Dal Secolo d'Italia del 17 marzo 2006 (paginone)
Teheran, 1979. Ufficiali armati entrano nei negozi di abbigliamento. “Puntano le pistole contro le gambe nude di un manichino femminile, fissando lo spaventato negoziante”. Le donne inanimate finiscono nei magazzini per un restayling obbligatorio. Poche settimane e si ripresentano con gli orli allungati. Le giovani iraniane, ancora in gonna corta, passano davanti alle vetrine e ridono. Khomeini impone il velo, ma non sono abituate ad indossarlo. Il numero delle studentesse universitarie è aumentato di ben sette volte rispetto ai primi anni Settanta. Mai avrebbero pensato che di lì a poco sarebbe bastato essere sorprese a correre per le scale andando a lezione o a ridere o a parlare con un ragazzo per essere punite. Non sono remissive come manichini e non obbediscono al dicktat dei capi della neonata Repubblica Islamica. Chi si ostina a resistere riceve acido sulla faccia. Paradossi: si vuole “restituire dignità alle donne” e si mortificano con leggi a dir poco misogine. Si vogliono difendere la cultura e le tradizioni iraniane e si applica la Sharia, la legge islamica tradizionale. In un balzo si riportano le lancette della storia indietro di un secolo.Nel 1980 scoppia la guerra con l’Iraq. I manichini abbandonano le folte chiome in soffitta e diventano tristemente calvi. In poco tempo sulle loro facce sbiadisce il colore, ogni accenno di rossetto e di trucco svanisce. L’ordine è di rendere severa la femminilità, fino a negarla. All’improvviso viene via anche la testa, sostituita da una inespressiva tonda faccia di cartone. Senza occhi, né sopracciglia, né naso, né bocca. Bambole decapitate. I seni tagliati via dal corpo. Due palline essenziali ne prendono il posto. La donna ideale per i fondamentalisti “non ha occhi per vedere, lingua per parlare né gambe per fuggire”. E se questa è la sorte dei manichini dopo la rivoluzione, peggio è quanto viene riservato alle iraniane di carne e ossa. A raccontarcelo è Mehrangiz Kar, avvocato, saggista ed esperta di diritti umani. Il suo contributo, Morte di un manichino, è parte di una antologia da pochi giorni in libreria: Chi ha paura dell’Iran? Ritratto di un paese oltre la censura e i luoghi comuni. Quindici voci per raccontare l’altro Iran.“Il mio Iran – sostiene Abbas Kiarostami, famoso regista iraniano e autore de Il sapore della ciliegia, premiato nel 1997 con la Palma d’Oro a Cannes – somiglia ben poco a quello ritratto dal telegiornale. “Gli stranieri che visitano l’Iran, per esempio, sono incredibilmente attratti dagli spazi e dal senso delle relazioni che abbiamo qui” spiega il regista. L’iraniano ha un vero culto per lo straniero, a dispetto della “brutta immagine che il governo iraniano proietta all’esterno”. “Negli ultimi mesi – scrive la curatrice del volume, la giornalista Lila Azam Zanganeh – l’Iran ha quotidianamente attirato l’attenzione dei media con minacce nucleari, restrizioni islamiche, processi-farsa e assassini politici”. Ma l’Iran è anche molto altro e il libro offre una visione delle “mille sfaccettature politiche e culturali” di un paese la cui storia non comincia, e si spera non finisca, nel 1979. Luogo di contraddizioni: non è un paese arabo ma è l’unica “teocrazia” al mondo e l’unica Repubblica islamica del Medio Oriente. E certamente la polveriera a maggior rischio della regione. L’affermazione dei conservatori nelle presidenziali del 2005 e l’eliminazione dalla scena politica del riformista Khatami, hanno contribuito ad alimentare la diffidenza reciproca tra l’Iran e l’Occidente. Ma come disse Winston Churchill “non si può biasimare una nazione per il suo governo”, tantomeno se si considera come sia fittizia la democrazia iraniana, nella quale la massima autorità religiosa (non elettiva), il Consiglio dei guardiani della rivoluzione, ha il potere di selezionare le candidature e successivamente di porre il proprio veto su qualsiasi mozione parlamentare o decreto presidenziale.Marjane Satrapi, altra autorevole voce del libro, è una fumettista affermata a livello internazionale. I suoi disegni sono stati paragonati dal New York Times alle litografie di Matisse. Rivendica la complessità della società iraniana e ironizza sui pregiudizi degli occidentali: “Quando qualcuno vuole compiacerci ci dice che siamo persiani e che la Persia era un grande impero. Altrimenti siamo soltanto iraniani. I persiani compaiono negli scritti di Montesquieu, nei dipinti di Delacroix e fumano oppio con Victor Hugo. Gli iraniani, invece, prendono in ostaggio gli americani, fanno scoppiare le bombe e ce l’hanno con l’Occidente.”Quel che più l’offende sono gli abusati cliché sul suo popolo, definito tout court musulmano e, come tale, ostile. Lo stereotipo del terrorista adoratore di Allah e al servizio di Bin Laden o, quando va bene, del rozzo barbaro armato di scimitarra come nei film di Indiana Jones. L’Iran come luogo esotico e orientaleggiante o terra di fanatici religiosi, semplificazione e ignoranza che non rendono giustizia ad una popolazione decimata da una guerra dolorosa durata dieci anni ed oggi sorprendentemente giovane. Il 50% degli iraniani ha meno di 25 anni. Il 70% è sotto i trent’anni. Giovani divisi tra un istintivo senso di appartenenza e l’attrazione verso i modelli occidentali. Gli è stato insegnato cosa non devono e non possono essere. Gli è stato sottratto il privato e con esso un’identità certa. Nello stesso tempo gli è stata impedita ogni contaminazione e contagio con culture diverse. “La generazione successiva al 1979 è cresciuta senza aver mai visto un attore iraniano moderno dare un bacio in un film: baciarsi in pubblico è illegale” lamenta Azadeh Moaveni, scrittrice e corrispondente da Beirut di Time Magazine. Altrettanto importante la testimonianza di Azar Nafisi, autrice del best-seller internazionale, Leggere Lolita a Teheran (Adelphi 2004). Ricorda come dopo la rivoluzione siano state messe al bando le danze, le cantanti (ad una donna è proibito cantare in pubblico), ogni genere musicale e, naturalmente, i film ed ogni altra forma d’arte.Nell’Amleto Ofelia viene eliminata dalla maggior parte delle scene; nell’Otello di sir Laurence Olivier, la parte di Desdemona viene tagliata e il suicidio di Otello rimosso per “non rattristare le masse”. “In Iran le masse erano una strana categoria, osserva ironicamente la Nafisi, perché parevano soffrire di più assistendo alla morte di un personaggio immaginario sullo schermo che non subendo fustigazioni e lapidazioni di persona”. Nei cartoni animati Braccio di Ferro si trova improvvisamente single. Olivia viene cancellata perché la sua relazione con il noto marinaio “è illecita”. Basta un po’ di smalto sulle unghie, le scarpe della reebok ai piedi o un sospetto di rossetto sulle labbra per incorrere in pene detentive e frustate. Secondo i “guardiani della moralità”, libri come Lolita o Madame Bovary sono “moralmente corrotti, danno il cattivo esempio ai lettori e li spingono a compiere azioni immorali”. Quando i libri si salvano dalla censura non sfuggono ad altrettanto micidiali traduzioni, che finiscono per stravolgerne il significato. Con riferimento ad un celebre libro di Milan Kundera, L’identità, Naghmeh Zarbafian, ex studentessa di Azar Nafisi, poetessa e traduttrice, dimostra come la lingua venga usata appositamente in modo sbagliato, “smorzandone la passione e rallentandone il ritmo”. La traduzione diventa strumento di censura vero e proprio. L’auspicio di Khatami ad un “dialogo tra civiltà” e soprattutto all’incontro con “l’altro” cade nel vuoto. I personaggi non sono più quelli di Kundera, ma – camuffati - finiscono per coincidere con quelli dei classici iraniani: “la ricerca di questa equivalenza nell’incontro con l’altro è l’atteggiamento comune che hanno verso il romanzo. Il porto sicuro dell’identità, ha protetto la maggior parte dei lettori dall’affrontare un mondo sconosciuto”. Alla fine sono i traduttori e i censori, e non i lettori, gli unici che affrontano ‘l’altro’ “con il suo aspetto reale e poco familiare, presentandolo in modo che non ci siano residui inquietanti”. Le cose non sono cambiate di molto. Le donne continuano a subire discriminazioni sessuali e punizioni violente, ma qualcosa nella società iraniana si è definitivamente mosso. Basti pensare che il 60% degli ammessi all’università sono donne. E proprio gli studenti sono in prima fila per l’affermazione delle libertà sociali, culturali e politiche, ma soprattutto delle piccole libertà, per riappropriarsi di un immaginario senza confini. Nelle città scorre la voglia di libertà, la ricerca della felicità e di un confronto più ravvicinato con la modernità. Del divertimento, anche. Poco importa che rimangano evidenti i segni dell’oscurantismo, alcuni dei quali fanno decisamente sorridere, come il cartellone di David Beckham, presente nella capitale, che pubblicizza un carburante con una stoffa nera a coprire le gambe del calciatore. Nonostante tutto capita sempre più spesso vedere per strada coppie che si tengono mano nella mano, mentre coffee bar e gallerie d’arte si moltiplicano a Teheran, così come le feste nei bagh, lussuose tenute fuori città. L’unica accortezza è quella di tenersi ben lontani dalle strade principali e perciò poco pattugliate dalla polizia e dai Basiji, i fanatici paramilitari che vigilano sul “rispetto della moralità pubblica”. Poche sono le irruzioni nei party della Teheran di fine millennio, e quando accade, racconta Azadeh Moaveni, “le donne si rubano a vicenda il velo e gli uomini nascondono frettolosamente le bottiglie di alcolici fatti in casa”. Il regime, per ora, lascia fare, si volta dall’altra parte, interessato, come sembra, solo alla politica estera. Non manca la musica, per molti anni sopravvissuta clandestinamente ed ora timidamente tornata nelle case degli iraniani e persino nei negozi di dischi, sia pure con copertine normalizzate e musicisti immortalati in pose rassicuranti. Diverse sono le band che sfidano ogni giorno la censura dell'Ershad, il Ministero competente, cui sono comunque obbligati a sottoporre i loro testi. Tra queste i Taboo, un gruppo di cinque membri, giovanissimi studenti di ingegneria, i 127, nati come cover band dei Radiohead e recentemente presenti al festival di Arezzo, e il rock psichedelico degli O-Hum. Cantano in iraniano, ma non mancano pezzi in inglese che arrivano dalle comunità iraniane negli Usa. I blog, oltre 10.000, vengono preferiti a giornali e riviste, e non è un caso se il farsi è la quarta lingua parlata sul web. Nel 2000 gli utenti di internet erano circa 400.000. Oggi, secondo i dati pubblicati da Focus, sarebbero 10 milioni gli iraniani che si affacciano sul web. Benvenuti.
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