Dal Secolo d'Italia di giovedì 30 novembre 2006
rubrica settimale "Alto gradimento"
Tutti pazzi per Lost. Di cosa parliamo? Del serial americano che dal 2004 continua a tenere inchiodati davanti al piccolo schermo milioni di telespettatori in tutto il mondo, avvincendo il pubblico “colto” come quello dai gusti più popolari. Giunto attualmente in Italia al termine della seconda stagione - il prossimo lunedì il canale satellitare Fox (Sky) ne trasmetterà gli ultimi due episodi - Lost rappresenta senza dubbio l’avvenimento televisivo destinato a cambiare la storia stessa della Tv. Nato dal genio del quarantenne J. J. Abrams (già creatore di Felicity e Alias) e prodotto senza risparmio di mezzi, dopo lo strepitoso esordio sul network a stelle e strisce ABC, è stato trasmesso in ben 207 paesi: un successo planetario.
Il New York Times lo ha definito un serial «trascinante e irresistibile». Il Washington Post lo ha paragonato a telefilm cult quali X-Files e Twin Peaks, forse senza prevedere che avrebbe finito persino per scalzarli nell’immaginario collettivo. Negli Stati Uniti, infatti, la terza stagione - in programmazione dallo scorso mese di ottobre - continua a registrare ottimi indici d’ascolto. Altrettanto in Italia dove, grazie a Lost, Sky ha sfondato il muro del 10% di share nella prima serata, contribuendo a trasformare la pay tv da emittente di nicchia a televisione popolare. Chi non è abbonato alla tv a pagamento, però, non disperi: dal prossimo mese di marzo la seconda stagione sarà trasmessa anche da Rai 2, che il sabato ha già ripreso a mandare in onda le repliche della prima. Per chi avesse perso quest’ultima o volesse gustarsela senza soluzione di continuità, nelle videoteche sono già disponibili due raccolte dei venticinque episodi in dvd rilegate in eleganti cofanetti, peraltro ricchi di extra (Buena Vista). Nel 2007, a conferma della consacrazione meta-televisiva del fenomeno, Lost approderà anche tra i videogames, con una piattaforma messa a punto dal colosso Ubisoft per diverse console e Pc.
La domanda, per chi non l’ha mai (ancora?) visto, sorge spontanea: perché Lost piace tanto? Eppure l’idea sembra scontata, un classico di cui letteratura, cinema e tv avevano già ampiamente abusato: un gruppo di sopravvissuti ad un incidente aereo sono costretti a vivere su un’isola sperduta, apparentemente disabitata ed in realtà abitata da “altri” e da misteriose terrificanti presenze. Il primo accostamento, ingeneroso quanto inevitabile, è con l’Isola dei famosi, ma Lost rappresenta, semmai, il miglior antitodo alla malattia da reality. Se in questi ultimi siamo bombardati di informazioni prevedibili quanto banali, nell’isola hawaiana di Oahu - dove Lost è girato interamente - resta più viva che mai l’incertezza.
Inziamo con il dire che Lost non assomiglia a nessun telefilm, così come siamo abituati ad intenderli, il più delle volte confezionati in ripetitive riprese d’interni. Con questo serial si manifesta, al contrario, l’irruzione del cinema più spettacolare nella televisione. Nonostante sia il più costoso mai realizzato - solo per l’episodio pilota sono stati spesi 12 milioni di dollari - gli effetti speciali sono contenuti, la tensione e la suspance sono garantite da una trama coinvolgente e da una scrittura mai lasciata al caso, ricca di significati spesso indecifrabili, sempre aperta a nuove storie che aggiungono mistero a mistero, costringendo il telespettatore a prestare attenzione ad ogni minimo indizio. Il genere rimane quello classico dell’avventura e del thriller ma l’opera è contaminata da fantascienza, esoterismo e da un sapiente mix di simboli e archetipi. La narrazione, ricca di citazioni, alterna momenti frenetici a dialoghi introspettivi. Non c’è sigla iniziale, i lunghi piani sequenza (molto rari in tv) si alternano con scene mozzafiato riprese con la camera a spalla. La fotografia è suggestiva quanto curatissima. L’uso della tecnica del flashback per conoscere il passato dei protagonisti – non in successione temporale progressiva ma volutamente disordinata – è ripensato in maniera del tutto innovativa. Ed è proprio la coralità del racconto la caratteristica vincente di Lost, non c’è un solo protagonista, tutti (o quasi) i sopravvissuti sono egualmente importanti. Nel corso degli episodi - ognuno dedicato ad un personaggio diverso - se ne conosceranno sfaccettature e motivazioni, senza stabilizzarli in clichè predefiniti, come accade spesso nei telefilm, e sottraendoli allo schema rassicurante dei buoni contro i cattivi. I superstiti, invece, cambiano in maniera inaspettata e in continuazione, come accade nella vita quotidiana a chi è messo di fronte a prove impegnative. Tutti hanno qualcosa da farsi perdonare e l’isola rappresenta, per certi versi, un purgatorio in terra: la voglia di riscatto dà loro, con una nuova vita, la possibilità di tornare a sbagliare o di ritrovare valori smarriti. Lost vanta un cast di grande qualità, composto da attori esperti. Basti ricordare Matthew Fox (Party of five) nell’interpretazione del medico Jack, “leader” dei superstiti, Dominic Monaghan (Merry ne Il Signore degli anelli) negli stravaganti panni della rock star, Joshua Lee Holloway ne l’anarco-individualista Sawyer e Naveen Andrews (Il paziente inglese) nel paradossale ruolo “positivo” di un ex pretoriano iracheno. Persino la scelta dei nomi non è affatto casuale, ma portatrice di indizi sulla personalità del personaggio.
«Come tutte le opere, anche letterarie, non necessariamente Lost deve lanciare messaggi ideologici e noi possiamo godere del suo relativismo, anche se nella seconda serie i profughi riscoprono una dimensione religiosa e spirituale significativa, costruendo una Chiesa come atto fondante, malgrado gli inevitabili contrasti interni, di una vera e propria comunità cristiana. La tematica soprannaturale è l’unico modo per mettere ordine al caos e in questa evoluzione probabilmente pesa lo stato d’animo americano dopo l’11 settembre». Lo sostiene Claudio Ughetto, intellettuale piemontese già collaboratore di Diorama Letterario, che sottolinea come «l’incertezza della storia ben rappresenti la fragilità dell’attualità, con tutte le ansie legate alla guerra in Iraq e alla minaccia del terrorismo».
Incredibilmente Lost è riuscito a mettere d’accordo il grande pubblico con la critica più esigente. Se negli Stati Uniti ha ricevuto importanti premi, tra cui ben sei Emmy Award e il prestigioso Golden Globe per la migliore serie drammatica nel 2006, in Italia annovera tra i suoi più convinti sostenitori Aldo Grasso, che ha salutato la seconda stagione come «straordinaria, ancora più bella della prima» sottolineando la potenzialità della formula seriale: «Se il film è un’opera chiusa di due ore, la serialità rappresenta un’opera aperta a colpi di scena mai deludenti, sempre in crescita».
«Lost funziona perché racconta una storia che ci riguarda tutti, la condizione del naufragare, l’isola del nostro continuo naufragio – ha spiegato il critico del Corriere della Sera - il dover rifare i conti con le cose primordiali della vita, quelle da cui dipende la nostra sopravvivenza e anche con le domande ultime, le più difficili: dobbiamo credere alla scienza o alla fede? Dobbiamo essere razionali o irrazionali?».
Se è senz’altro vero che la serialità è il punto forza di Lost, l’eccessiva dilatazione della storia può diventarne il limite, compromettendone alla distanza il livello qualitativo e la tenuta degli ascolti. Non è un caso, del resto, se la fortunatissima Twin Peaks di David Lynch si è felicemente conclusa in due stagioni, mentre altre serie partite molto bene (com’è accaduto, in parte, per Alias e X-Files) sono degenerate in noiose telenovelas. Al momento Lost non sembra correre questo pericolo, anche se Usa Today ha parlato di un progressivo declino della serie con conseguente disaffezione del pubblico, segnalando una flessione di dodici punti nello share degli ultimi episodi (ma rimanendo sempre saldamente sopra la soglia dei 20 milioni di telespettatori). Come se non bastasse il papà di Lost, J. J. Abrams, autore televisivo anche della recente What about Brian - che vede tra i protagonisti il nostro Raul Bova, anch’essa trasmessa da Fox Sky - e regista cinematografico sempre più apprezzato (recentemente alle prese con Mission Impossible 3), è stato strappato dalla Paramount alla Touchstone Television (Disney), produttrice di Lost, che starebbe valutando se fermarsi alla quarta stagione o arrivare fino alla quinta. Abrams, al riguardo, è stato già confermato produttore esecutivo del serial, ma avrà ancora tempo sufficiente, «il genio di Hollywood», per impegnarsi nella scrittura della sua creatura? Tra i tanti fitti misteri che avvolgono il destino dei naufraghi, il paventato disimpegno di Abrams - per i pur forgiati appassionati - è probabilmente quello più preoccupante, quello che potrebbe scrivere l’unica parola che non vorrebbero leggere: FINE.
Il New York Times lo ha definito un serial «trascinante e irresistibile». Il Washington Post lo ha paragonato a telefilm cult quali X-Files e Twin Peaks, forse senza prevedere che avrebbe finito persino per scalzarli nell’immaginario collettivo. Negli Stati Uniti, infatti, la terza stagione - in programmazione dallo scorso mese di ottobre - continua a registrare ottimi indici d’ascolto. Altrettanto in Italia dove, grazie a Lost, Sky ha sfondato il muro del 10% di share nella prima serata, contribuendo a trasformare la pay tv da emittente di nicchia a televisione popolare. Chi non è abbonato alla tv a pagamento, però, non disperi: dal prossimo mese di marzo la seconda stagione sarà trasmessa anche da Rai 2, che il sabato ha già ripreso a mandare in onda le repliche della prima. Per chi avesse perso quest’ultima o volesse gustarsela senza soluzione di continuità, nelle videoteche sono già disponibili due raccolte dei venticinque episodi in dvd rilegate in eleganti cofanetti, peraltro ricchi di extra (Buena Vista). Nel 2007, a conferma della consacrazione meta-televisiva del fenomeno, Lost approderà anche tra i videogames, con una piattaforma messa a punto dal colosso Ubisoft per diverse console e Pc.
La domanda, per chi non l’ha mai (ancora?) visto, sorge spontanea: perché Lost piace tanto? Eppure l’idea sembra scontata, un classico di cui letteratura, cinema e tv avevano già ampiamente abusato: un gruppo di sopravvissuti ad un incidente aereo sono costretti a vivere su un’isola sperduta, apparentemente disabitata ed in realtà abitata da “altri” e da misteriose terrificanti presenze. Il primo accostamento, ingeneroso quanto inevitabile, è con l’Isola dei famosi, ma Lost rappresenta, semmai, il miglior antitodo alla malattia da reality. Se in questi ultimi siamo bombardati di informazioni prevedibili quanto banali, nell’isola hawaiana di Oahu - dove Lost è girato interamente - resta più viva che mai l’incertezza.
Inziamo con il dire che Lost non assomiglia a nessun telefilm, così come siamo abituati ad intenderli, il più delle volte confezionati in ripetitive riprese d’interni. Con questo serial si manifesta, al contrario, l’irruzione del cinema più spettacolare nella televisione. Nonostante sia il più costoso mai realizzato - solo per l’episodio pilota sono stati spesi 12 milioni di dollari - gli effetti speciali sono contenuti, la tensione e la suspance sono garantite da una trama coinvolgente e da una scrittura mai lasciata al caso, ricca di significati spesso indecifrabili, sempre aperta a nuove storie che aggiungono mistero a mistero, costringendo il telespettatore a prestare attenzione ad ogni minimo indizio. Il genere rimane quello classico dell’avventura e del thriller ma l’opera è contaminata da fantascienza, esoterismo e da un sapiente mix di simboli e archetipi. La narrazione, ricca di citazioni, alterna momenti frenetici a dialoghi introspettivi. Non c’è sigla iniziale, i lunghi piani sequenza (molto rari in tv) si alternano con scene mozzafiato riprese con la camera a spalla. La fotografia è suggestiva quanto curatissima. L’uso della tecnica del flashback per conoscere il passato dei protagonisti – non in successione temporale progressiva ma volutamente disordinata – è ripensato in maniera del tutto innovativa. Ed è proprio la coralità del racconto la caratteristica vincente di Lost, non c’è un solo protagonista, tutti (o quasi) i sopravvissuti sono egualmente importanti. Nel corso degli episodi - ognuno dedicato ad un personaggio diverso - se ne conosceranno sfaccettature e motivazioni, senza stabilizzarli in clichè predefiniti, come accade spesso nei telefilm, e sottraendoli allo schema rassicurante dei buoni contro i cattivi. I superstiti, invece, cambiano in maniera inaspettata e in continuazione, come accade nella vita quotidiana a chi è messo di fronte a prove impegnative. Tutti hanno qualcosa da farsi perdonare e l’isola rappresenta, per certi versi, un purgatorio in terra: la voglia di riscatto dà loro, con una nuova vita, la possibilità di tornare a sbagliare o di ritrovare valori smarriti. Lost vanta un cast di grande qualità, composto da attori esperti. Basti ricordare Matthew Fox (Party of five) nell’interpretazione del medico Jack, “leader” dei superstiti, Dominic Monaghan (Merry ne Il Signore degli anelli) negli stravaganti panni della rock star, Joshua Lee Holloway ne l’anarco-individualista Sawyer e Naveen Andrews (Il paziente inglese) nel paradossale ruolo “positivo” di un ex pretoriano iracheno. Persino la scelta dei nomi non è affatto casuale, ma portatrice di indizi sulla personalità del personaggio.
«Come tutte le opere, anche letterarie, non necessariamente Lost deve lanciare messaggi ideologici e noi possiamo godere del suo relativismo, anche se nella seconda serie i profughi riscoprono una dimensione religiosa e spirituale significativa, costruendo una Chiesa come atto fondante, malgrado gli inevitabili contrasti interni, di una vera e propria comunità cristiana. La tematica soprannaturale è l’unico modo per mettere ordine al caos e in questa evoluzione probabilmente pesa lo stato d’animo americano dopo l’11 settembre». Lo sostiene Claudio Ughetto, intellettuale piemontese già collaboratore di Diorama Letterario, che sottolinea come «l’incertezza della storia ben rappresenti la fragilità dell’attualità, con tutte le ansie legate alla guerra in Iraq e alla minaccia del terrorismo».
Incredibilmente Lost è riuscito a mettere d’accordo il grande pubblico con la critica più esigente. Se negli Stati Uniti ha ricevuto importanti premi, tra cui ben sei Emmy Award e il prestigioso Golden Globe per la migliore serie drammatica nel 2006, in Italia annovera tra i suoi più convinti sostenitori Aldo Grasso, che ha salutato la seconda stagione come «straordinaria, ancora più bella della prima» sottolineando la potenzialità della formula seriale: «Se il film è un’opera chiusa di due ore, la serialità rappresenta un’opera aperta a colpi di scena mai deludenti, sempre in crescita».
«Lost funziona perché racconta una storia che ci riguarda tutti, la condizione del naufragare, l’isola del nostro continuo naufragio – ha spiegato il critico del Corriere della Sera - il dover rifare i conti con le cose primordiali della vita, quelle da cui dipende la nostra sopravvivenza e anche con le domande ultime, le più difficili: dobbiamo credere alla scienza o alla fede? Dobbiamo essere razionali o irrazionali?».
Se è senz’altro vero che la serialità è il punto forza di Lost, l’eccessiva dilatazione della storia può diventarne il limite, compromettendone alla distanza il livello qualitativo e la tenuta degli ascolti. Non è un caso, del resto, se la fortunatissima Twin Peaks di David Lynch si è felicemente conclusa in due stagioni, mentre altre serie partite molto bene (com’è accaduto, in parte, per Alias e X-Files) sono degenerate in noiose telenovelas. Al momento Lost non sembra correre questo pericolo, anche se Usa Today ha parlato di un progressivo declino della serie con conseguente disaffezione del pubblico, segnalando una flessione di dodici punti nello share degli ultimi episodi (ma rimanendo sempre saldamente sopra la soglia dei 20 milioni di telespettatori). Come se non bastasse il papà di Lost, J. J. Abrams, autore televisivo anche della recente What about Brian - che vede tra i protagonisti il nostro Raul Bova, anch’essa trasmessa da Fox Sky - e regista cinematografico sempre più apprezzato (recentemente alle prese con Mission Impossible 3), è stato strappato dalla Paramount alla Touchstone Television (Disney), produttrice di Lost, che starebbe valutando se fermarsi alla quarta stagione o arrivare fino alla quinta. Abrams, al riguardo, è stato già confermato produttore esecutivo del serial, ma avrà ancora tempo sufficiente, «il genio di Hollywood», per impegnarsi nella scrittura della sua creatura? Tra i tanti fitti misteri che avvolgono il destino dei naufraghi, il paventato disimpegno di Abrams - per i pur forgiati appassionati - è probabilmente quello più preoccupante, quello che potrebbe scrivere l’unica parola che non vorrebbero leggere: FINE.
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