Dal Secolo d'Italia del 18 ottobre 2006
rubrica "Sei un mito"
Milioni di fans si apprestano a ricordarlo senza aver fatto in tempo a dimenticarlo. Perché nel calendario planetario della wrestlingmania il 13 novembre è una data marchiata a fuoco: soltanto un anno fa moriva “El caliente” o, se preferite, “Latino Heat”, all’anagrafe Eduardo Gory Guerrero Llanes, vero e proprio “mito” per gli appassionati che hanno applaudito le gesta de “La Raza” Guerrero, del gladiatore di una delle più famose famiglie di lottatori sudamericani di tutti i tempi. Stravagante disciplina senza disciplina, il wrestling, nella quale ogni scorrettezza non solo è consentita ma auspicata purché sia ostentata, resa in forma spettacolare. Arbitri distratti quanto sornioni sono pronti a voltarsi al momento giusto, quando la situazione “degenera” e i wrestler iniziano a picchiarsi – senza farsi davvero male - con sedie metalliche e qualsiasi cosa gli capiti sotto mano. E non a caso “cheat to win”, inganna per vincere, è il motto di Eddie, wrestler carismatico e dal temperamento esuberante, amato e rispettato, che, malgrado indossasse la maschera della cattiveria - «mi mancava qualcosa quando non ero cattivo» - e facesse della scorrettezza la propria bandiera, non riusciva a risultare antipatico come buona parte dei suoi avversari, primo tra tutti l’odioso John Bradshaw Layfield, conosciuto con il famigerato acronimo JBL. Forse perché, nonostante i guadagni milionari degli ultimi anni, Eddie continuava a puzzare di povertà e sembrava avere la polvere del Messico, paese d’origine mai rinnegato, ancora appiccicata sul viso. Forse perché in un mondo effimero come quello dello showbusiness, in cui ciò che appare prevale sulla realtà, Eddie sapeva dare alle cose e alle persone il giusto valore. Forse perché in quel poco che traspariva della sua vita privata non c’era alcuna traccia di fortuna, solo la determinazione di chi poco o nulla avrebbe voluto lasciare al caso.Qualcuno obietterà che nelle sue interviste non rimane granché di memorabile, mancano citazioni di scrittori significativi, ma in nessuna occasione ha tralasciato di sottolineare quanto fossero determinanti nella sua vita la moglie Vicky e le tre amatissime figlie, Shaul, Sherilyn e Kaylie. Negli ultimi anni era diventato molto religioso, aveva trovato conforto nella fede cristiana, senza avere la pretesa di spiegarne i motivi o convincere altri a seguirne la scelta. La sua è la storia di un perdente di successo, di uno che i colpi più duri li aveva incassati fuori dal ring e altrettanti aveva provato a restituirne, non sempre riuscendoci. Finendo spesso al tappeto e rialzandosi ogni volta più ammaccato. Saper cadere bene, del resto, è il segreto di ogni lottatore e Eddie l’aveva appreso dal padre.Percorso atipico quello di Eddie: la maggior parte dei wrestler vengono reclutati da adulti, nelle palestre, tra i sollevatori di pesi, tra “vecchi” atleti di altre discipline, sconosciuti o affermati come Kurt Angle, reduce da una vittoria alle olimpiadi ’96 di Atlanta. E’ inusuale che inizino a praticare il wrestling sin da bambini. Non si conosco altri, ad esempio, che ebbero il loro primo ring addirittura nell’orto di casa come lo ha avuto Eddie a Juarez, dov’era nato il 9 ottobre del ’67 e poi a El Paso, dove la famiglia si era trasferita. Gli altri bambini giocavano a pallone e a basket, lui trascorreva le sue giornate a darsele di santa ragione con fratelli e cugini sotto gli occhi compiaciuti di tutta la parentela. E il wrestling l’avrebbe seguito per tutta la vita, accompagnandolo prima a scuola e poi all’università del New Mexico sotto forma di una preziosa borsa di studio da wrestler. Ma fa più combattimenti che esami, frequenta palestre piuttosto che aule e lezioni. Entra nel circuito dei professionisti a soli 20 anni, quando – anche grazie al nome di famiglia – si spalancano per lui le porte della federazione messicana di wrestling indipendente. Nel ’89 conquista il primo titolo, il World Trios Title, assieme ai fratelli Chavo Sr. e Mando. Comincia a farsi notare anche fuori, ma le difficoltà sarebbero iniziate presto. Nel ’94 muore in circostanze misteriose (probabilmente per droga) il compagno con il quale combatteva in coppia, Art Barr, «per me più di un fratello fuori dal ring».In onore dell’amico ne adotterà la mossa finale: il salto della rana. Non so in cosa consista, ma basterà chiedere ai nostri figli per saperlo dettagliatamente. Di sicuro ad una persona normale basterebbe subirne una per rimanere invalidi a vita. E’ fuori dal ring che i wrestler diventano vulnerabili. Nel ’98, Guerrero rimane vittima di uno spaventoso incidente automobilistico. Viene sbalzato fuori dall’auto e vola per trenta metri, cadendo rovinosamente. Non è la stessa cosa che rotolarsi sul tappeto o venir giù dalle corde, come pure è allenato a fare. Riporta fratture multiple, persino la colonna vertebrale sembra compromessa. I medici gli lasciano poche speranze di tornare a praticare sport, ma dopo sei mesi è nuovamente in sella. Non è tipo da arrendersi.Fino all’ultimo match, che lo ha lasciato spalle a terra senza che nessun arbitro si precipitasse ad assestare le tradizionali tre manate sul tappeto per decretarne la sconfitta. Stavolta non c’è stato il colpo di scena, parte integrante nel copione sin troppo scontato degli incontri di wrestling. Eddie non è scattato in piedi con quel ghigno da guascone irriducibile che ne aveva fatto il beniamino di tutti coloro che ¬- «attratti dal sudore e dal sangue, dalla gratuità della cosa», per dirla con l’ussaro blu delle lettere francesi, Roger Nimier - amano la lotta, sia pure quando in essa - come nel wrestling - la simulazione gioca un ruolo fondamentale. E forse il più sorpreso è stato proprio Eddie. Perché pensava d’avercela fatta. Niente più miseria. Niente più alcool. Niente più droga. Da quattro anni era pulito, come suol dirsi di chi è uscito dal tunnel della dipendenza, iniziata proprio con l’abuso di analgesici per non sentire il dolore del suo corpo a pezzi. Poi aveva perso il controllo, era diventato un rifugio, un vizio. Nel 2001 viene arrestato per guida in stato di ubriachezza e, dopo essersi presentato completamente sbronzo in uno show televisivo, alla World Wrestling Entertainment - la federazione che l’aveva messo sotto contratto - non resta altro che sospenderlo e costringerlo a curarsi. Così decide di ricoverarsi in un centro di riabilitazione, ripartendo dalla gavetta e tornando a vincere, sino a quel fatidico giorno in cui il suo cuore, ormai minato, si è arrestato mentre si trovava da solo in una camera del Marriott Hotel di Minneapolis. Nel suo sangue nessuna traccia di sostanze illegali o dannose. Solo un’aspirina. A distanza di poche ore avrebbe dovuto affrontare due mastini non da poco: Dave Batista e Randy Orton. Ma a sconfiggerlo, ha detto il nipote Chavo - con il quale aveva formato anni prima il tag team “Los Guerreros”, vincendo vari titoli in coppia - sono stati «i suoi personali demoni», ben più minacciosi e imprevedibili di quegli energumeni che pure lo facevano sembrare quasi piccolo con i suoi centosettantacinque centimetri di altezza e i suoi cento chili di peso. «Essere un wrestler piccolo è sempre stato il problema della mia vita. Ma non è la grandezza del cane nella lotta che conta, ma la grandezza della lotta nel cane».Aveva sempre faticato per convincere tutti che con quei giganti poteva competere alla pari, facendosi largo a suon di colpi proibiti tra diffidenze e malcelato razzismo. Non si è fermato mai, neanche dopo aver vinto il mondiale WWE nel 2004, secondo ispanico ad aggiudicarsi un titolo così prestigioso, coronamento di una carriera ventennale passata da un ring ad un altro, dal Messico al Giappone - dove esibendosi come “Tigre Nera” - era altrettanto popolare che negli Stati Uniti. Ed era atteso anche in Europa, dove sono migliaia e migliaia gli appassionati di uno spettacolo che ha contagiato tutti, dai bambini delle elementari ai ragazzini delle medie senza escludere gli adulti. Il 15 novembre dello scorso anno, al Palalottomatica di Roma - primo appuntamento italiano del Survivor Series Tour, con tappe anche a Milano, Bolzano, Ancona e Livorno – ad aspettarlo c’era il tutto esaurito, tanto era l’entusiasmo con cui la capitale si apprestava ad accoglierlo insieme ad altri big come Chris Benoit, Rey Misterio e The Undertaker, che sarà il vincitore della giornata romana.Inevitabili le polemiche che accompagnarono l’evento. Il Codacons reclamava la sospensione del tour: «Non solo in segno di lutto ma perché il wrestling risulta diseducativo per i minori». Associazioni e parlamentari chiedevano di bandirlo dal teleschermo. Richieste singolari. Certo il wrestling non offre la bellezza classica della lotta greco-romana, non ha nulla del rigore della boxe, ma è molto meno violento di quanto possa sembrare ad un osservatore superficiale e, paradossalmente, nella sua apparente brutalità riesce persino a far sorridere. E’ uno spettacolo, probabilmente, anzi sicuramente, è soprattutto un business, ma - se si è fisicamente preparati - è meno facile farsi male di quanto non lo sia in un incontro di più titolate discipline sportive.Quel che può preoccupare è l’emulazione, ma per fronteggiare tale rischio è sufficiente fare una corretta informazione piuttosto che criminalizzate tout court il wrestling. Il tour, naturalmente, è andato avanti: the show must go on. Unica concessione un minuto di silenzio scandito da dieci ritocchi del gong. «Anche Eddie lo avrebbe voluto» si è giustificato Vince MacMahon, padre padrone del wrestling internazionale. Da allora non sono mancati i tributi ad Eddie e per noi genitori rimane – senza indulto che tenga - la condanna agli arresti domiciliari nei giorni in cui la televisione, sempre più spesso, trasmette gli incontri di wrestling. Sarà capitato anche a voi, per ragioni di quiete familiare. Prima di uscire, al sabato o alla domenica, di doversi accertare se nella pizzeria dove si vuole andare c’è la tv e soprattutto se è possibile seguire la trasmissione senza mandare la cena di traverso a qualche benpensante.
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