Dal Secolo d'Italia di mercoledì 14 marzo 2007
No ai Dico! Viva i Dico! Il dibattito sulle coppie di fatto procede con l’allegra e disperata baldanza di un ubriaco. Ad euforici brindisi di piazza segue la “perplessità” di chi vorrebbe smaltire in fretta la sbornia e tornare - si fa per dire - alla normalità. Perché non si vive di soli Dico. Anzi, di Dico si rischia di morire, governativamente parlando. La legge è un pasticcio. E poi ci sono convivenze che sfuggono ad ogni fattispecie giuridica. La vita va spesso in direzioni che mai avremmo immaginato. Christian Beck lo ha provato sulla propria pelle, sia pure di carta e inchiostro. Quando la compagna, gravemente ammalata, gli confessa di volersi sposare, acconsente, quasi sollevato all’idea di poter fare qualcosa per la donna che non tocca più da dieci anni ma che rimane l’unica persona al mondo di cui si fidi. Moglie, madre, amica, sorella, figlia, tutto e niente. Lei, però, non vuole sposarsi con lui, ma con un rifugiato algerino giovane e bello. Non che lo ami davvero, è maledettamente generosa, sente di dover fare qualcosa di buono. Lui no, è troppo preso a distruggere se stesso, talmente rassegnato da cedere senza esitazioni il letto matrimoniale ad un estraneo. Inizia così uno insolito quanto esilarante menage a tre che poteva nascere solo dal genio inconfondibile di questo “nipotino postmoderno di Pessoa” o “Giamburrasca della letteratura europea”, felici definizioni che hanno salutato il trionfale ingresso di Arnon Grunberg (Amsterdam, ’71) sul proscenio delle lettere.
Christian è il protagonista – ammesso che possa definirsi tale chi anela al fallimento - dell’ultimo romanzo di Arnon, Il rifugiato (Instar Libri, € 18,00) da pochi giorni in libreria. Beck è un ex scrittore che ha perso fiducia nel potere della letteratura. Inseguito dai fantasmi dei suoi romanzi deliranti, traduce libretti d’istruzione cercando di sfuggire alla vita. Ed è solo uno dei personaggi della bizzarra quanto strabiliante galleria di personaggi inventati dalla fantasia bulimica di uno scrittore che, nonostante la giovane età, è da oltre dieci anni un autore di culto tra i più importanti nel panorama internazionale, soprattutto tra i giovanissimi. E chiunque voglia afferrare qualcosa della postmodernità e della fragilità delle nuove relazioni umane farebbe bene a rivolgersi ai suoi romanzi piuttosto che a ponderosi (e astratti) trattati di sociologia.
Il primo romanzo, Lunedì blu (’94), lo ha reso famoso a ventitré anni: 160.000 copie vendute solo in Olanda, tradotto in ventisei paesi. La prestigiosa New York Times Books Review ha definito il libro «una vera miniera d’oro». L’autorionia spietata, la comicità dissacrante, la padronanza del paradosso e l’abilità nel trasporre in chiave umoristica anche le situazioni più drammatiche, hanno fatto sì che la critica accostasse subito questo smilzo e irriverente elfo olandese di origini ebraiche a giganti come Woody Allen, Houellebecq, Roth (Philip), Nabokov e soprattutto al mitico Salinger. Già, perché il giovane Arnon – Grunberg ha dato il suo nome al protagonista – si propone di pensionare definitivamente il giovane Holden. Del resto, la vita stessa di Arnon è una fonte d’ispirazione inesauribile: «Mi hanno sbattuto fuori dalla scuola quando avevo sedici anni perché bigiavo sempre. Volevo fare l’attore, ma non andavo mai bene, c’era chi aveva da ridire sul mio fisico, chi sulla mia voce. Decisi di fondare una mia casa editrice specializzata in autori tedeschi rigorosamente non ariani. Pubblicai cinque libri di letteratura tedesca tradotti in olandese ma purtroppo mi rimasero sul gobbo». Improvviso arriva il successo, il trasferimento a New York per seguire una ragazza che finisce per mollarlo. Ma Arnon rimane a vivere nella grande mela, viaggia, scrive, chi sta meglio di lui?
Lunedì blu e il successivo Comparse (’97) sono stati pubblicati da Mondadori - che ne ha ceduto poi i diritti alla Instar, che ha pubblicato altre opere: Dolore fantasma (2004) e Il messia ebreo (2005) - ma rimane pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano. Un vero peccato: i suoi libri faticano a superare le duemila copie vendute. C’è chi dice che in Italia si legga poco perché sono tutti impegnati a scrivere. O forse la critica nostrana è troppo interessata a scoprire autori “dalla scrittura facile” per potersi occupare di un autore apprezzato in tutto il mondo?
La polemica è di questi giorni ed investe il ruolo della letteratura e della critica. La narrativa deve rappresentare solo piacevole intrattenimento o rimane un’espressione artistica? Il critico può limitarsi «all’ammiccamento ruffiano – come ha lamentato Massimiliano Parente sul quotidiano Libero – o dovrebbe farci riflettere, mostrarci cose che l’occhio profano non nota, non limitarsi ad elogiare gente che scrive bene, scrive su autorevoli riviste e con la quale mangia insieme?» L’affondo è nei confronti del critico del Corriere della Sera, Antonio D’Orrico, reo di promuovere con eccessivo entusiasmo scrittori italiani come Faletti, Piperno e Colombati. Lo scontro sarebbe tra «ricchisti» - gli scrittori che «raccontano la ricchezza e i ricchi» - e «poveristi», che si occupano delle vicissitudini dei precari, versione moderna dei poveri. Il nuovo grido di battaglia dei primi sarebbe, citando Colombati: «Basta con i tinelli che puzzano di sugo dei romanzi italiani». Che sul Magazine del Corsera spiega: «No allo sfigatismo letterario e alla letteratura etica». La confusione cresce. Come si giudica la letteratura?
Ci facciamo aiutare da Johnatan Evans Prichard, professore emerito? Giammai. Bene fece l’indimenticabile John Keating a far strappare le pagine della famigerata Comprendere la poesia nelle prime scene de L’Attimo fuggente, ormai vent’anni fa. Rileggiamole: «Se seguiamo la perfezione di un’opera sull’asse orizzontale di un grafico e la sua importanza su quello verticale, sarà sufficiente calcolare l’area totale della poesia per misurarne la grandezza». Rimaniamo d’accordo con il fondatore della setta dei poeti estinti: «Non si può giudicare la letteratura facendo la hit parade, gagliardo Byron, è solo al quinto posto, ma è poco ballabile». Che ammoniva: «Qualunque cosa si dica in giro parole e idee possono cambiare il mondo».
E la pensa così anche Arnon Grunberg, convinto com’è che attraverso la letteratura si possa vedere la realtà più chiaramente di quanto non sia possibile attraverso i giornali, la televisione o internet: «Svelare i trucchi della realtà attraverso le bugie della letteratura». Eppure non è di quegli autori che amano mettersi in cattedra e dispensare spot elettorali. Quello che penso – ha detto – è nei libri che scrivo. Non si sente uno scrittore impegnato né tanto meno etichettabile: «Le etichette ti collocano in un canto e questo ti rende meno pericoloso». La scrittura di Grunberg nasce dalla curiosità verso chi «odora di sfortuna», in bilico tra illusione e follia, e deve mettere in atto qualsiasi stratagemma per sopravvivere. Senza giudicare: «Ci sono tante cose in noi e a volte le circostanze le portano a galla. A volte le circostanze si ergono contro di noi e ci fanno fare cose che non avremmo voluto».
Nelle storie – sospese tra reale e surreale - si affacciano persone sgradevoli, avvezze al peccato senza responsabilità, solitarie per inettitudine, che possono diventare violente. «La violenza per molti è l’unico modo di uscire dall’anonimato, di non essere più invisibili, anche se per poco. Non c’è nulla che prendiamo sul serio quanto la violenza». Grunberg è formidabile nell’esplorare il lato oscuro dell’umanità costringendo il pubblico ad ammettere, con ribrezzo, che si può provare simpatia anche per un mostro. «Nelle mie opere cerco di mettere a fuoco piccoli drammi individuali che a volte, quando se ne occupa Marek van der Jagt, prendono una piega tragica, mentre se a raccontarli è Arnon Grunberg l’aspetto comico tende a prevalere».
Vi chiederete: chi è Marek van der Jagt? Sempre lui, Arnon Grunberg. «Volevo vedere come avrebbero reagito i lettori», si giustifica. L’idea era quella di sfuggire alla notorietà che l’aveva investito, di rimettersi alla prova. Così pubblicò un libro (divertentissimo), Storia della mia calvizie (Instar, 2003), con questo pseudonimo, scelto in onore di Marek Hlasko, scrittore polacco anticomunista morto nel ’69. La strategia di depistaggio fu ben studiata: a Marek diede il volto di un conoscente e ne stabilì la residenza (fittizia) a Vienna. Il libro riscosse un successo straordinario e vinse il premio per il miglior esordiente in lingua olandese, lo stesso riconoscimento che aveva vinto Grunberg con Lunedì Blu anni prima. Scattò la caccia all’uomo. L’anziana signora che abitava all’indirizzo viennese, si trovò a dover mettere alla porta schiere di giornalisti. Furono un professore di linguistica e due matematici italiani a scoprire la vera identità di Marek attraverso un programma informatico che ricondusse i due stili a Grunberg. Così confessò, senza rinunciare a pubblicare ancora con il suo alter ego: Gstaad 95/98 (Instar, 2004).
Il rifugiato, invece, è firmato da Arnon. Dopo la morte della compagna, Beck viene schiacciato tra il suo passato e un presente rispetto al quale pensava di essersi vaccinato, potendo finalmente esultare, come uno straordinario personaggio di Comparse: «L’incoscio collettivo si è dimenticato di me». Invece, una giornalista televisiva scaricherà su Beck – andandolo a scovare in un paesino della Bassa Sassonia - la responsabilità morale di un attentato dinamitardo compiuto da un transessuale nel più celebre bordello di Amsterdam, lo Yam Yum. Le modalità della strage ricalcano la trama di un racconto scritto anni prima da Beck. «Vi trapela una certa tenerezza per una persona che fa esplodere Yam Yum. E in passato ha anche affermato che la nostra società dovrebbe scomparire» gli viene rimproverato. Forse è un modo per dire che noi possiamo pensare di ignorare la realtà ma la realtà non è disposta a ignorare noi. Dell’insensatezza delle dinamiche del mondo è impossibile liberarsi.
Christian è il protagonista – ammesso che possa definirsi tale chi anela al fallimento - dell’ultimo romanzo di Arnon, Il rifugiato (Instar Libri, € 18,00) da pochi giorni in libreria. Beck è un ex scrittore che ha perso fiducia nel potere della letteratura. Inseguito dai fantasmi dei suoi romanzi deliranti, traduce libretti d’istruzione cercando di sfuggire alla vita. Ed è solo uno dei personaggi della bizzarra quanto strabiliante galleria di personaggi inventati dalla fantasia bulimica di uno scrittore che, nonostante la giovane età, è da oltre dieci anni un autore di culto tra i più importanti nel panorama internazionale, soprattutto tra i giovanissimi. E chiunque voglia afferrare qualcosa della postmodernità e della fragilità delle nuove relazioni umane farebbe bene a rivolgersi ai suoi romanzi piuttosto che a ponderosi (e astratti) trattati di sociologia.
Il primo romanzo, Lunedì blu (’94), lo ha reso famoso a ventitré anni: 160.000 copie vendute solo in Olanda, tradotto in ventisei paesi. La prestigiosa New York Times Books Review ha definito il libro «una vera miniera d’oro». L’autorionia spietata, la comicità dissacrante, la padronanza del paradosso e l’abilità nel trasporre in chiave umoristica anche le situazioni più drammatiche, hanno fatto sì che la critica accostasse subito questo smilzo e irriverente elfo olandese di origini ebraiche a giganti come Woody Allen, Houellebecq, Roth (Philip), Nabokov e soprattutto al mitico Salinger. Già, perché il giovane Arnon – Grunberg ha dato il suo nome al protagonista – si propone di pensionare definitivamente il giovane Holden. Del resto, la vita stessa di Arnon è una fonte d’ispirazione inesauribile: «Mi hanno sbattuto fuori dalla scuola quando avevo sedici anni perché bigiavo sempre. Volevo fare l’attore, ma non andavo mai bene, c’era chi aveva da ridire sul mio fisico, chi sulla mia voce. Decisi di fondare una mia casa editrice specializzata in autori tedeschi rigorosamente non ariani. Pubblicai cinque libri di letteratura tedesca tradotti in olandese ma purtroppo mi rimasero sul gobbo». Improvviso arriva il successo, il trasferimento a New York per seguire una ragazza che finisce per mollarlo. Ma Arnon rimane a vivere nella grande mela, viaggia, scrive, chi sta meglio di lui?
Lunedì blu e il successivo Comparse (’97) sono stati pubblicati da Mondadori - che ne ha ceduto poi i diritti alla Instar, che ha pubblicato altre opere: Dolore fantasma (2004) e Il messia ebreo (2005) - ma rimane pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano. Un vero peccato: i suoi libri faticano a superare le duemila copie vendute. C’è chi dice che in Italia si legga poco perché sono tutti impegnati a scrivere. O forse la critica nostrana è troppo interessata a scoprire autori “dalla scrittura facile” per potersi occupare di un autore apprezzato in tutto il mondo?
La polemica è di questi giorni ed investe il ruolo della letteratura e della critica. La narrativa deve rappresentare solo piacevole intrattenimento o rimane un’espressione artistica? Il critico può limitarsi «all’ammiccamento ruffiano – come ha lamentato Massimiliano Parente sul quotidiano Libero – o dovrebbe farci riflettere, mostrarci cose che l’occhio profano non nota, non limitarsi ad elogiare gente che scrive bene, scrive su autorevoli riviste e con la quale mangia insieme?» L’affondo è nei confronti del critico del Corriere della Sera, Antonio D’Orrico, reo di promuovere con eccessivo entusiasmo scrittori italiani come Faletti, Piperno e Colombati. Lo scontro sarebbe tra «ricchisti» - gli scrittori che «raccontano la ricchezza e i ricchi» - e «poveristi», che si occupano delle vicissitudini dei precari, versione moderna dei poveri. Il nuovo grido di battaglia dei primi sarebbe, citando Colombati: «Basta con i tinelli che puzzano di sugo dei romanzi italiani». Che sul Magazine del Corsera spiega: «No allo sfigatismo letterario e alla letteratura etica». La confusione cresce. Come si giudica la letteratura?
Ci facciamo aiutare da Johnatan Evans Prichard, professore emerito? Giammai. Bene fece l’indimenticabile John Keating a far strappare le pagine della famigerata Comprendere la poesia nelle prime scene de L’Attimo fuggente, ormai vent’anni fa. Rileggiamole: «Se seguiamo la perfezione di un’opera sull’asse orizzontale di un grafico e la sua importanza su quello verticale, sarà sufficiente calcolare l’area totale della poesia per misurarne la grandezza». Rimaniamo d’accordo con il fondatore della setta dei poeti estinti: «Non si può giudicare la letteratura facendo la hit parade, gagliardo Byron, è solo al quinto posto, ma è poco ballabile». Che ammoniva: «Qualunque cosa si dica in giro parole e idee possono cambiare il mondo».
E la pensa così anche Arnon Grunberg, convinto com’è che attraverso la letteratura si possa vedere la realtà più chiaramente di quanto non sia possibile attraverso i giornali, la televisione o internet: «Svelare i trucchi della realtà attraverso le bugie della letteratura». Eppure non è di quegli autori che amano mettersi in cattedra e dispensare spot elettorali. Quello che penso – ha detto – è nei libri che scrivo. Non si sente uno scrittore impegnato né tanto meno etichettabile: «Le etichette ti collocano in un canto e questo ti rende meno pericoloso». La scrittura di Grunberg nasce dalla curiosità verso chi «odora di sfortuna», in bilico tra illusione e follia, e deve mettere in atto qualsiasi stratagemma per sopravvivere. Senza giudicare: «Ci sono tante cose in noi e a volte le circostanze le portano a galla. A volte le circostanze si ergono contro di noi e ci fanno fare cose che non avremmo voluto».
Nelle storie – sospese tra reale e surreale - si affacciano persone sgradevoli, avvezze al peccato senza responsabilità, solitarie per inettitudine, che possono diventare violente. «La violenza per molti è l’unico modo di uscire dall’anonimato, di non essere più invisibili, anche se per poco. Non c’è nulla che prendiamo sul serio quanto la violenza». Grunberg è formidabile nell’esplorare il lato oscuro dell’umanità costringendo il pubblico ad ammettere, con ribrezzo, che si può provare simpatia anche per un mostro. «Nelle mie opere cerco di mettere a fuoco piccoli drammi individuali che a volte, quando se ne occupa Marek van der Jagt, prendono una piega tragica, mentre se a raccontarli è Arnon Grunberg l’aspetto comico tende a prevalere».
Vi chiederete: chi è Marek van der Jagt? Sempre lui, Arnon Grunberg. «Volevo vedere come avrebbero reagito i lettori», si giustifica. L’idea era quella di sfuggire alla notorietà che l’aveva investito, di rimettersi alla prova. Così pubblicò un libro (divertentissimo), Storia della mia calvizie (Instar, 2003), con questo pseudonimo, scelto in onore di Marek Hlasko, scrittore polacco anticomunista morto nel ’69. La strategia di depistaggio fu ben studiata: a Marek diede il volto di un conoscente e ne stabilì la residenza (fittizia) a Vienna. Il libro riscosse un successo straordinario e vinse il premio per il miglior esordiente in lingua olandese, lo stesso riconoscimento che aveva vinto Grunberg con Lunedì Blu anni prima. Scattò la caccia all’uomo. L’anziana signora che abitava all’indirizzo viennese, si trovò a dover mettere alla porta schiere di giornalisti. Furono un professore di linguistica e due matematici italiani a scoprire la vera identità di Marek attraverso un programma informatico che ricondusse i due stili a Grunberg. Così confessò, senza rinunciare a pubblicare ancora con il suo alter ego: Gstaad 95/98 (Instar, 2004).
Il rifugiato, invece, è firmato da Arnon. Dopo la morte della compagna, Beck viene schiacciato tra il suo passato e un presente rispetto al quale pensava di essersi vaccinato, potendo finalmente esultare, come uno straordinario personaggio di Comparse: «L’incoscio collettivo si è dimenticato di me». Invece, una giornalista televisiva scaricherà su Beck – andandolo a scovare in un paesino della Bassa Sassonia - la responsabilità morale di un attentato dinamitardo compiuto da un transessuale nel più celebre bordello di Amsterdam, lo Yam Yum. Le modalità della strage ricalcano la trama di un racconto scritto anni prima da Beck. «Vi trapela una certa tenerezza per una persona che fa esplodere Yam Yum. E in passato ha anche affermato che la nostra società dovrebbe scomparire» gli viene rimproverato. Forse è un modo per dire che noi possiamo pensare di ignorare la realtà ma la realtà non è disposta a ignorare noi. Dell’insensatezza delle dinamiche del mondo è impossibile liberarsi.
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