiatore di commedie ben riuscite, spesso con protagonista Lando Buzzanca, nelle quali demolisce con divertente ma pungente sarcasmo i miti della cultura di massa, la virilità del maschio italiano, la liberazione sessuale, la contestazione giovanile e il dongiovannismo.Importantissimo l’incontro con Sandra Mondani, soubrette sui generis, prima donna di spettacolo italiana a scegliere il lato comico del varietà, quello per cui era indispensabile saper recitare. Si sposeranno nel 1961 e, non avendo figli, adotteranno un’intera famiglia di filippini.Come attore Vianello è comparso in ben cinquanta film di genere, due dei quali a fianco addirittura del grande Totò: Totò sceicco (1950) e Totò diabolicus (1962). Ma alla fine sceglierà di lavorare in televisione, prima in Rai e poi, dal 1982, in Mediaset, attirandosi – come altri artisti che in quegli anni lasciarono la tv pubblica per quella commerciale – critiche anche feroci.«Ma come fai a fidarti di quel palazzinaro?», così Mike Buongiorno raccontò il tentativo della Rai per trattenerlo.Vianello non nasconderà la sua simpatia, anche politica, per quel “palazzinaro”. Nel 1994, durante la trasmissione sportiva di cui è conduttore, Pressing, dichiara di votare per Berlusconi, «l’unico politico che conosco personalmente». Nel 2006 è la volta della moglie, nel corso di Verissimo, programma a metà strada tra informazione e gossip, a dichiarare il proprio «affetto» per il leader del centrodestra, «un uomo che bisogna conoscere per amare». A sinistra c’è chi ha ritenuto incresciose queste dichiarazioni “politiche”, lamentando come possano risultare tanto più condizionanti se espresse da beniamini del grande pubblico in trasmissioni, come Verissimo, che hanno due milioni e mezzo di telespettatori, molti di più dei programmi politici per nottambuli come Matrix e Porta a porta. Ma dietro all’aplomb britannico di Vianello, che ne ha fatto un’icona rassicurante del presentatore gentiluomo, non c’è alcuna accondiscendenza verso il potere, né tanto meno alcun timore reverenziale per la critica militante.L’attore, che nel 1972 si è tolto lo sfizio di sconfiggere un insidioso tumore al rene, non ha mai perso il gusto per la battuta sferzante. Nel 1988, presentando il festival di Sanremo, commenta: «Il festival? Sono diversi anni che non lo seguo»In un’intervista, a chi gli chiede quale trasmissione vorrebbe ancora fare, risponde sornione: «Mi piacerebbe fare “Carramba che sorpresa” al contrario. E poter dire all’ospite: Le piacerebbe poter riabbracciare suo fratello emigrato in Australia nel ’54? Ebbene non è possibile perché è morto!»Vianello è capace, ancora oggi, di stupire per la sua verve sempre brillante. Negli ultimi anni ha continuato a farci sorridere raccontando, nel suo personalissimo stile, equivoci, tic, bisticci, piccole manie della sua vita matrimoniale, naturalmente resa in farsa.Attento al nuovo, in Casa Vianello, e poi in Cascina Vianello, ha saputo magistralmente conciliare un genere assolutamente moderno, la situation comedy americana, con una comicità tutta italiana, aprendo la strada al successo di sitcom giovanili come Camera Café e Love Bugs.Raimondo, ovviamente, non sarà mai presidente della Repubblica e, per nostra fortuna, neanche senatore a vita, continuerà ad essere se stesso e a fare, mirabilmente bene, il proprio mestiere. Gli auguriamo altri settennati di vita. Lui, nel frattempo, con la caratteristica autoironia, sì è già scelto l’epitaffio: «Dopo la morte mi piacerebbe venire ricordato
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