venerdì 8 dicembre 2006

Il riscatto postumo di un italo-americano

Il talento di Mr. Fante
da Ideazione n. 2 marzo-aprile 2004
Fantemania, non può definirsi diversamente il contagioso entusiasmo che accompagna, da qualche anno a questa parte, la pubblicazione dei libri di John Fante (Denver 1909 - Los Angeles 1983). Considerato troppo a lungo soltanto uno scrittore minore, espressione marginale della letteratura etnica nord americana per via delle sue impresentabili origini italiane, si è imposto come un clamoroso caso letterario. Consacrato “classico” nei Meridiani Mondadori in occasione del ventesimo anniversario della morte (maggio 2003), Fante, per la delizia dei suoi sempre più numerosi lettori, torna proprio in questi giorni nelle librerie italiane con Chiedi alla polvere e Sogni di Bunker Hill (Einaudi) e il successo di vendite è ancora una volta assicurato.
Merito delle sue opere, naturalmente, ma anche del fascino di questo scrittore irriverente, istrionico, impertinente, irascibile e commovente. John Fante è infatti un vero personaggio e la sua vita è essa stessa un appassionante romanzo. Personaggi sono stati tutti i Fante, compresi gli avi, a cominciare da Domenico, detto Mingo. Fedele suddito dei Borboni e valoroso brigante nella guerra di unificazione nazionale, venne arrestato, accusato di tradimento e impiccato. Le sue “gesta” divennero una gustosa leggenda per il giovane John grazie ai racconti del nonno Giovanni, il primo della famiglia a raggiungere gli Stati Uniti. Il padre Nick, abruzzese di Torricella Peligna, piccolo centro montano in provincia di Chieti, sbarcò a New York nel dicembre del 1901, agli albori di un nuovo secolo che, per un emigrante come lui, si presentava ricco di prospettive da cogliere. Nick, «muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar» è anch’esso personaggio nei romanzi del figlio John: «mussoliniano, ma grandemente democratico e insaziabilmente americano».
Fante decise di non seguire le orme paterne e ventenne lasciò il Colorado per la California e più precisamente per la città degli angeli, Los Angeles, animato da una certezza granitica e da un ardente desiderio: non avrebbe mai preso una cazzuola in mano e sarebbe diventato un grande scrittore, anzi il più grande di tutti.
Partì in autostop e con un dollaro in tasca. «La miseria mi spinse in California», scrisse anni dopo, ma più della miseria, cui era abituato, era l’ambizione di scrivere la sua ossessione. Arrivato a Los Angeles prese in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima aveva rappresentato il cuore pulsante della città, le cui ville – ormai in rovina – erano state trasformate in grandi pensionati popolari.
Iniziò così il periodo dei «ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore», con un unico incessante pensiero, scrivere: «aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo […] mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore, Knut Hamsun, non abbandonarmi».
E a non abbandonarlo fu Henry Louis Mencken (1880-1956), l’importante critico al quale il giovanissimo aspirante scrittore si rivolse sin dal 1930 chiedendogli – senza alcuna referenza e con una certa sfrontata ambizione – di collaborare alla sua rivista, The American Mercury di New York .
Mencken, tra i più autorevoli intellettuali del suo tempo, con una vasta esperienza di direzioni giornalistiche, credette sin dall’inizio nel talento di Fante, pubblicandogli nel 1932 i primi racconti sulla prestigiosa rivista letteraria, Altar boy (Il chierichetto) e Home sweet home (Casa dolce casa) e soprattutto incoraggiandolo ripetutamente a scrivere nel corso di una lunghissima amicizia epistolare, (Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken 1930-1952, Fazi 2001), determinante nella formazione di Fante. Mencken divenne in breve tempo il mentore ed il confidente dello scrittore, con il quale condivideva la passione per Nietzsche, una spiccata diffidenza nei confronti del socialismo e, anni dopo, un atteggiamento politico isolazionista e antibritannico, ironico e sprezzante tanto nei confronti dei sostenitori dell’intervento americano nella Seconda guerra mondiale che dei pacifisti di sinistra.
Tra il 1933 ed il 1936 Fante realizzò il suo primo ambizioso tentativo, scrivendo un vero capolavoro, La strada per Los Angeles, nel quale racconta con la caratteristica prosa incandescente e sincera, senza filtri o espedienti letterari, la vita di quegli anni, gonfia com’era di dolore e speranze, momenti tragici e buffi. Il romanzo venne rifiutato da numerosi editori, rigettato senza appello e vide la luce solo dopo la morte dello scrittore. La spiegazione della mancata pubblicazione la fornì lo stesso Fante in una lettera inviata ad un amico: «dentro ci sono cosette che metterebbero il fuoco al culo a un lupo […] è un pochino troppo forte […] manca di buon gusto. Ma non me ne importa niente». E in quanto «indecente» rimase inedito per mezzo secolo.
Per vedere pubblicato il suo primo romanzo dovette aspettare il 1938, Aspetta primavera Bandini, seguito l’anno successivo da Chiedi alla polvere. Qui possono finalmente fare il loro esordio i suoi spassosi personaggi, tutti autobiografici, perdenti ma sempre pronti a rialzarsi. Se nel primo romanzo la figura centrale è Svevo Bandini, muratore disoccupato, e la sua famiglia, composta dalla cattolicissima moglie Mary e dai figli August, Federico e Arturo, alle prese con il freddo inverno del Colorado, nel secondo romanzo i riflettori si accendono «sull’immortale» Arturo Bandini, spericolata controfigura di Fante, protagonista dell’intera saga. Figlio di immigrati italiani, Arturo è un giovane sanguigno e vanitoso, irritabile e bellicoso, ma anche sensibile e autentico, che per scrivere si trasferisce in California. E’ squattrinato e vive in fatiscenti camere in affitto al limite dell’indigenza, ma gli basta pensare al luminoso futuro che l’attende per sentirsi su di giri. Perché il nostro amico, ancora prima di cominciare a scrivere, si sente già predestinato a diventare il più grande romanziere del secolo. La sua sfrenata presunzione è pari solo alla sua paralizzante timidezza. Si innamora follemente di una focosa cameriera, Camilla Lopez, ma la ragazza non cade immediatamente ai suoi piedi, come Bandini si sarebbe aspettato. Il corteggiamento si dimostra disastroso. Camuffati i suoi sentimenti dietro un altezzoso distacco, come ritiene che si addica a chi sta per raggiungere l’empireo della letteratura mondiale, apostrofa la ragazza come «sudicia messicana» e «scarpe scalcagnate» con effetti che potete immaginare. Camilla, per tutta risposta, preferirà andare a vivere tra la «polvere» del deserto, lasciandolo solo, a «chiedersi» dove sia scappata.
Aspetta primavera Bandini venne accolto con curiosità e favore dalla critica, mentre Chiedi alla polvere incontrò la freddezza degli ambienti letterari. Nonostante le sue cristalline capacità rimaneva pur sempre un “dago”, spregiativa espressione slang riferita agli oriundi italiani, il cui milieu familiare anima l’intera opera fantiana (il nomignolo fa riferimento al vino rosso degli immigrati e proprio Dago Red è il titolo di una raccolta di racconti di Fante del 1940 e pubblicata in Italia da Marcos y Marcos nel 1997).
Tale accoglienza, tutto altro che trionfale, e la non superata delusione per le ripetute bocciature del libro nel quale aveva riposto tutto se stesso, lo sconfortarono. L’insuccesso e il matrimonio lo costrinsero a misurarsi con lo spettro della precarietà economica.
Fu così che il giovane Fante, mancato (rinviato) l’appuntamento con la fama mondiale, con rammarico, rivolse il proprio ingegno al cinema, cimentandosi in una attività che si presentava come più redditizia, quella di sceneggiatore a Hollywood: «il lavoro più disgustoso del regno di Cristi» Anni dopo se ne pentì: «Per molti motivi vorrei non aver lavorato per il cinema. Tende a rovinare un buono scrittore». Ma aveva bisogno di denaro per mantenersi e per continuare ad alimentare i suoi sogni e i suoi vizi. Prima di affermarsi come sceneggiatore inciampò in inattese complicazioni. La moglie, la poetessa Joyce Smart, spiegò che «Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra» e che questo atteggiamento aveva costituito un vero e proprio ostacolo per la sua carriera in un ambiente fortemente politicizzato, quale quello cinematografico, che lo aveva avvertito sin dall’inizio come un renitente, un intruso, un infiltrato.
La vita di quei primi anni fu particolarmente frustrante per Fante, la consapevolezza di sacrificare il suo talento per dedicarsi ad un oscuro lavoro da gregario lo lasciava sempre più «infelice e insoddisfatto» e poco lo consolava l’aver raggiunto un’agiatezza economica, peraltro costantemente minacciata dal vortice del gioco. Che si trattasse del poker o del biliardo, o anche del golf, Fante non sapeva resistere alla tentazione di giocarsi più di quanto guadagnasse. Cresceva in lui la rabbia, perché riteneva che il suo lavoro non fosse adeguatamente apprezzato. Litigava con i produttori e si teneva a distanza dai colleghi, a meno che non fossero scrittori di narrativa, come l’amico Carey McWilliams, che riuscì a farlo assumere stabilmente dagli Studios. Le sue opinioni sull’attualità destavano scandalo. Rivendicava la sua indifferenza per le sorti della guerra: «La guerra in Europa, i discorsi di Hitler. Sciocchezze! […] L’unica guerra che intendo combattere è quella che io stesso ho intrapreso», dichiarava facendo sfoggio di un’originalità che rasentava l’impudenza pura e semplice. «Non mi sono bevuto il comunismo e non trovo granché nel fascismo». Al suo giudizio iracondo e sarcastico non sfuggivano i critici comunisti, «i rossi dallo sguardo allucinato», come li chiamava con intento derisorio, colpevoli di bocciargli i racconti, come si lamentava con Mencken, per motivi politici: «Ma capita che un racconto abbia un tema cattolico, e non c’è proprio ragione per cui un fottuto dannato agente, che si suppone tratti di opere letterarie e non di propaganda, dovrebbe rifiutarlo». Di allinearsi non voleva sentir parlare: «Mi farò mettere contro il muro e sparare prima di sottoscrivere il marxismo da salotto di uno stupido gruppo di laureati di Harvard che – non avendo nulla dentro i loro cuori – devono inghiottire e difendere dei principi di cui non sanno nulla! […] dovranno farmi a pezzi prima di impedirmi di pubblicare […] Simpatizzano con le masse. Questa è una bugia. Usano le masse come materiale, ma non simpatizzano se non in modo ipocrita […] Sono comunisti perché il comunismo in questo paese paga. Per quello che mi riguarda non simpatizzo con le masse. Le masse esisteranno sempre. Sono formate da sciocchi. Sono necessari alla società. Se proprio lo devo dire, odio le masse. Ho vissuto con loro e ho sentito il loro fiato sporco e le loro menti vuote. L’istruzione non le tocca. Niente può toccarle. Sono segnate. Che muoiano. Devo farmi gli affari miei, in questa vita, ovvero sopravvivere. Che è un lavoro tremendo. Non mi sporcherò le mani cercando di salvare le masse».
Dichiarazioni poco concilianti con l’immagine di scrittore sociale che gli era stata costruita in Italia da Elio Vittorini, che aveva pubblicato nell’antologia Americana (Mondadori 1941), con il titolo Una famiglia neoamericana, un brano di Fante estratto dal primo capitolo di Aspetta primavera Bandini. Probabilmente Vittorini aveva preferito presentare Fante come rassicurante icona dell’immigrato di seconda generazione che si eleva a cantore delle masse dei diseredati, piuttosto che per quello che davvero era: un genio della narrazione, uno scrittore delle emozioni, ma anche un irregolare, un individualista anticonformista e provocatorio, con un irresistibile gusto per la battuta salace e feroce: «i poveri non sono rossi».
Proprio lui che, quando veniva a trovarsi nel nostro paese per motivi di lavoro, si corrucciava di come ci fossero «sei milioni di comunisti in Italia» e constatava amaro che «l’intera industria del cinema è dell’intellighentia rossa del tipo che prevaleva a Hollywood […] si identificano facilmente perché danno voce a cliché antiamericani. Il lavoro va a loro e mantengono le cose come stanno».
Solo dopo molti anni passati a scrivere «brutti film hollywoodiani», come li ha definiti il suo biografo Stephen Cooper (Una vita piena, biografia di John Fante, Marcos y Marcos 2001), negli anni Cinquanta arrivarono dal cinema le prime gratificazioni importanti: le collaborazioni con Billy Wilder, Alfred Hitchock a altri grandi registi, i viaggi all’estero, la vera ricchezza e persino la nomination per il premio del sindacato degli scrittori, riconoscimento persino più prestigioso dell’Oscar, per l’adattamento cinematografico del suo romanzo Full of Live del 1952, il più significativo successo di Fante in vita.
Lavorare per Hollywood, però, finì per diventare una distrazione fatale per la sua attività di narratore. I facili guadagni finirono per impigrirlo e forse rinunciò al sogno di diventare un grande scrittore. Non seguì il consiglio che gli aveva dato l’amico William Saroyan, di continuare a scrivere romanzi: «una volta Saroyan mi ha detto: scrivili grandi e scrivili spesso, Johnnie, perché ti dimenticano in fretta». Oblio che puntualmente arrivò.
Riprese a scrivere narrativa soltanto molti anni dopo, ma ogni volta era come ricominciare da capo. Il pubblico aveva dimenticato quel giovane che molti anni prima aveva pubblicato qualche buon romanzo e dei discreti racconti. Nel 1977 scrisse La Confraternita del Chianti, ma a tagliargli la strada verso il successo era arrivata, già dal 1955, una malattia spietata, il diabete, che dopo averlo lentamente minato finì per provocargli progressivamente l’amputazione delle gambe e la cecità.
Continuò stoicamente a dettare le ultime pagine alla moglie. Nel 1982 scrisse, o meglio finì di dettare, Sogni di Bunker Hill, romanzo breve nel quale racconta le aspettative, ormai lontane, della sua giovinezza. E’ una storia incredibilmente allegra, traboccante di vitalità, mai amara, non c’è traccia di quella mestizia che pure sarebbe comprensibile in una persona nelle sue condizioni fisiche, sempre più precarie.
Il suo amico Bukowski scrisse: «finire ad Hollywood a scrivere sceneggiature, ecco cosa l’ha ucciso». E fu una morte terribile, come testimonia lo stesso scrittore, che gli rimase vicino fino alla fine, negli ultimi diciassette mesi trascorsi a vegetare in una clinica: «una delle più lente orribili morti a cui io abbia mai assistito o sentito raccontare». Ed è proprio grazie a Bukowski che Fante deve buona parte della sua fama. Charles Bukowski, infatti, dopo aver letto Chiedi alla polvere, libro che gli sembrò «un miracolo, grande e inatteso, come aver trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino [così Hank considerava la biblioteca comunale, nda]», ne rimase folgorato. «Ecco, finalmente uno scrittore che non ha paura delle emozioni», commentò. In pochi giorni lesse tutte le opere disponibili di questo autore dimenticato, e le giudicò «scritte con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore». Preso da un contagioso entusiasmo convinse il proprio editore, John Martin, a far ristampare i libri di Fante. Nel 1980 la Black Sparrow Press pubblicò Chiedi alla polvere, nel 1982 Sogni di Bunker Hill, nel 1983 Aspetta primavera Bandini e solo nel 1985, due anni dopo la morte dell’autore, sopravvenuta l’8 maggio 1983, il libro che era rimasto nel cassetto, il romanzo cui Fante forse teneva di più, La strada per Los Angeles. E fu grazie a questa travolgente offensiva editoriale che la stampa americana scoprì nuovamente Fante e tornò ad occuparsi di lui, come se si trovasse davanti un esordiente. Ma Fante, alle prese con la malattia, fece appena in tempo ad accorgersene e non potè godere appieno dell’inatteso ritorno di notorietà.
Bukowski considerava Fante il «narratore più maledetto d’America», ne apprezzava «la purezza, il prodigio emotivo», l’energia che si sprigionava in ogni pagina e «il rincorrersi di dolore e ironia». Lo riteneva un vero maestro di scrittura e di vita. Fece appena in tempo a conoscerlo personalmente e poté così apprezzarne anche le qualità umane: «la personalità è buona, forte e calda come il suo linguaggio». «Conoscerlo», scrisse anni dopo, «è stato il vero evento della mia vita». L’opera fantiana esercitò un forte ascendente su Bukowski, al punto che il vecchio Hank nella vita privata non esitava ad assumere l’identità del suo personaggio preferito: «Si, Fante ha avuto una grande influenza su di me. Non molto tempo dopo averlo scoperto, mi misi a vivere con una donna. Beveva come una spugna, anche di più di me, e assieme facevamo delle litigate feroci, durante le quali le gridavo: non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini!».
Possiamo pertanto dire che Bukowski è l’antesignano di tutti i fantiani che, come ha scritto lo scrittore Marco Vichi nel libro (con VHS) che Fazi ha recentemente dedicato a Fante (e che raccoglie brevi contributi di illustri ammiratori di questo grande scrittore), «hanno tutti un gran desiderio di fare proseliti, e senza la promessa di un guadagno, né per le tasche né per l’anima. E’ solo la voglia di regalare ad altri le emozioni che abbiamo provato noi».

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