sabato 9 dicembre 2006

Pinketts, il fidanzato della notte in giallo

Dal Secolo d'Italia del 24 maggio 2006
rubrica "Sei un mito"

Il quotidiano francese Le Figaro lo ha definito una leggenda vivente. Linda Lee Bukowski, vedova dell’indimenticato Charles, ne sta facendo tradurre tutte le opere in inglese. Fernanda Pivano lo ritiene senza esitazioni un «grande scrittore, l’unico cowboy metropolitano della letteratura». E non sono mancati paragoni lusinghieri, «il Carmelo Bene degli scrittori noir italiani», e interdisciplinari, «il Vasco Rossi della letteratura», a conferma della versatilità di un talento troppo esuberante ed indisciplinato per rimanere confinato in un genere.Parliamo di Andrea G. Pinketts, autore di una ventina di libri di successo. Classe ’61, milanese con sangue triestino, deve il cognome al nonno irlandese, di Cork, mentre la G, con vezzo narcisista, l’ha aggiunta lui e sta per genio.«Capii che ero diventato un classico: grazie ai ragazzi, come Manzoni e Foscolo, venivo letto a scuola. Con la differenza che io venivo letto sotto al banco».Ed è forse proprio per la personalità spavalda e anticonformista e per la caratteriale «tendenza all’insubordinazione da disadattato recidivo» che Pinketts è molto popolare tra i giovani, dei quali ben conosce linguaggio, riti, luoghi e immaginario.«Le mie storie non sono figlie della letteratura, ma di molti altri media, i fumetti, i juke box, i flipper, della televisione in bianco e nero e della televisione satellitare». Un calderone quasi magico, un frullatore impazzito in cui si mescolano calembours, trame surreali che lambiscono il fantastico, giochi di parole, paradossi, il tutto tenuto insieme da quello che Pinketts chiama «il senso della frase» e altro non è che la consapevolezza e la capacità dello scrittore di… genio.Eccessivo sino a sembrare invasato, teatrale e provocatorio, Pinketts possiede, in un ambiente spesso spudoratamente autoreferenziale quale quello letterario, anche la rara capacità di ridere di se stesso: «sono un incrocio tra Fonzie e Einstein».Dichiara di coltivare passionacce per «le cattive compagnie, la letteratura – ma non quella togata – i bar equivoci, i sigari – cubani o antichi toscani - e le donne, non necessariamente in questo ordine». Queste ultime le predilige «angelicate o, in alternativa, mignottone». Meglio se numerose. Le Kessler gli piacevano soprattutto «perché erano due».Il suo cantante preferito rimane Fred Buscaglione, anche se «la colonna sonora dei miei libri non solo dal punto di vista musicale ma perfino narrativo è il Sergio Caputo di dieci anni fa, la mia musica è lo swing, quella che più si avvicina alla mia scrittura». L’attore di riferimento è l’inossidabile John Wayne e tra gli scrittori figurano «i maestri» Bukowski e Fante, ma anche gli arcitaliani Piovene, Buzzati e Pitigrilli e, non ultimi, i futuristi Marinetti, Gallian e Mazza.Uomo dai mille mestieri, fotomodello, «cacciatore di dote», istruttore di arti marziali e di Kendo, la scherma giapponese, copywriter, giornalista prima ancora di scrittore, Pinketts si vanta di aver fatto studi irregolari così come di avere frequentazioni altrettanto irregolari, tra le quali rivendica l’amicizia con Califano: «una questione di palle più che di pelle».Allergico alla cultura ma senza sentire l’esigenza di impugnare il revolver, si limita a sparare le sue battute corrosive: «Intellettuale? Mi sento male solo a sentir pronunciare questa parola». La Pivano, che lo conosce bene, assicura che è un «duro con il cuore di meringa» e forse ha ragione, ma l’importante è non definirlo giallista.«Il giallo è un po’ come la corsa dell’oro dei minatori americani. Oggi chiunque scrive un giallo lo fa perché è convinto che tiri» e indubbiamente da qualche anno il giallo è una moda, fa tendenza e gli editori si contendono i “giallisti” con la stessa interessata avidità con cui le veline e le società calcistiche si litigano i calciatori.Da scrittori di un genere minore, disprezzato dalla critica militante, a celebrate star televisive, i giallisti appartengono ad una razza glorificata, i cui astri italiani, Lucarelli, Camilleri e Faletti, brillano negli scaffali nobili delle librerie, consumando edizioni su edizioni e scalando le classifiche delle vendite con una disinvoltura imbarazzante per la concorrenza. Intendiamoci, anche Pinketts vende. E non solo in Italia. In Francia, in particolare, va via come il pane, neanche fosse una baguette. Tanto da vincere la prima edizione di un premio internazionale, il Pol’art, che giudica il giallo sposato all’arte.Assicura di stimare i colleghi, «Lucarelli e io nel giallo siamo Coppi e Bartali, anche se io sono più bello, lui non lo vedrei come dandy, è sempre vestito di nero e si sta inchiattendo», ma, più che giallista, Pinketts si ritiene uno scrittore di noir, «un genere complesso che ti permette di descrivere il lato oscuro della città, non il semplice poliziesco».E in una saletta-cripta per iniziati del Boulevard Café di corso Garibaldi, qualche anno fa, ha fondato un vero e proprio movimento letterario, la Scuola dei Duri, improntata all’hard boiler di Raymond Chandler.L’obiettivo è fare «l’analisi della società attraverso la detective story, esplorare la città attraverso il linguaggio più estremo, che è quello del crimine».L’imperativo pinkettsiano era quello di «mostrare il lato oscuro degli anni Ottanta, la Milano da bere, così come era stato fatto da altri per un’altra epoca di apparente benessere».«Io ho voluto mostrare gli anni Ottanta col noir», ha spiegato Pinketts ispirandosi a Giorgio Scerbanenco, l’autore «atroce e sublime» che ha saputo raccontare «l’altra faccia degli anni Sessanta» e del quale si sente «il nipotino, insieme a Fois e a Lucarelli».Riconoscimento certificato con la vittoria, nel 1996, della prima edizione del prestigioso premio che prende il nome proprio da Scerbanenco.Ne Il conto dell’ultima cena descrive così gli odiati Ottanta: «anni di piombo placcato oro da stilisti, modelle, assessori, aerobici». La sua avversione per gli «anni di plastica» di una città popolata di «squali, yuppie, creativi, cretini e modelle ereditate dallo sbarco in Normandia» è totale. «Non mi piace la Milano delle boutique, quella preconfezionata. Non mi piacciono gli yes man con i loro abiti tutti uguali. Quelli mi fanno paura. Sono quello che non avrei mai voluto essere e non sono».Una Milano che recentemente gli ha portato via anche Le Trottoir, il vecchio locale stile garibaldino, aperto a tutte le ore, dove amava scrivere, armato della sua Montblanc, «io scrivo con le mani, gli altri con i piedi». Sembrerebbe quasi una ritorsione: neanche a farlo apposta la trattoria, il cui nome significava ‘marciapiede’, «di cui il locale era prolungamento ideale», è stata sfrattata dalla Fondazione Trussardi.Una Milano vissuta soprattutto di notte. «Per molto tempo sono andato a letto tardi. Questa la differenza tra me e Proust».«La notte è una scelta, il giorno una necessità», spiega. «Vivere di notte è voler prolungare la vita; le situazioni non sono incasellate in orari ferroviari, ma diventano il treno per Yuma, il treno dei desideri di Paolo Conte. E ti puoi fermare all’ultimo distributore possibile. Che non è della Esso, ma della Esse, il super io». E nella notte il vero serial killer altri non è che «il vuoto, la morte civile e sociale».Giornalisticamente nasce a destra, nelle redazioni del Meridiano diretto da Franco Servello e del Candido di Pisanò, periodo che ricorda con nostalgia: «Ci davamo dentro contro i socialisti, era un giornale battagliero».Si occupa di nera per Il Giorno, fidanzandosi con la notte e imparando a guardare la realtà «sotto la luce livida dei neon delle sale stampe delle questure» fino a quando viene arruolato dall’Esquire.Con la famosa rivista americana, può dare libero sfogo alle capacità trasformistiche e all’innato istrionismo e trovare «la mia dimensione narrativa: la chanson des gestes ». Grazie a travestimenti stravaganti quanto ineccepibili, le sue inchieste hanno successo (nel 1991 riceve il premio Una Remington per la strada) e non soltanto in senso giornalistico.Le sue indagini sulle infiltrazioni camorristiche sulla riviera adriatica contribueranno a ben centosei arresti, tanto da meritarsi il titolo di Sceriffo, conferitogli con delibera dal Comune di Cattolica.Ed altrettanto scalpore susciterà l’inchiesta, condotta dal di dentro per il settimanale Panorama, sui satanisti di Bologna, tristemente noti come “Bambini di Satana”.A bruciare la sua copertura sarà paradossalmente proprio la crescente popolarità e la televisione, nella quale compare sempre più spesso, a puri fini promozionali, consapevole di come «Costanzo e chiunque lavori in tv siano grandi banalizzatori».La sua vita assomiglia sempre più ad un fumetto. Da intendersi letteralmente, perché – mito originale e controcorrente – Pinketts ha avuto la sua consacrazione proprio dal mondo dei fumetti. Cinque dei suoi racconti sono stati disegnati in un bellissimo volume omaggio intitolato I vizi di Pinketts (Edizioni BD, 2004).E non è la prima volta che lo scrittore milanese presta la sua faccia a Lazzaro Santandrea, il protagonista di diversi suoi romanzi. E’ una passione antica, quella di Pinketts per il fumetto, «cinema dei poveri» nella definizione di Sergio Bonelli, tanto da aver ideato egli stesso personaggi per una miniserie della Phoenix, poi realizzati graficamente da Maurizio Rosenzweig, come Laida Odius, «commesso di un supermercato del reparto latticini che di sera si trasforma in eroe fetish».E Pinketts ha avuto persino il privilegio di fare delle “comparsate” nelle più famose storie bonelliane. In Mister No, la mitica serie che purtroppo morirà in estate, un Pinketts di carta gestisce il Pink Bar di Manaus. Ma Pinketts preferisce sempre Tex, perché «è un ranger ma è anche capo dei navajos e coniuga due culture antitetiche». E pur amando «le atmosfere dark e camp di Batman» non disprezza il Topolino di Walt Disney, ma soprattutto quando fa il detective e «in quei panni diventa l’oltre uomo, superando l’americano medio che solitamente incarna».


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