sabato 9 dicembre 2006

Luciano Bianciardi, l'irregolare che amava il cabaret

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 15 febbraio 2006
rubrica "Sei un mito"
E' vero, è stato in qualche modo il Jack Kerouac italiano. Sul Domenicale, di recente, è stato definito - in riferimento al suo spirito individualista e libertario - "il nostro Steve McQueen, il nostro cattivo, il nostro uomo dalla vita spericolata". Ma alla fine ci sono riusciti. A cucirgli addosso la divisa dell’arrabbiato in servizio permanente effettivo. L’ennesimo santino da tirare fuori all’occorrenza per dare voce ad un coro dal quale Bianciardi si era chiamato fuori. La recente controversa scelta delle edizioni Isbn di mandare in libreria il primo volume delle sue opere complete con il titolo di L’antimeridiano, se da una parte ha il grande merito di aver riaperto il dibattito su un personaggio irregolare e guastafeste, dall’altro rischia di trasformarlo in caricatura, di usarlo, fuori tempo massimo, come ariete contro la corazzata delle lettere nazionali. Proprio quello che Bianciardi non avrebbe voluto, rendere servizio ad una parte, qualunque essa sia. Del resto in vita era stato chiaro. «No, l’incazzato di professione non lo faccio». La proposta di scrivere un libro «arrabbiato» l’anno gli era arrivata dalla Rizzoli dopo il grande successo, cinquantamila copie in poco più di una settimana, de La vita agra (1962). Storia di una «solenne incazzatura in prima persona singolare» con un mondo che si affrettava a saltare sul carro del progresso. Bianciardi da quel treno in corsa volle scendere, sapendo di farsi male, pur di non allinearsi. Atto di accusa contro Milano, simbolo di un “miracolo economico” pieno di aspettative ma anche foriero di cattivi presagi. Centoventi pagine scritte di getto, una storia in buona parte autobiografica. Il protagonista, però, non è venuto a Milano per lavorare, ma per realizzare una covata vendetta. Vuole far saltare in aria il palazzo della società proprietaria della miniera e responsabile della morte dei quarantatre compaesani. L’indimenticata tragedia di Ribolla del 4 maggio 1954, l’esplosione della miniera di lignite che aveva provocato quarantatre morti, l’aveva segnato per sempre. Montanelli sul Corriere della Sera lo definisce uno dei libri «più vivi e stupefacenti» degli ultimi anni e propone all’autore una collaborazione, due pezzi al mese per la terza pagina, per trecentomila lire. Soldi. Veri. Tanti. Come non ne aveva mai visti con la sua attività di traduttore. Tantissimi, per chi salta i pasti e si riduce a mangiare mezze porzioni nelle latterie di Brera. Eppure rifiuta e si prende del «bischero» dal vecchio leone del giornalismo italiano. E dice no anche alla proposta della Rizzoli, cui propone uno dei suoi libri sul Risorgimento, vecchia passione sempre coltivata.
Ma chi è davvero Bianciardi? Era nato a Grosseto il 14 dicembre 1922, città che aveva lasciato per rispondere alla chiamata in armi della patria e nella quale, dopo due anni di guerra e con il grado di sergente, aveva fatto ritorno nel 1945, trovandola semidistrutta da venti mesi di bombardamenti angloamericani. Come racconta Pino Corrias, autore della bellissima biografia Vita agra di un anarchico (Baldini & Castoldi 1993), nei «covi rossi della Maremma» dopo un anno dalla fine della guerra erano ben centoventi le sezioni del PCI. Tutti erano comunisti, braccianti, mezzadri, contadini, intellettuali, studenti. Bianciardi no, «detesta le tessere, i funzionari togliattizzati che chiama preti rossi». Si dichiara «anarchico individualista». La mia, afferma, «è una disposizione d’animo, non un’ideologia». Si laurea in filosofia a Pisa, insegna, poi lascia la cattedra per improvvisarsi dinamico responsabile della biblioteca comunale. Nel frattempo comincia l’attività giornalistica, realizza un’inchiesta sulla condizione dei minatori maremmani. Sono gli anni «più belli e ricchi», ma non è lontano il tempo del disincanto che lo porterà a definire il dopoguerra «una colossale fregatura». L’opportunità per cambiare vita arriva presto. Con il suo giornalismo di denuncia è pronto ad essere arruolato dai vertici del PCI, che lo segnalano a Giangiacomo Feltrinelli, impegnato a reclutare giovani intellettuali per dare vita ad una nuova casa editrice. Arriva la convocazione per un colloquio, ma Bianciardi diffida dei comunisti. «Io sono anarchico, cosa volete voi da me?», chiede a Maria Iatosti, la giovane militante comunista per la quale ha lasciato moglie e figli. Poi accetta. L’arrivo a Milano nel 1954 è traumatico, così come l’incontro con Feltrinelli, detto il giaguaro, «ignorante come un tacco di frate e ricco da fare schifo». L’ambiente di lavoro non gli piace, gli «intellettuali-funzionari» della casa editrice non gli sono simpatici, trova ridicoli quei «fannulloni frenetici» nella loro ansia di affermazione, troppo disponibili a farsi corrompere. Gli vengono assegnate le traduzioni e la direzione delle collane Scrittori d’oggi e la Bianca e nera. Ma arriva presto il licenziamento per scarso rendimento, senza che nessun collega si esponga in suo favore. Ha rotto l’anima a tutti con l’ostentazione del suo essere povero e trasandato in un periodo nel quale tutti coltivano ambizioni e vivono nell’illusione di arricchirsi.
Lo stesso Bianciardi raccontò: «mi licenziarono soltanto per via di un fatto, che io strascico i piedi, e poi mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile». Feltrinelli gli affida il lavoro esterno di traduttore e lui traduce a ritmi «infernali». Sono oltre cento le opere tradotte. Si deve a lui la lettura in lingua italiana di Faulkner, Miller, Huxley, Saroyan e di numerosi altri scrittori. Sua è la magnifica traduzione di Gilles di Pierre Drieu La Rochelle per l’editore Sugar (1961). Ma non sempre può scegliersi cosa tradurre, e per mangiare non può tirarsi indietro davanti alla Fecondazione artificiale della donna, ai Mille modi di aumentare le vendite e alla Fisica del neutrone. Scrive i suoi libri nel poco tempo libero. Nel 1957 pubblica il Lavoro culturale, vende poche copie ma diventa un libro di culto per molti giovani. Con «dieci giorni di sigarette e grappa» nel 1959 scrive L’integrazione, «uno schizzo sarcastico dell’industria culturale all’alba del boom». La città cambia troppo in fretta, Brera, la “cittadella dei pittori”, viene invasa dai pubblicitari, dai finti artisti e, per dirla con le parole di Vaime, dei “commendatori con il brivido intellettuale”. Nei bar si beve meno grappa e più whisky. Arriva la gente vestita bene. In una parola Brera diventa un quartiere alla moda. Per Bianciardi si spalancano le porte dei salotti di sinistra, si moltiplicano gli inviti alle feste. Se fosse ancora vivo, nella società televisiva di oggi, sarebbe preda ghiotta per comparsate televisive, conteso tra Costanzo e la Venier. Ha scritto un libro contro la Milano da bere e si ritrova ad affogare in un mare di party, cene in piedi, cocktail, balli e lusinghe.
Non è il suo ambiente, si sente a suo agio altrove, sotto le luci soffuse dei night, nelle trattorie frequentate, come dicono gli habitué e racconta Corrias, dalle «tre pi»: pittori, pompieri, puttane.
Vive nel mondo dei cabaret, il Derby prima e il Cab 64 poi. Per un nottambulo tiratardi come lui i locali notturni sono la sua vera casa. C’è il jazz, ma anche carismatici cantastorie come Franco Nebbia, personaggio poliedrico, pianista di piano bar e solitario di grandi alberghi, Pupo De Luca, Giorgio Gaslini, Franco Cerri. Conosce e frequenta Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, che all’epoca fanno serate in coppia sotto il nome dei Due Corsari. E tra il pubblico ci sono Dino Buzzati e Giancarlo Fusco, uno dei suoi più cari amici, quello cui affidare il proprio necrologio: «sentiresti le risate! E morire con un corteo funebre di ridenti è la gioia maggiore che possa toccare a un morto». Bianciardi sarà anche frequentatore abituale del Nebbia Club, aperto da Franco Nebbia dietro la Borsa. Il cabaret, spiega Corrias, «è uno dei pochi ambienti dove i nuovi miti della società dei consumi – utilitaria, televisione, frigorifero, cambiali – finiscono dentro a una risata grottesca, magari ingenua, magari inoffensiva, però abbastanza cattiva da rovinare la festa agli ottimisti».
Come scrittore, fa esattamente il contrario di quello che ci si aspetta da lui. Insiste con altri libri di divulgazione storica: La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969) e Aprire il fuoco (1969). Sceglie di collaborare con riviste ai margini dell’editoria che conta, come Belfagor, Comunità, Nuovi argomenti e addirittura Playman e Le ore. Decide di sperperare il patrimonio di credibilità accumulato come scrittore e giornalista, si sente sempre più a disagio nei panni di intellettuale militante, «limita la sua protesta ad un’alzata di spalle». Si trasferisce a Rapallo, dove – insieme alla moglie – gestisce una libreria, la stessa frequentata dal vecchio Ezra Pound. «Passa metà delle sue giornate nelle osterie di Sant’Anna, gira in pantofole, scrive articoli inutili e libri mediocri. A quarantadue anni, esce di scena». E’ un uomo stanco, deluso, nauseato. Torna per un breve periodo a Grosseto. Intorno il mondo è scosso da eventi epocali: il ‘68, le occupazioni, Praga, l’autunno caldo. Bianciardi è distante anni luce, vive chiuso in se stesso. Solo una volta si trova, quasi per caso, ad una manifestazione di sinistra. Gli basta prendere in mano un volantino per esplodere: «Ma guarda come scrivono! Questi non sanno neanche l’italiano, non faranno mai la rivoluzione». Da Rapallo torna a Milano, ma non è più in grado di lavorare. Come accadrà anche ad altri grandi scrittori e amici come Gianni Brera e Giovanni Arpino, la collaborazione con riviste sportive gli procura lo snobistico disconoscimento degli ambienti culturali radical-chic, ma questo non gli impedisce di accettare una rubrica fissa sul Guerin Sportivo. Nelle traduzioni che gli vengono commissionate intere righe sono piene di errori se non inventate di sana pianta.
Gli ultimi mesi sono terribili, continua a bere, soffre di crisi depressive, sembra aver fretta di morire. Ha combattuto la sua guerra personale e l’ha persa. Rimane il crudo epilogo tracciato da uno dei suoi migliori amici, Giovanni Arpino, anche lui scrittore dimenticato troppo in fretta: «aveva preso cazzotti tutta la vita. E il romanzo (La Vita Agra) di colpo lo aveva fatto sentire al centro del ring: in piedi, saldo, tra gli applausi». Invece – incredibilmente – da quel ring è sceso proprio mentre tutti lo acclamavano. Quando era al culmine del successo, si scherniva: «per me successo è participio passato del verbo succedere». Forse consapevole che per lui il successo avrebbe segnato l’anticamera della fine. Di colpo era rimasto intrappolato in quegli stessi ingranaggi della società milanese salottiera e progressista che aveva aspramente combattuto. Al suo funerale, in un livido giorno di novembre del 1971, non c’è nessun «corteo funebre di ridenti», ma quattro gatti. Aveva scritto: «deve essere un bel funerale. Dietro venga chi voglia, tranne le segretarie secche. Loro no. Poi si scordino pure di me». E invece sono ancora qui a tirarlo per la giacchetta.

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