Dal Secolo d'Italia del 7 giugno 2006
rubrica "Sei un mito"
Dobbiamo rassegnarci. Le icone degli anni Ottanta, che hanno condizionato l’adolescenza e la giovinezza di chi è nato nei Sessanta, stanno per essere rottamate, inevitabilmente. Inutile protestare, organizzare girotondi e firmare appelli, renderemmo solo più amaro il passaggio di consegne.E’ vero che, a distanza di più di mezzo secolo dall’incidente che ne causò la morte a soli ventiquattro anni, il mito di James Dean, ribelle senza causa, resiste tenacemente. Così come va detto che il nietzscheiano “re lucertola” Jim Morrison e quel teppista evergreen di Che Guevara, rispettivamente morti il 2 luglio del 1971 e il 9 ottobre del 1967, continuano a tener duro da decenni, contendendosi a colpi di pose accattivanti, aureole spinate contro sigari cubani, poster e t-shirt delle generazioni post settantottine. Ma decisamente minore fortuna sembrano avere avuto i miti degli anni post ideologici.Anche volendo, sarebbe impossibile, per un pur bravissimo John Travolta, sempre più a suo agio sul set ma irrimediabilmente imbolsito, rindossare gli attillatissimi panni di Tony Manero ne La febbre del sabato sera o quelli di pelle di Danny Zucco in Grease.Il Tempo delle mele è ormai preistoria e Sophie Marceau (classe 1966), indubbiamente più affascinante ora rispetto all’acerba ragazzina del 1981, non accetterebbe per niente al mondo di ballare ancora una volta con Pierre Cosso la famigerata Reality di un Richard Sanderson tornato nell’oblio da cui proveniva.L'attore Gary Coleman, famosissimo interprete del bambino Arnold nell’omonima serie televisiva, affetto da una rara forma di nanismo, ha avuto seri problemi con alcol e droga e adesso pare lavori come agente di sicurezza in un supermercato.Michel J. Fox, altro volto degli Ottanta, da anni combatte, personalmente e con la fondazione cui ha dato il suo nome, contro il Parkinson e all’età di 45 anni suonati ha rifiutato sdegnosamente di interpretare l’ennesimo episodio della fortunata saga Ritorno al futuro.Il 30 maggio dello scorso anno, infine, a segnare la fine di un’epoca gloriosa, è venuto a mancare Antonio Colonnello, voce italiana di Larry Hagman, il J. R. Ewing di Dallas, di Clint Eastwood, dello stesso John Travolta, ma soprattutto di Henry Winkler, il Fonzie di Happy Days.La leggendaria serie di telefilm americani arrivò in Italia nel 1977 ed ottenne un incredibile consenso di pubblico, seducendo più d’una generazione ed alimentando un culto che si è poi trascinato stancamente, di replica in replica, sino ai giorni nostri.Ora però, che non abbiamo più notizie di Magnum P.I. e i giovanissimi pensano si tratti solo di un gelato confezionato e nessuno ricorda che i mitici Marillion avevano scelto il loro nome in onore del Silmerillion di Tolkien, possiamo porci serenamente il fatidico interrogativo di Raf: Cosa resterà degli anni Ottanta?Difficile rispondere, i film che ora impazzano al cinema, come l’acclamato Notte prima degli esami di Fausto Brizzi, non ci rendono giustizia del tutto e non possiamo accontentarci delle pur brillanti didascalie di Alessandro Piperno.Sappiamo, però, cosa non resterà.E’ questione di settimane, ormai, e Mister No cesserà le pubblicazioni.Abbiamo impiegato anni per accettare la dipartita di Corto Maltese di Hugo Pratt e rassegnarci all’avvento dell’era di Dylan Dog. L’indagatore dell’incubo, astemio, vegetariano e politicamente schierato (naturalmente a sinistra), è tra i personaggi bonelliani il più insopportabilmente conformista. Mai avremmo pensato, invece, di perdere l’antieroe di carta che più di ogni altro ha alimentato la “scorrettezza” politica e culturale di una generazione molto diversa dalle infiocchettate, telegeniche e cinematografiche rappresentazioni postume.La mitica collana, nata nel lontano 1975 e giunta al numero 373 con l’albo di giugno, si concluderà entro l’estate. Jerome “Jerry” Drake, lo spiantato e scanzonato pilota nord-americano, irriverente e guascone, che risponde al nome di Mister No, potrà godersi la meritata pensione.La decisione, sofferta e irrevocabile, è stata annunciata dal padre di Mister No, Sergio Bonelli (Milano, 1932), figlio di Gian Luigi, creatore a sua volta di un altro colosso di carta, l’inossidabile Tex Willer, mito bipartisan degli ormai ex ragazzi dei Cinquanta.C’è molto delle esperienze e delle passioni di Bonelli in Mister No, a cominciare dall’amore per l’Amazzonia. Ed è proprio Manaus, nell’incontaminata foresta dei primissimi anni Cinquanta, descritta con rigore documentaristico, abitata da tribù indie ancora selvagge, il contesto scelto per ambientare le storie avventurose di Mister No e del suo migliore amico Otto Kruger, detto Esse-Esse, ex soldato tedesco e ribelle in servizio permanente.Mister No si guadagna da vivere, quel poco che gli basta, trasportando i turisti a bordo del suo Piper, talmente sgangherato da partire solo se sollecitato con un calcione al pannello di controllo.Pigro sino all’indolenza ma insofferente ad ogni compromesso e ingiustizia, non si tira indietro se c’è da menare le mani per combattere contro corruzione, minacce e prevaricazioni.Bonelli trasse ispirazione proprio dall’incontro con un pilota d’aereo che lo portò fino ad un tempio maya tra gli indios Lacandones:«Fu a Palenque, in Messico, che incontrai, in un aeroporto fatiscente, un giovanotto simpatico e perfino bello da vedersi, che indossava un giubbotto di pelle e si faceva chiamare Capitan Vega».A metà degli anni Settanta andava di moda il western, sia nel cinema che nel fumetto, e far debuttare un personaggio dissoluto e contraddittorio, fuori dagli schemi, umano, troppo umano, un individualista privo di ambizioni e di motivazioni ideologiche, costituiva senz’altro una sfida coraggiosa.Perché, più che un eroe tradizionale, Mister No è un antieroe che non esita ad ostentare i propri difetti e non chiede di meglio che starsene per proprio conto a fumare e bere whisky o la più economica cachaça, senza velleitarismi rivoluzionari e sfoggio di buoni sentimenti.Al suo fianco non c’è la presenza rassicurante di una fidanzata, Jerry flirta indistintamente con le ragazze di Manaus e le turiste, donne seducenti e maliziose come mai si erano viste prima nei fumetti per ragazzi.Mister No è uno spirito libero, «un eroe controvoglia», un ex prigioniero di guerra che, «ritornato negli Stati Uniti dopo la fine della seconda guerra mondiale, non riesce più ad ambientarsi nella società americana».Tenente pilota poco amante della disciplina, deve il suo soprannome all’ostinazione con cui si rifiuta di obbedire agli ordini quando vanno contro il suo personale senso dell’onore.E’ il disegnatore Roberto Diso (Roma, 1932), autore – tra l’altro – della copertina della prima edizione (Settimo Sigillo, 1999) del romanzo di Gabriele Marconi, Io non scordo (successivamente ristampato da Fazi), a dargli sin dai primissimi numeri la fisionomia che conosciamo: un uomo giovane e vigoroso, con i capelli bianchi sulle tempie.Il look, maglietta con un quadrifoglio rosso sul braccio sinistro, jeans aderenti e scarponi con ghette da militare, lo avvicina a ribelli disincantati e libertari, innamorati della strada e del jazz, come James Dean, Marlon Brando e Jack Kerouac. Con l’autore di Sulla strada, incontrato per caso in un bar di New York, Mister No darà vita ad un intreccio “noir” con una terza persona, il sassofonista di colore Curtis Webster che ricorda tanto il leggendario Charlie Parker. E non è un caso che la colonna sonora della collana sia Body and Soul e quando il nostro è di buonumore canticchi “When the Saints Go Marchin’in”.Quando il fumetto arrivò in edicola nel giugno ’75, firmato dallo stesso Bonelli con lo pseudonimo di Guido Nolitta, l’idea era di farne una miniserie di pochi numeri, non immaginando che questo «nuovo esplosivo personaggio» (come viene presentato nella prima copertina realizzata da Gallieno Ferri) avrebbe raccolto immediatamente le simpatie di un numero crescente di lettori, vendendo ben 200.000 copie e registrando il tutto esaurito in edicola.La cronologia della prima storia segna il ’51. In una agenzia viaggi newyorkese, la Coen & Brother, il simpatico titolare, rivolto ai lettori, si esibisce in una infervorata ed introduttiva promozione turistica: «Volete evitare la folla? Siete in cerca di un posto dove poter vivere tranquilli, lontani dalla bolgia della moderna civiltà? Siete dei tipi solitari e poco socievoli? L’Amazzonia o, per essere più precisi, Manaus. Ci ho mandato un mio amico, reduce dalla guerra, un tipo tanto scorbutico, incontentabile e rognoso da essersi meritato il soprannome di Mister No».Incipit che si ripete nel n. 364 del settembre 2005, Qualcosa è cambiato, il primo albo del ciclo che porterà alla conclusione definitiva della serie.Trasportati con un balzo temporale di quasi vent’anni nel 1969, ci troviamo nella stessa agenzia, con l’invecchiato titolare che lamenta come a Manaus «le cose sono cambiate e in peggio», tanto da non essere più «la cittadina sonnolenta e tranquilla, in declino dopo essere stata capitale del commercio del caucciù».Anche Mister No, facendovi ritorno dopo un’assenza di due anni, la troverà sin troppo simile alla «periferia di New York, anzi di Detroit oppure di Tokyo».Bonelli spiega come, pur rifuggendo da ogni «sensazione di sconfitta», Mister No sia «un eroe rassegnato, ormai consapevole di aver combattuto troppe battaglie». Non ne siamo convinti. Preferiamo pensare che si conceda finalmente un volo di notte e scompaia nel mistero con il suo Piper come fece Antoine de Saint Exupery nel luglio del ’44.Da parte nostra non rimane che congedarlo con le parole di Joseph Conrad in Lord Jim: «Se ne va col suo cuore imperscrutabile e può ben darsi che, nel breve attimo del suo ultimo sguardo fermo e superbo, abbia veduto il volto di quella occasione che gli si era messa al fianco tutta velata come una sposa orientale. Se ne va per celebrare nozze con una vaga idealità di condotta. E’ soddisfatto ora? Dovremmo saperlo. E’ uno di noi».
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