sabato 9 dicembre 2006

John Fante, il caso degli anni Ottanta

Dal mensile Area, maggio 2000
Un caso letterario, il più rilevante degli ultimi dieci anni. Non si può commentare diversamente il clamoroso e crescente entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha accolto la pubblicazione dei libri (molti dei quali inediti) di John Fante (Denver 1909 - Los Angeles 1983).
Merito dei suoi romanzi, naturalmente, ma anche del fascino di questo scrittore istrionico, impertinente, irascibile e commovente. John Fante è infatti un vero personaggio e la sua vita è essa stessa un appassionante romanzo. Personaggi sono stati tutti i Fante, compresi gli avi, a cominciare da Domenico, detto Mingo. Fedele suddito dei Borboni e valoroso brigante nella guerra di unificazione nazionale, venne arrestato, accusato di tradimento e impiccato. Le sue “gesta” divennero una gustosa leggenda per il giovane John grazie ai racconti del nonno Giovanni, il primo della famiglia a raggiungere gli Stati Uniti. Il padre Nick, abruzzese di Torricella Peligna, paesino di milleottocento anime in provincia di Chieti, sbarcò a New York nel dicembre del 1901, agli albori di un nuovo secolo che, per un emigrante come lui, si presentava ricco di prospettive da cogliere. Nick, «muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar», vide riconosciuta la sua qualità di personaggio nei romanzi del figlio John: «Mussoliniano, ma grandemente democratico e insaziabilmente americano».
John decise di non seguire le orme paterne e ventenne lasciò il Colorado per la California e più precisamente per la città degli angeli, Los Angeles, animato da una certezza granitica e da un ardente desiderio: non avrebbe mai preso una cazzuola in mano e sarebbe diventato un grande scrittore, anzi il più grande di tutti.
Partì in autostop e con un dollaro in tasca. «La miseria mi spinse in California», scrisse anni dopo, ma più della miseria, cui era abituato, era l’ambizione di scrivere la sua ossessione. Arrivato a Los Angeles prese in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima aveva rappresentato il cuore pulsante della città, le cui ville – ormai in rovina – erano state trasformate in grandi pensionati popolari.
Iniziò così il periodo dei «ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore», con un unico incessante pensiero, scrivere: «aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo […] mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore, Knut Hamsun, non abbandonarmi».
Tra il 1933 ed il 1936 realizzò il suo primo tentativo letterario, scrivendo un vero capolavoro, un grandissimo romanzo, La strada per Los Angeles, nel quale raccontava con stile brillante la sua vita di quegli anni. Il libro venne rifiutato da numerosi editori, rigettato senza appello e vide la luce solo dopo la morte dello scrittore. La spiegazione della mancata pubblicazione la offrì lo stesso Fante in una lettera inviata ad un amico: «dentro ci sono cosette che metterebbero il fuoco al culo a un lupo […] è un pochino troppo forte […] manca di buon gusto. Ma non me ne importa niente». E in quanto «indecente» non venne pubblicato per mezzo secolo. Il protagonista è «devoto di Hamsun, Nietzsche e di Oswald Spengler, lettore di libri che la massa non può leggere», a tratti iroso e violento nelle sue furastiche reazioni, pronto a ingaggiare battaglie contro le «formiche» che lo infastidiscono. «Formiche borghesi! Cercare di gabbare uno la cui mente si nutre di Spengler, Schopenhauer e altri grandi». E’ un personaggio saccente ma simpatico, anche quando non esita a dare dello «scemo e minus habens» a chi «non ha letto Spengler e non sa che l’occidente è in declino», pronto a vendicarsi del suo datore di lavoro chiedendogli provocatoriamente un parere sulla «weltanschauung hitleriana», solo per dimostrarne l’ignoranza. «Feci un fischio e gli voltai le spalle […] arretrai oltre la porta, sorridendo senza speranza […] Questo era troppo per me. Che potevo fare con un simile ignorantone?». Non manca però l’autoironia, a tratti la comicità, come quando il protagonista si chiede: «Ma guardati! […] Un bel superuomo sei diventato! E se Nietzsche ti vedesse adesso? E Schopenhauer, che ne direbbe? E Spengler? Ruggirebbe. Pazzo, idiota […] sorcio».
Il suo primo romanzo pubblicato, Aspetta primavera Bandini del 1938, venne accolto con curiosità e favore dalla critica, mentre la seconda prova, Chiedi alla polvere del 1939, incontrò la freddezza degli ambienti letterari (oggi entrambi i romanzi sono disponibili nelle edizioni Marcos y Marcos). Tale accoglienza, tutt’altro che trionfale, e la non superata delusione per le ripetute bocciature del libro nel quale aveva riposto tutto se stesso, lo sconfortarono. L’insuccesso e il matrimonio lo costrinsero a misurarsi con lo spettro della precarietà economica.
Fu così che il giovane Fante, mancato (rinviato) l’appuntamento con la fama mondiale, con rammarico, rivolse il proprio ingegno al cinema, cimentandosi in una attività che si presentava come più redditizia, quella di sceneggiatore a Hollywood. Anni dopo se ne pentì: «Per molti motivi vorrei non aver lavorato per il cinema. Tende a rovinare un buono scrittore». Ma aveva bisogno di denaro per mantenersi e per continuare ad alimentare i suoi sogni. Prima di affermarsi come sceneggiatore inciampò in inattese complicazioni. La moglie, la poetessa Joyce Smart, spiegò che «Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra» e che questo atteggiamento aveva costituito un vero e proprio ostacolo per la sua carriera in un ambiente fortemente politicizzato, quale quello cinematografico, che lo aveva avvertito sin dall’inizio come un renitente, un intruso, un infiltrato. Infine riuscì, tramite la raccomandazione dell’amico scrittore Carey MsWilliams, a farsi assumere negli Studios e a raggiungere così una certa agiatezza, pur costantemente minacciata dal vizio del gioco. Che si trattasse del poker o del biliardo, o anche del golf, Fante non sapeva resistere alla tentazione di giocarsi più di quanto guadagnasse.
La vita di quei lunghi anni fu partcolarmente frustrante per Fante, l’aver sacrificato il suo talento per dedicarsi ad un oscuro lavoro da “gregario” lo lasciava sempre più «infelice e insoddisfatto». Solo molti anni dopo arrivarono “dal cinema” le prime gratificazioni importanti: le collaborazioni con Billy Wilder, Alfred Hitchock a altri grandi registi, i viaggi all’estero, la vera ricchezza e persino la nomination all’Oscar per l’adattamento cinematografico del suo romanzo Full of Live del 1952, il più significativo successo di Fante in vita.
Lavorare per Hollywood, però, finì per diventare una distrazione fatale per la sua attività di narratore. I facili guadagni finirono per impigrirlo e forse rinunciò al sogno di diventare un grande scrittore. Non seguì il consiglio che gli aveva dato l’amico William Saroyan, di continuare a scrivere romanzi: «una volta Saroyan mi ha detto: scrivili grandi e scrivili spesso, Johnnie, perché ti dimenticano in fretta». Oblio che puntualmente arrivò.
Riprese a scrivere narrativa soltanto molti anni dopo, ma ogni volta era come ricominciare da capo. Il pubblico aveva dimenticato quel giovane che molti anni prima aveva pubblicato qualche buon romanzo e dei discreti racconti. Nel 1977 scrisse La Confraternita del Chianti, ma a tagliargli la strada verso il successo arrivò presto una malattia spietata, il diabete, che finì per provocargli progressivamente l’amputazione delle gambe e la cecità.
Continuò stoicamente a dettare le ultime pagine alla moglie. Nel 1982 scrisse, o meglio dettò, Sogni di Bunker Hill, romanzo breve nel quale racconta le aspettative, ormai lontane, della sua giovinezza. E’ una storia incredibilmente allegra e mai amara, non c’è traccia di quella mestizia che pure sarebbe comprensibile in una persona nelle sue condizioni fisiche, sempre più precarie.
Il suo amico Bukowski scrisse: «finire ad Hollywood a scrivere sceneggiature, ecco cosa l’ha ucciso». E fu una morte terribile, come testimonia lo stesso scrittore, che gli rimase vicino fino alla fine, negli ultimi diciassette mesi trascorsi a vegetare in una clinica: «una delle più lente orribili morti a cui io abbia mai assistito o sentito raccontare».
Solo dopo la morte, sopravvenuta l’8 maggio 1983, hanno visto la luce, grazie al generoso impegno della moglie, numerose opere inedite, tra cui Un anno terribile e A Ovest di Roma, disponibili in italiano nelle Edizioni Fazi.
Per comprendere meglio il mancato apprezzamento delle opere di Fante da parte della critica militante e il difficile rapporto avuto con gli editori nel corso degli anni, elementi che pure hanno contribuito a scoraggiarne un più determinato e costante impegno letterario, occorre soffermarsi sulla caratterizzazione culturale e sulla vicenda umana di Fante.
Certamente ha subito il pregiudizio, tuttora molto diffuso negli Stati Uniti, nei confronti degli immigrati di origine italiana. Nonostante le sue cristalline capacità rimaneva pur sempre un “dago”, termine spregiativo con il quale vengono ancora oggi definiti gli italiani d’America, che peraltro animano l’intera opera fantiana (il nomignolo fa riferimento al vino rosso degli immigrati e proprio Dago Red è il titolo di una raccolta di racconti di Fante del 1940). «Per loro ero Wop [With Out Passaport], Dago, Greaser [locuzione riferita soprattutto ai messicani, nda]… Mi hanno umiliato al punto da farmi diventare diverso e mi hanno spinto ad accostarmi ai libri, a rinchiudermi in me stesso».
C’è poi il percorso “politico-letterario” di Fante, i primi lavori inviati alle riviste e il rapporto di amicizia (solo espistolare ma molto intenso) con Henry Louis Menken (1880-1956), scrittore e critico di destra, che pubblicò i primi racconti dello scrittore, Altar boy e Home sweet home, su The American Mercury. La prestigiosa rivista letteraria, considerata «fascista» dallo stesso Fante, era nota per l’orientamento conservatore e per la consuetudine di selezionare le collaborazioni giornalistiche sulla base della comune appartenenza culturale. Quella di Fante fu più di una semplice collaborazione, tanto che ebbe a definire la rivista «il mio luogo di nascita, la mia casa, la mia scuola, il mio partner, il mio campo di gioco, la vita stessa». Sull’ammirazione nutrita per Menken («vale 10 Roosevelt») e sulla formazione di Fante è molto interessante la corrispondenza tra i due; A personal correspondence Menken-Fante 1930-1952*, purtroppo esclusa dalla recente traduzione delle altre lettere fantiane (Lettere 1932 -1981), e disponibile solo in lingua inglese (si può ordinare scrivendo a arthouse@arthouseine.com).
Ci sono poi le posizioni “politicamente scorrette” di Fante. Non mascherava, anzi rivendicava la sua indifferenza per le sorti della guerra: «La guerra in Europa, i discorsi di Hitler. Sciocchezze! Date ascolto a me, invece, che ho qualcosa da dirvi sul mio libro […] Ma a loro non interessava. Quella povera gente dal destino tragico preferiva la guerra in Europa […] Io li guardavo e scuotevo il capo mestamente». «L’unica guerra che intendo combattere è quella che io stesso ho intrapreso», dichiarava facendo sfoggio di un’originalità che rasentava l’impudenza pura e semplice.
Ogni occasione era buona per manifestare la sua avversione per il comunismo: «chiunque ami il comunismo dovrebbe vedere Berlino Est. Al diavolo i dogmi marxisti. Quello che vede l’occhio a Berlino Est risponde a tutte le domande». Trovava esecrabile il camaleontismo degli intellettuali di sinistra: «oscillano in avanti e indietro, senza principi, ipocriti, persi, pronti a correre in soccorso del vincitore della guerra fredda». Al suo giudizio inesorabile non sfuggivano i critici comunisti, «i rossi dallo sguardo allucinato», come li chiamava con intento derisorio. Disistima che i critici marxisti ricambiavano ignorando o maltrattando le sue opere. Ogni volta che, nei suoi viaggi di lavoro, si trovava nel nostro paese, si corrucciava nel constatare che «ci sono sei milioni di comunisti in Italia […] l’intera industria del cinema è dell’intellighentia rossa del tipo che prevaleva a Hollywood […] si identificano facilmente perché danno voce a cliché antiamericani. Il lavoro va a loro e mantengono le cose come stanno». Poi, con quel suo peculiare machismo da guascone dispettoso, concludeva affermando che «i poveri non sono rossi» mentre «tutti i finocchi sono rossi».
Ci sono poi i suoi spassosi personaggi, tutti autobiografici, perdenti ma sempre pronti a rialzarsi, e soprattutto c’è Arturo Bandini, spericolata controfigura di Fante, protagonista di diversi romanzi, una intera saga. Figlio di immigrati italiani, Arturo è un giovane sanguigno e vanitoso, irritabile e bellicoso, ma anche sensibile e autentico. E’ squattrinato e vive in fatiscenti camere in affitto al limite dell’indigenza, ma gli basta pensare al luminoso futuro che l’attende per sentirsi su di giri. Vuole a tutti i costi diventare uno scrittore. Anzi, gli faremmo un torto a dire così. Meglio essere precisi quando si parla di Arturo, non ci perdonerebbe mai una tale leggerezza d’espressione, ci ricoprirebbe d’insulti senza lasciarci il tempo di spiegare. Bandini vuole essere riconosciuto per quello che è, o meglio per quello che si sente di essere: un grande scrittore. Perché il nostro amico, ancora prima di cominciare a scrivere, si sente già predestinato a diventare il più grande romanziere del secolo. La sua sfrenata presunzione è pari solo alla sua paralizzante timidezza. Si innamora follemente di una focosa cameriera, Camilla Lopez, ma la ragazza non cade immediatamente ai suoi piedi, come Bandini si sarebbe aspettato. Il corteggiamento si dimostra disastroso. Camuffati i suoi sentimenti dietro un altezzoso distacco, come ritiene che si addica a chi sta per raggiungere l’empireo della letteratura mondiale, apostrofa la ragazza come «sudicia messicana» e «scarpe scalcagnate» con effetti che potete immaginare. Camilla, per tutta risposta, preferirà andare a vivere tra la «polvere» del deserto, lasciandolo solo, a «chiedersi» dove sia scappata.
Eppure è proprio al Bandini di Chiedi alla polvere che Fante deve buona parte della sua fama. Charles Bukowski, infatti, dopo aver letto quel libro, che gli sembrò «un miracolo, grande e inatteso, come aver trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino [così Hank considerava la biblioteca comunale, nda]», ne rimase folgorato. «Ecco, finalmente uno scrittore che non ha paura delle emozioni», commentò. In pochi giorni lesse tutte le opere disponibili di questo autore dimenticato, e le giudicò «scritte con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore». Preso da un contagioso entusiasmo convinse il proprio editore, John Martin, a far ristampare i libri di Fante. Nel 1980 la Black Sparrow Press pubblicò Chiedi alla polvere, nel 1982 Sogni di Bunker Hill, nel 1983 Aspetta primavera Bandini e solo nel 1985, due anni dopo la morte dell’autore, il libro che era rimasto nel cassetto, il romanzo cui Fante forse teneva di più, La strada per Los Angeles. E fu grazie a questa travolgente offensiva editoriale che la stampa americana scoprì nuovamente Fante e tornò ad occuparsi di lui, come se si trovasse davanti un esordiente. Ma Fante, alle prese con la malattia, fece appena in tempo ad accorgersene e non potè godere appieno dell’inatteso ritorno di notorietà.
Bukowski considerava Fante il «narratore più maledetto d’America», ne apprezzava «la purezza, il prodigio emotivo», l’energia che si sprigionava in ogni pagina e «il rincorrersi di dolore e ironia». Lo riteneva un vero maestro di scrittura e di vita. Fece appena in tempo a conoscerlo personalmente e poté così apprezzarne anche le qualità umane: «la personalità è buona, forte e calda come il suo linguaggio». «Conoscerlo», scrisse anni dopo, «è stato il vero evento della mia vita». L’opera fantiana esercitò un forte ascendente su Bukowski, al punto che il vecchio Hank nella vita privata non esitava ad assumere l’identità del suo personaggio preferito: «Si, Fante ha avuto una grande influenza su di me. Non molto tempo dopo averlo scoperto, mi misi a vivere con una donna. Beveva come una spugna, anche di più di me, e assieme facevamo delle litigate feroci, durante le quali le gridavo: non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini!».
Oggi John Fante è considerato da tutti un grande scrittore e persino la critica di sinistra, nel tardivo e disperato tentativo di appenderne frettolosamente il ritratto nella propria galleria, ne canta le lodi. Ogni suo libro supera, appena pubblicato, le ventimila copie vendute e la vita e l’opera del torricellano illustre sono addirittura diventate materia di tesi di laurea (una già svolta e altre quattro in preparazione).
Pregevole ed impagabile è, a tali fini, l’attività di supporto documentale dei “fantiani d’Abruzzo”, una associazione culturale che si riunisce tutti i mesi a Torricella Peligna (presente su internet all’indirizzo http:// www.villaggio.it/johnfante/john_fantiani.htm ). Il centro si dedica con grande passione all’approfondimento dello studio della figura del famoso conterraneo (in paese ci sono ancora figli di cugini di John).
Il Presidente, Pietro Ottobrini, dipendente comunale di Torricella Peligna, ci racconta un aneddoto inedito e significativo. Fante, poco dopo la guerra, ancora non famoso, venuto a conoscenza dei danni provocati dai bombardamenti, inviò al Sindaco un’accorata lettera per sapere com’era ridotto il paese e come stavano i suoi parenti. La scrisse in inglese perché, pur amando Silone, Pirandello, D’Annunzio e Verga, non aveva la necessaria confidenza con la lingua italiana. Il Sindaco, per rispondere, fu costretto ad andare a Chieti per farsi tradurre la lettera da una professoressa. In questa sincera preoccupazione di immigrato di seconda generazione risiede il motivo per il quale Fante rimandò a lungo l’idea di visitare il paese dei suoi genitori, anche quando, tra il 1957 e il 1960, per motivi di lavoro, venne spesso in Europa, soggiornando – tra l’altro - a Roma e Napoli.
Preferiva non rovinare il ricordo che gli avevano consegnato i genitori, di un Abruzzo rurale, povero ma dignitoso, pieno di montagne e di freddo come il suo Colorado, paura di «non trovare gente che mi somigli, gente piccola che, quando fa una casa con tutto l’universo dentro, è capace di resistere pure al Diluvio Universale. Se là invece trovo una pompa di benzina e le luci al neon, il bar all’americana e niente uomini come mio padre, è troppo il rischio di rovinare un paesaggio…» (tratto da Tesoro, qui è tutto una follia. Lettere dall’Europa 1957-1960).
Come ha scritto Bukowski nella prefazione di Chiedi alla polvere «la storia di John Fante non è tutta qui. E’ la storia di un uomo fortunato e sfortunato in egual misura, di un uomo di raro coraggio naturale». E noi siamo stati fortunati ad avere la possibilità di leggere i suoi romanzi e i suoi diari. Grazie Johnnie!


AREA, maggio 2000

* il libro in questione è stato pubblicato dall’editore Fazi nell’ottobre 2001 con il titolo Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken 1930-1952. E’ la testimonianza della forte sintonia umana e culturale tra i due scrittori: dalla passione condivisa per Nietzsche alla comune freddezza per l’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, al fastidio per il monopolio degli intellettuali di sinistra nel mondo culturale, nell’editoria, nella critica letteraria.

Esemplare, al riguardo, questo stralcio della lettera che Fante scrisse a Mencken il 16 giugno 1934:


«Caro signor Mencken,
in questi giorni mi fortifico con pesanti dosi di Nietzsche che, con tutti i suoi piccoli errori, è la migliore medicina al mondo […] Un mese fa il mio agente Maxim Lieber ha rifiutato un mio racconto perché era ironicamente filocattolico […] Il pensiero che un agente, un semplice agente, un dannato marxista, un maledetto marxista dilettante, rifiuta il mio racconto perché dispiace al suo umore del momento mi manda sempre fuori dai gangheri […] Ma capita che un racconto abbia un tema cattolico, e non c’è proprio ragione per cui un fottuto dannato agente, che si suppone tratti di opere letterarie e non di propaganda, dovrebbe rifiutarlo […] Che me ne importa del comunismo? Mi farò mettere contro il muro e sparare prima di sottoscrivere il marxismo da salotto di uno stupido gruppo di laureati di Harvard che – non avendo nulla dentro i loro cuori – devono inghiottire e difendere dei principi di cui non sanno nulla. Oggi, ogni bohémien, lesbica o finocchio, è comunista. Mi danno la nausea! E dovranno farmi a pezzi prima di impedirmi di pubblicare […] Simpatizzano con le masse. Questa è una bugia. Usano le masse come materiale, ma non simpatizzano se non in modo ipocrita […] Sono comunisti perché il comunismo in questo paese paga. Per quello che mi riguarda non simpatizzo con le masse. Le masse esisteranno sempre. Sono formate da sciocchi. Sono necessari alla società. Se proprio lo devo dire, odio le masse. Ho vissuto con loro e ho sentito il loro fiato sporco e le loro menti vuote. L’istruzione non le tocca. Niente può toccarle. Sono segnate. Che muoiano. Devo farmi gli affari miei, in questa vita, ovvero sopravvivere. Che è un lavoro tremendo. Non mi sporcherò le mani cercando di salvare le masse…»

1 commento:

Bibbo ha detto...

Bell'articolo. Io adoro Fante e a stento mi trattengo dal leggerlo centinaia di volte, solo Bukowski poteva descrivere meglio la magia di questo scrittore, ancora poco conosciuto. E infatti avrei preferito trovarmi ancora davanti la sua prefazione in "Chiedi alla polvere" invece di quella di Alessandro Baricco (fredda e noiosa, un'introduzione degna di un "piatto" professorino di lettere), ma l'Einaudi così invece ha voluto.
Nell'articolo vi è un'inesattezza: Fante non è stato candidato agli Oscar (l'Academy Awards) per il film "Full of Life". Era nelle nomination del premio WGA, il Writers Guild of America Award, per la miglior sceneggiatura (settore commedia) del 1956.