Dal Secolo d'Italia del 4 ottobre 2006
rubrica "Sei un mito"
Introverso sino a diventare ruvido, riservato ma intransigente, sfuggente eppure chiacchierato, venerato e criticato. Perchè fumatore incallito, amante del buon whisky, ex craxiano. Un irregolare fuori dai giochi, al quale tutti riconoscono l’incrollabile professionalità. «Nella mia vita non mi sono mai rimangiato la parola, non ho mai abbassato la testa». Sincero in un mondo, quale quello del calcio, «le cui fondamenta - ripeteva Manlio Scopigno, suo allenatore al Cagliari - sono le bugie». Calciatore indimenticato. Difficile, se non impossibile, da marcare. Inarrestabile nel dribbling. Dirompente nelle progressioni in velocità. Capace di trascinarsi i difensori sin dentro la porta. Dal tiro micidiale. Fieramente mancino. «Condannato a portarmi dietro il ritornello “bravo, ma ha un piede solo”. Come se i destri sapessero usare anche il sinistro».Di chi parliamo? Di un acrobata che inventava rovesciate che nessuno osava provare e colpi di testa a volo d’angelo che lasciavano ad occhi spalancati il pubblico. Di “Hud il selvaggio”, come lo chiamavano i compagni, forse per via di quelle solitarie corse in auto, le stesse di Paul Newman nell’omonimo film. Di Luigi Riva detto Gigi, il campionissimo. Cercheremo di non eccedere in superlativi, spogliando le frasi dalla retorica (che non appartiene al personaggio), ma non è facile quando si tratta del mitico Rombo di Tuono, come lo definì – consegnandolo alla leggenda – l’amico Gianni Brera, il giornalista sportivo che meglio di ogni altro seppe dare dignità letteraria allo sport più amato dagli italiani.«Riva è coraggioso fino alla temerarietà. Da conterraneo lombardo sono giunto a chiamarlo Re Brenno. Penso che, se fosse nato durante la loro invasione, avrebbe condotto i padri Galli alla conquista di Roma. Se fosse nato nel Medio Evo, i Lombardi a Legnano. E nel Rinascimento sarebbe stato capitano di ventura, un conquistatore di città e castelli. Ha la forma mentis e la struttura fisica dell’eroe come ci ha insegnato a vederla la storia, non solo quella sportiva». Brera esagerava? No. Non è un caso se il carisma di Riva ha finito per contagiare anche gli intellettuali di sinistra, che solo a sentir parlare di calcio – fino a pochi anni fa – mettevano mano al revolver, ovvero alla macchina da scrivere, pronti a deridere con supponenza l’entusiasmo popolare per lo sport. Tra i primissimi ammiratori di Riva si iscrisse Pier Paolo Pasolini: «Gioca in poesia, è un poeta realista». Michele Serra lo rappresenta come «un personaggio evaso dall’Iliade: potente, essenziale, il cui gol è un colpo di spada».Difficile sopravvivere nel calcio. Di “miti” ne ha divorati a decine, masticati per una o più stagioni e poi sputati via, lasciati ad ingiallire tra le polverose pagine di qualche almanacco. Di vecchi campioni imbolsiti sono ricchi i palinsesti televisivi. C’è chi si ricicla come opinionista e chi nei reality, stravagante via obbligata alla notorietà nella società televisiva di massa. Riva non si è lasciato usare, si è concesso con parsimonia ai flash dei fotografi e alla curiosità morbosa dei rotocalchi, sfuggendo al richiamo della mondanità e al fascino lolitesco delle veline. E’ un uomo schivo, un sentimentale animato da una concezione “eroica” del calcio, un campione atipico. E non solo per i numeri, impressionanti: 156 reti in 289 partite di A, serie di cui è stato capocannoniere per ben tre volte, e 35 gol su 42 presenze in nazionale (record ancora imbattuto). Per lo stile. Incapace di simulare un fallo ricevuto, non ha mai tirato indietro la gamba in un takle. Per onorare fino in fondo la maglia azzurra ha sacrificato due gambe, fratturandosi il perone sinistro nel ’67 e la caviglia destra nel ’70. Oggi guarda con fastidio ad un calcio «iperprotettivo», pieno di tuffatori pronti a gettarsi in terra al primo contatto, «quelli che basta soffiargli addosso e vanno giù chiedendo l’ammonizione». «Sarà che ho vissuto tempi in cui certi liberi tiravano una riga vicino alla loro area e dicevano “se la passi ti spacco” e per ottenere un rigore a Milano o Torino non bastava un certificato medico di 15 giorni». Regole che Riva, indomabile gladiatore, ha sempre accettato di buon grado, incassando calci e persino sputi senza fermarsi a piagnucolare, rimanendo in campo anche quando era letteralmente a pezzi. «Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, se mi toccavano reagivo». Ma con correttezza.L’infanzia di Gigi non è delle più felici. Il padre Ugo, sopravvissuto a tre guerre, era tornato con una medaglia di bronzo al valore, ma un incidente sul lavoro l’aveva sottratto alla famiglia. Per Gigi, che non ha ancora dieci anni, si aprono le porte del collegio dei poveri, che «non assomiglia ad alcuna prigione del mondo. E’ per l’umiliazione che provi, sentire che sei lì per beneficenza e devi ringraziare il visitatore che si presenta con il pacco dono nei giorni di festa. Ho subito questa violenza morale. Ho sofferto la lontananza dalla famiglia, la mancanza di libertà». Libertà che ritroverà dopo tre anni, quando uscirà dal collegio e potrà dedicarsi al calcio. Arrivano i primi guadagni, ma la madre Edis non fa in tempo a godere del successo del figlio, nonostante la carriera di Gigi sia rapidissima. Nel ’62 passa dal Laveno - cinque chilometri da Leggiuno (Va), dov’è nato nel ’44 - al Legnano. E’ C1: sudore, fatica e botte. Gli osservatori del Cagliari ne notano il fiuto del gol vedendolo giocare nella nazionale juniores. L’anno dopo la società sarda lo acquista per 37 milioni. L’idea di trasferirsi sull’Isola lo spaventa. Nell’immaginario collettivo è terra di punizione per militari e dipendenti statali, di banditi e povertà. Accetta per soldi – duecentomila lire al mese – ma vi troverà qualcosa di più importante, una moglie e due figli. «Ero senza famiglia e ne ho trovate tante, l’affetto che mi mancava. Nessuno di noi giocatori era sardo. Ma eravamo un gruppo forte, solido, rappresentavamo tutta l’Isola, lo sapevamo e ci piaceva. Ho cercato di contraccambiare nell’unico modo possibile: segnando». In un calcio dominato da procuratori e giocatori alla ricerca del miglior ingaggio possibile, di mercenari sempre con la valigia in mano, Riva rappresenta un’eccezione di fedeltà ad una bandiera, un esempio per i giovani che si avvicinano al calcio per passione. Tredici campionati consecutivi con la stessa maglia, nonostante le insistenti lusinghe dei grandi club. Gli uomini di Boniperti lo inseguono in tutti gli angoli d’Italia dove gioca per allettarlo con proposte strabilianti. La Juventus arriva persino ad offrire al Cagliari un miliardo e sette giocatori. Nel ’73 l’affare sembra chiuso. «Rifiutai con rabbia. Mi avevano ceduto senza interpellarmi, come una bestia. Da qui non me ne vado, dissi, prendo un bel chiodo e ci appendo le scarpette». Con i bianconeri avrebbe potuto vincere di più, giocare all’estero in stadi prestigiosi, ma non volle. «Per orgoglio, quando giocavo, ho sempre difeso la mia scelta, ma qualche dubbio l’avevo. Adesso sono convinto d’aver fatto bene. La gente mi è vicina come se andassi ancora in campo a fare gol».Due parole centrali nel vocabolario di Riva sono lealtà e riconoscenza. Tra Riva e il Cagliari c’è un amore corrisposto, che lo ha portato, molti anni dopo, a diventare presidente della società in momenti difficili. Un amore che dura dal ’63, quando, non ancora ventenne, porta il Cagliari in A e diventa l’idolo dei sardi. Nel ‘68 si laurea campione d’Europa con la nazionale. Nel ‘69 il Cagliari è secondo in campionato, alle spalle della Fiorentina. Sono le prove generali per lo scudetto, che arriverà nel ’70. Ed è lui a trascinare l’Italia verso i mondiali messicani. A Napoli, nell’ultima partita del girone eliminatorio, contro la Germania Est mette a segno uno dei suoi gol più belli, di testa, in tuffo: immagini che la Domenica Sportiva adotterà come sigla. In Messico sono l’altitudine e il turn over tra Mazzola e Rivera a tradirlo. Con Rivera l’accoppiata è perfetta, due dei tre gol che realizza sono frutto di assist del golden boy. Ma sarà il Brasile a portarsi la Coppa Rimet a casa, l’Italia è vicecampione del mondo. Il 1° febbraio ’76, al Sant’Elia, sono di fronte Milan e Cagliari: l’ennesimo incidente chiude la sua carriera. Trent’anni dopo la maglia n. 11 sarà ritirata, omaggio ad un campione insostituibile. Era stato capace di recuperi sorprendenti, stavolta la sua storia sul campo è finita, ma certamente non quella fuori dal rettangolo di gioco, impegnato a difendere il calcio con i denti, pronto ad azzannare chiunque «sparga fango», come quando si scaglia contro Zeman, reo di aver accusato «senza prove» i calciatori di doparsi. La difesa della dignità dei calciatori rimane la sua priorità. Come quest’estate in Germania. L’opinione pubblica sembra scossa dagli scandali e i vertici della sport, temendo l’insuccesso, si defilano. Lui no. Da team manager della nazionale, incarico che ricopre dal ’87, si schiera con allenatore e squadra. Vince finalmente il suo primo mondiale, più di altri che si affretteranno a salire sul carro dei vincitori. Eppure Gigi sembra non tradire emozioni, barricato dietro i suoi occhiali scuri.La sua vita è dedicata al calcio, ma non è solo calcio. Gioca a golf con ottimi risultati, coltiva amicizie, quasi esclusivamente persone comuni, poche quelle famose, tra le quali c’era un genovese che – come lui – aveva scelto di vivere in Sardegna. Simili, entrambi silenziosi, seri, appartati. Al primo incontro per parlarsi hanno bisogno di bere quattro whisky: Fabrizio De Andrè, il suo cantante preferito. «Uno come me, che ha avuto una vita non facile, non poteva certo fischiettare “finchè la barca va”». Anche De Andrè ha affrontato prove difficili, tra cui il sequestro, ma Riva non ha mai avuto paura dei banditi. Sono pur sempre tifosi e gli eroi non si toccano, si rispettano, si amano. Un’evidenza che non sfugge al Coni, se due settimane fa – coronando nel modo migliore un impegno pluridecennale – l’ha nominato vice commissario della Figc: l’uomo giusto al posto giusto. E non capita spesso.
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