sabato 9 dicembre 2006

Carver, un cantore per i perdenti

Dal mensile Area, aprile 2001
«Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo ed unico principio morale della scrittura». E’ Raymond Carver a citare questa frase di Ezra Pound per definire il «mestiere di scrivere». Ed è proprio la sua scrittura essenziale, che, come dice egli stesso, non fa «pretenzioso» sfoggio di cultura, che non rincorre «sperimentalismi troppo spesso usati come una specie di licenza per scrivere in modo sciatto, sciocco o mimetico», che si limita a raccontare le desolanti vicende di poveri eroi della quotidianità che cercano solo di «fare il loro meglio», a rendere questo impareggiabile cantore del mondo anonimo dei perdenti un vero maestro di scrittura.
Carver è allo stesso tempo uno dei più lucidi e disincantati osservatori delle contraddizioni e dell’illusorietà del sogno americano, dei falsi valori, dell’incomunicabilità e della forza disgregatrice della società moderna. Considerato il padre del “minimalismo”, etichetta che ha sempre sdegnosamente rifiutato, rivendicando polemicamente per se quella di “precisionista”, è riconosciuto come uno dei più grandi scrittori del Novecento. I suoi racconti, tradotti in oltre venti lingue, sono stati definiti dal New York Times Book Review «veri capolavori della letteratura americana».
Nei suoi libri non vivono dei “personaggi”, ma persone semplici, alle prese con infinite difficoltà, con vite avare di soddisfazioni, «gente che se l’è passata e se la passa male», che non ha altra occupazione che vivere, smarrita ed impreparata ad affrontare il confronto con una società spietatamente competitiva come quella americana. Per ognuno c’è comprensione e compassione, senza ridondante compiacimento e traccia di enfasi retorica.
Quando Carver venne tradotto per le prime volte in Italia, a metà dei luccicanti anni Ottanta, non suscitò entusiasmi, venne accolto con indifferenza, se non con fastidio e presto dimenticato. Chi era quest’autore che si permetteva di mettere in discussione una società che sembrava avviata, in una crescita a dismisura dei consumi, verso un irrefrenabile progresso?
Se oggi Carver è stato “riscoperto” anche in Italia il merito è da ascrivere alla Minimum Fax, la piccola ma determinata casa editrice romana di Marco Cassini, che negli ultimi anni ha scatenato un’incalzante iniziativa editoriale istituendo una collana a lui interamente dedicata, I libri di Carver, con il dichiarato intento di offrire ai lettori italiani l’intera opera omnia dello scrittore americano. Poche settimane fa è arrivato in libreria, impreziosito da una postfazione di Salman Rushdie, il sesto volume della collana, Il nuovo sentiero per la cascata. Si tratta della raccolta, curata nei primi mesi del 1988, dallo stesso Carver poco prima di morire, di una cinquantina di poesie. Fu proprio la consapevolezza di essere stato colto da un male terribile e incurabile, un tumore ai polmoni, a spingerlo a mettere ordine nei suoi lavori. Con queste struggenti poesie Ray dichiara il suo amore per la vita ed esprime la sua riconoscenza per l’essersi «sentito amato su questa terra».
E’ atteso invece per l’estate il settimo volume della collana, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (racconti)*, mentre, dei libri pubblicati da Minimum Fax, è ormai esaurito Racconti in forma di poesia (1999). Va segnalata, inoltre, grazie all’intraprendenza dell’editore, la pubblicazione, in prima mondiale, di cinque racconti assolutamente inediti, Se hai bisogno, chiama (2000). La raccolta ha purtroppo segnato, come scrive Tess Gallagher nell’introduzione, «la fine della fine» degli scritti di Carver sinora sfuggiti alla stampa.
Ma diciamo qualcosa di più della vita, molto simile a quella dei protagonisti dei suoi racconti, di questo autore anticonformista ben diverso dal cliché di scrittore che “posa a maledetto” che gli è stato cucito addosso da una critica spesso superficiale.
Raymond Carver nasce il 25 maggio 1938 a Clatskaine, anonimo paese dell’Oregon, «una piccola città lungo il fiume Columbia», dove il padre lavora come operaio nella locale segheria e la madre «passa da un lavoro scadente ad un altro peggiore». Nel 1941 si trasferiscono a Yakima nello Stato di Washington, in una casa «che aveva il cesso di fuori» e dove «giravano sulla macchina più vecchia del paese». Si sposa giovanissimo con Maryann Burk e si stabilisce con la sua nuova famiglia in California, a Paradise, attratto da «una casa popolare con affitto basso» e da un irrinunciabile gusto per l’avventura. Per mantenere i due figli «durante quei feroci anni di paternità» è costretto a fare «sempre lavori di merda»: operaio in una segheria, uomo delle pulizie, fattorino, inserviente in una stazione di servizio, garzone in un magazzino, bibliotecario e portiere di notte in un ospedale. «Ditene un altro, l’ho fatto», chiosa sarcastico.
Nel 1958 decide di iscriversi come studente lavoratore all’Università, al Chico State College, e frequenta il corso di scrittura creativa di John Gardner, che lo inizia alla lettura di Conrad, Céline, Cechov, Harnack e Penn Warren. E’ Gardner che gli offre «le chiavi del suo ufficio all’università» consentendogli così di evadere dal caos familiare, dove i «bambini mi stavano mangiando vivo», e di scrivere in un luogo tranquillo.
Sceglie di dedicarsi a poesie e racconti, ma non ai romanzi. «Per scrivere un romanzo, mi sembrava, uno scrittore dovrebbe vivere in un mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere […] dovrebbe esserci una specie di fiducia nella correttezza di quel mondo e che valga la pena di scriverne».
In quegli anni «insaziabili» è «fuori di testa per la frustrazione». Sa bene «che gli scrittori erano gente che non passava il sabato in lavanderia e ogni ora di veglia alla mercé dei bisogni e dei capricci dei propri figli». Non si rassegna, continua a scrivere, anche se in maniera discontinua. Invia i suoi racconti a numerose riviste.
E’ Gordon Lish, caporedattore della narrativa dell’Esquire, ad acquistare e pubblicare nel 1963 il suo primo racconto sull’importante rivista. Inizia così una gavetta letteraria che dura interminabili anni.
Nel frattempo, poco più che trentenne, trova il suo primo lavoro da «colletti bianchi», redattore in una casa editrice di libri scolastici. Nel 1976 viene pubblicata in volume la sua prima importante raccolta di racconti Vuoi star zitta per favore? (Minimum Fax 2000), che ottiene una nomination per il National Book Award. E’ Carver stesso a spiegare le ragioni del lungo intervallo tra la composizione, la pubblicazione in rivista e quella in libro: «è dovuto al mio precoce matrimonio, alle esigenze del dover tirare su due figli, ai molti lavori umili che ho dovuto fare, a quel poco di istruzione universitaria che sono riuscito a procurarmi al volo. E poi non c’erano abbastanza soldi in cassa alla fine del mese».
Eppure, come a volte accade, proprio nel momento in cui «le cose non erano mai andate meglio», la sua vita «giunge al capolinea di un binario morto», quello della dipendenza dall’alcool, che lo accompagna per dieci anni minandone la salute, costringendolo a continui ricoveri per crisi etiliche e a lunghi periodi di inattività.
La sua notorietà tuttavia continua a crescere insieme con il numero dei suoi lettori, viene invitato in diverse università, insegna a sua volta scrittura con John Cheever allo Iowa Writers Workshop. Qui conosce Tess Gallagher, poetessa e docente universitaria, accanto alla quale ritrova la serenità necessaria per smettere di bere e cominciare una «seconda vita». Insieme lavorano ad una sceneggiatura sulla vita di Dostoevskij, commissionatagli nel 1982 da Michel Cimino per un film sul grande russo che non vedrà mai la luce. Rimane un bel libro, Dostoevskij, una sceneggiatura (Minimum Fax, 1998), che ripercorre i momenti salienti della vita dello scrittore russo, la sua condanna per tradimento e l’esilio in Siberia. Sono gli anni più felici e fertili professionalmente, nei quali consolida il meritato successo. Scrive a ritmi sostenuti, riceve premi e riconoscimenti mentre cresce tra i giovani scrittori un dichiarato desiderio di emulazione, diventa un riferimento per molti di loro.
Muore prematuramente, a soli cinquanta anni, il 2 agosto 1988. Fa appena in tempo a curare personalmente alcune raccolte da affidare alla stampa. Tra queste, l’antologia dei suoi trentasette racconti migliori, Da dove sto chiamando (pubblicata da Minimum Fax nel 1999, è già alla quinta edizione ed ha venduto oltre ventimila copie). Contiene molti dei suoi lavori migliori, tra cui Cattedrale, restituiti alla loro versione originale, ovvero reintegrati dall’autore con la rimozione delle correzioni subite precedentemente. Una piccola opportuna vendetta sugli “abusi” subiti in gioventù da editori troppo invadenti.
Un prezioso contributo, postumo, alla conoscenza del maestro delle short story viene invece da Tess Gallagher, che ha pubblicato, sempre per Minimum Fax, Io & Carver. Letteratura di una relazione (1999). Non mancano nella prima parte gli aspetti privati dell’uomo, qualche segreto sulla genesi delle opere e sul difficile rapporto con gli editori, mentre nella seconda la poetessa si sofferma sulla collaborazione avuta con il regista Robert Altman che, nel 1992, ha realizzato il film America oggi prendendo spunto da nove racconti di Carver.
Ricordiamo uno scrittore sincero, che non amava i primi della classe e i professionisti del buonismo: «Gli scrittori non hanno bisogno di ricorrere a trucchetti e trovatine, né sta scritto da nessuna parte che debbano essere i più in gamba di tutti». Una lezione, quest’ultima, che sarebbe opportuno recepissero molti letterati (o presunti tali) di casa nostra, afflitti da un incurabile complesso di superiorità fondato… sul nulla.
* La collana I libri di Carver della Minimum Fax si è impreziosita di altri volumi.

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