Nove anni dopo: un'altra idea dell'impegno femminile
Dal Secolo d'Italia di giovedì 8 marzo 2007
Giornata di lotta o festival del consumismo? Le celebrazioni della festa della donna cedono il passo al trionfo del marketing più invadente. Venditori ambulanti, mimose alla mano, si contendono potenziali clienti ad ogni angolo di strada, per il disappunto dei fiorai “stanziali”. Pasticceri e ristoratori già si leccano i baffi. Il rito – come tutti gli anni - sta per ripetersi. Fidanzati e mariti si mostrano indulgenti. Per chi avesse colpevolmente perso San Valentino, l’8 marzo può assumere carattere riparatore. Sulla nascita di questa festività sopravvivono ipotesi diverse. La più comune vuole che tutto ebbe inizio da un fatto di cronaca avvenuto nel 1908 negli Stati Uniti. Centoventinove operaie perirono - mentre protestavano per le precarie condizioni in cui erano costrette a lavorare - in un incendio (doloso?) provocato dal proprietario. Non si sarebbe fatto scrupolo di chiuderle nella fabbrica. Andò così? A leggere Wikipedia, forse no. Si tratterebbe, scrive l’enciclopedia virtuale, di «una leggenda adattata a fini propagandistici dai movimenti di sinistra di un fatto realmente accaduto ma con tempi e modalità diverse». Rimarremo con il dubbio. Di certo delle legittime rivendicazioni di un tempo non è rimasto molto. A parte qualche sonnacchioso convegno, l’orgia consumistica celebrerà se stessa. Chissà cosa ne penserebbe, al riguardo, una scrittrice schiva e silenziosa come Anna Maria Ortese, che in vita non fu certo celebrata ma, al contrario, osteggiata perché tutt’altro che tenera proprio con il femminismo militante e con i potentati culturali dell’epoca. Estranea alla retorica neorealista imperante nel secondo dopoguerra, si tenne accuratamente alla larga dal mondo autoreferenziale dei salotti letterari.
In una giornata come questa, ricordarla significa rendere onore ad una irregolare che non volle piegarsi a prestare servizio permanente effettivo al dogma marxista, né esercitarsi nella denuncia sociale politicamente unilaterale. Anna Maria Ortese ebbe infatti la sfrontatezza di dedicarsi ad una letteratura visionaria, simbolica e fantastica, tesa all’inseguimento della bellezza e dell’invisibile, dell’inespresso.
Tra l'altro, sabato 10 marzo saranno trascorsi nove anni dalla scomparsa di una autrice finalmente riconosciuta come una delle più grandi del Novecento. Un destino vagabondo, il suo, inaugurato dai viaggi della giovinezza a Roma, Venezia, Trieste, dove vive correggendo le bozze al Gazzettino. Ed è qui che partecipa ai Littoriali femminili del '39, nelle sezioni "Concorso per una composizione poetica" e "Composizione narrativa", a tema libero. Con quindici poesie, Anna Maria vince la prima gara ed è proclamata Littrici, nella sezione "narrativa" è seconda, con cinque novelle. Aveva già esordito negli anni Trenta su La fiera letteraria di Roma. E’ il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della sua prima raccolta di racconti, Angelici dolori ('37). La stroncatura dei critici militanti è violenta, esagerata se si considera che si tratta di una giovane esordiente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima». Le si contesta il «deteriore romanticismo» stridente con il rigoroso materialismo cui gli intellettuali politicamente corretti devono attenersi. Una faziosità dettata «dal disprezzo ideologico», ha riconosciuto Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia '98).
La città d’adozione della Ortese è Napoli, cui la scrittrice dedica uno spietato libro d’amore, nel quale descrive le condizioni di vita miserrime della “plebe” napoletana. Il mare non bagna Napoli ('53), la raccolta che le vale il Premio Viareggio, è un viaggio nelle viscere della città. E non solo. In un capitolo del volume, Il silenzio della ragione, stila un feroce ritratto dagli intellettuali progressisti, accusandoli di aver perso ogni «sacro furore» e «di essersi omologati ad una società conformista e utilitaristica, profondamente cambiati dall’ansia del successo». L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo», teso a denigrare Napoli e la sua classe dirigente. La Ortese rimprovera, a quello che era pur sempre il proprio mondo culturale di origine, l’individualismo gretto e il disinteresse, la sostanziale connivenza con il sistema che a parole si diceva di voler cambiare. Tale posizione le costerà l’emarginazione, costringendola di fatto a lasciare Napoli per non mettervi più piede, neanche quando, poco prima della morte, il Comune - considerate le ristrettezze economiche della scrittrice - le assegnerà un appartamento nei Quartieri Spagnoli. Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: vecchi, poveri, bambini, deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI. Ne trova ulteriore conferma quando, di ritorno da un viaggio in Russia, prende atto con amarezza delle reazioni violente e intolleranti ai suoi reportage giornalistici. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. La sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi. Io scrivevo in modo non ortodosso». Nell’86 l’Adelphi decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne le inedite. A L’iguana seguono In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato, Alonso e i visionari, Corpo celeste, Il porto di Toledo ed altri, sino alla recenti antologie di romanzi. Le vendite rivelano l’apprezzamento del pubblico, ma lei non rinuncia al suo stile di vita parco e quasi anonimo. E’ l’indignazione per la vicenda di Erich Priebke – nella quale scorge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’umiliazione – a farle vincere la naturale ritrosia e a scrivere una lettera al quotidiano Il Giornale, chiedendo pietà per il «lupo sconfitto». Ne nasce un’odiosa polemica. Tabucchi definisce «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della scrittrice, più di qualcuno si scaglia contro «l’intenerita coetanea del nazista». Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Questa Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli e quell’uomo è vecchio e solo e abbiamo torto ad identificare questa idea con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile». Parole inaccettabili per chi ha costruito la propria fortuna sull’antifascismo militante e non vuole rinunciare ad una comoda rendita di posizione.
In una giornata come questa, ricordarla significa rendere onore ad una irregolare che non volle piegarsi a prestare servizio permanente effettivo al dogma marxista, né esercitarsi nella denuncia sociale politicamente unilaterale. Anna Maria Ortese ebbe infatti la sfrontatezza di dedicarsi ad una letteratura visionaria, simbolica e fantastica, tesa all’inseguimento della bellezza e dell’invisibile, dell’inespresso.
Tra l'altro, sabato 10 marzo saranno trascorsi nove anni dalla scomparsa di una autrice finalmente riconosciuta come una delle più grandi del Novecento. Un destino vagabondo, il suo, inaugurato dai viaggi della giovinezza a Roma, Venezia, Trieste, dove vive correggendo le bozze al Gazzettino. Ed è qui che partecipa ai Littoriali femminili del '39, nelle sezioni "Concorso per una composizione poetica" e "Composizione narrativa", a tema libero. Con quindici poesie, Anna Maria vince la prima gara ed è proclamata Littrici, nella sezione "narrativa" è seconda, con cinque novelle. Aveva già esordito negli anni Trenta su La fiera letteraria di Roma. E’ il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della sua prima raccolta di racconti, Angelici dolori ('37). La stroncatura dei critici militanti è violenta, esagerata se si considera che si tratta di una giovane esordiente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima». Le si contesta il «deteriore romanticismo» stridente con il rigoroso materialismo cui gli intellettuali politicamente corretti devono attenersi. Una faziosità dettata «dal disprezzo ideologico», ha riconosciuto Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia '98).
La città d’adozione della Ortese è Napoli, cui la scrittrice dedica uno spietato libro d’amore, nel quale descrive le condizioni di vita miserrime della “plebe” napoletana. Il mare non bagna Napoli ('53), la raccolta che le vale il Premio Viareggio, è un viaggio nelle viscere della città. E non solo. In un capitolo del volume, Il silenzio della ragione, stila un feroce ritratto dagli intellettuali progressisti, accusandoli di aver perso ogni «sacro furore» e «di essersi omologati ad una società conformista e utilitaristica, profondamente cambiati dall’ansia del successo». L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo», teso a denigrare Napoli e la sua classe dirigente. La Ortese rimprovera, a quello che era pur sempre il proprio mondo culturale di origine, l’individualismo gretto e il disinteresse, la sostanziale connivenza con il sistema che a parole si diceva di voler cambiare. Tale posizione le costerà l’emarginazione, costringendola di fatto a lasciare Napoli per non mettervi più piede, neanche quando, poco prima della morte, il Comune - considerate le ristrettezze economiche della scrittrice - le assegnerà un appartamento nei Quartieri Spagnoli. Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: vecchi, poveri, bambini, deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI. Ne trova ulteriore conferma quando, di ritorno da un viaggio in Russia, prende atto con amarezza delle reazioni violente e intolleranti ai suoi reportage giornalistici. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. La sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi. Io scrivevo in modo non ortodosso». Nell’86 l’Adelphi decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne le inedite. A L’iguana seguono In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato, Alonso e i visionari, Corpo celeste, Il porto di Toledo ed altri, sino alla recenti antologie di romanzi. Le vendite rivelano l’apprezzamento del pubblico, ma lei non rinuncia al suo stile di vita parco e quasi anonimo. E’ l’indignazione per la vicenda di Erich Priebke – nella quale scorge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’umiliazione – a farle vincere la naturale ritrosia e a scrivere una lettera al quotidiano Il Giornale, chiedendo pietà per il «lupo sconfitto». Ne nasce un’odiosa polemica. Tabucchi definisce «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della scrittrice, più di qualcuno si scaglia contro «l’intenerita coetanea del nazista». Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Questa Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli e quell’uomo è vecchio e solo e abbiamo torto ad identificare questa idea con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile». Parole inaccettabili per chi ha costruito la propria fortuna sull’antifascismo militante e non vuole rinunciare ad una comoda rendita di posizione.
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