La società italiana ha fatto i conti con il terrorismo degli anni di piombo o si è limitata ad archiviarlo, dimenticando e persino rimuovendo disinvoltamente avvenimenti che pure hanno seminato morte e disperazione per oltre un decennio? A porsi questa domanda e a porla a studiosi, scrittori, cineasti ed ex terroristi - spezzando l’idilliaco e nostalgico revival sui formidabili anni ’70 che si trascina ormai da tempo - è Christian Uva nel suo Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano (Rubbettino, 284 pagine, 18 euro), da pochi giorni in libreria. Il saggio, ricco di citazioni, opinioni, interviste e curiosità, rilegge la nostra storia recente attraverso la lente cinematografica, offrendo per la prima volta una completa panoramica delle pellicole che - mescolando più o meno efficacemente verità e finzione - hanno raccontato, interpretandolo, il terrorismo nel contesto più generale della violenza politica. Pur tra i distinguo, le risposte raccolte vanno in un’unica direzione: un confronto con le motivazioni profonde di quel fenomeno non c’è stato e il cinema, specialmente quello d’autore, troppo a lungo ha rinunciato a «guardarlo negli occhi».
Per l’intero decennio dei ’70, evidenzia Uva, è il tanto disprezzato cinema popolare, soprattutto la commedia satirica e il “poliziottesco” - «come fu spregiativamente definito dalla critica ideologica il poliziesco all’italiana» - a raccogliere coraggiosamente la sfida di fotografare e mettere in scena le tensioni e i drammi che sconvolgono le grandi città italiane: la criminalità, gli scontri sempre più feroci tra “opposti estremismi”, la nascita del terrorismo come “violenza organizzata” e le ombre cupe dello stragismo. La realtà irrompe nel grande schermo, che ne riproduce le suggestioni nell’immaginario collettivo: l’assassinio del commissario Luigi Calabresi il 17 maggio del ’72 è uno dei fatti tragici dalla «ricaduta cinematografica più forte». Roberto Curti - specialista di cinema popolare - ha sottolineato come «i commissari di ferro del poliziesco italiano siano tutti, chi più chi meno, reincarnazioni di Luigi Calabresi». Le “grandi firme”, invece, «latitano» e Uva ne spiega il perché: «Forse a causa di un imbarazzo ideologico che ha accomunato molti registi, restii a misurarsi con un tema il cui retroterra culturale e politico è il medesimo nel quale alcuni di essi si sono formati». Soltanto all’inizio degli anni ’80 - quando la lotta armata esaurisce la propria spinta (salvo i recenti rigurgiti) e annuncia la «ritirata strategica» - l’anima popolare del cinema italiano progressivamente si attenua e sul grande schermo prevalgono i film d’autore sul terrorismo. «Molti autori forse sentendosi in qualche misura moralmente corresponsabili o, all’opposto, per dichiarare la propria lontananza morale da quei fatti, hanno avvertito la necessità di usare lo strumento che meglio conoscevano per tentare di inquadrare dall’interno la loro generazione ribelle, imbracciando la macchina da presa e affacciandosi dalla finestra del presente, giù verso quel passato». L’approccio cambia radicalmente: se il poliziottesco traeva spunto dalla cronaca cercando di restituirne - a volte rozzamente - le dinamiche, gli autori preferiscono elaborare una visione intimistica degli anni di piombo, soffermandosi sulle “dimensioni individuali”, indagando sulle vicende personali dei terroristi e sulle loro macerie psicologiche, sul senso di frustrazione seguito alla “sconfitta”.
Per molti registi dover accettare che gli assassini del terrorismo rosso venivano da sinistra è particolarmente disorientante. Nanni Moretti: «Il crollo del mio personale muro di Berlino arrivò quando scoprii, alla fine degli anni ’70, che i brigatisti non erano marziani dei servizi segreti». La condanna è totale: «Non solo si sono resi responsabili di omicidi, il che è già di per sé imperdonabile, ma hanno anche la colpa di aver detto un mucchio di sciocchezze incredibili. La cosa che mi rammarica di più è che anche dall’interno del carcere hanno preteso di essere al centro del conflitto politico, continuando a pubblicare le stesse stupidaggini. Da loro mi sarei aspettato un atteggiamento più discreto, più dignitoso». Mimmo Calopresti, ex militante di Lotta Continua e regista - ne La seconda volta (’95) ha diretto Moretti nei panni di un architetto sopravvissuto alla violenza di Prima Linea con un proiettile calibro 38 nel cranio - esprime lo stesso sdegno: «I brigatisti con le loro pubblicazioni hanno dato una prova di narcisismo che non mi aspettavo».
Giuseppe Valerio Fioravanti, fondatore dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari), è in regime di semilibertà dal luglio ’99, ma non si è messo in cattedra e si guarda bene dall’esaltare o anche solo giustificare le sue scelte «tragiche e sbagliate». Nel volume di Uva, la prima delle “conversazioni” è proprio con lui. Ritiene doveroso spiegare «perché ragazzi che avevano ricevuto una buona educazione, non avevano particolari problemi in famiglia e vivevano in un paese democratico - non certo il Cile di Pinochet - si sono alzati una mattina e si sono messi ad ammazzare la gente». Per gli “schermi di piombo” il terrorismo, specialmente dopo il sequestro Moro (che ispirerà decine di pellicole), coincide con le BR, lo spontaneismo armato non è stato “trattato” se non marginalmente. Diversi progetti di film, come quello di Francesca D’Aloja e Marco Risi, non sono andati in porto. E’ lo stesso Fioravanti a spiegarne il perché: «Noi, come sceneggiatori – mi diceva la D’Aloja – ci assumeremo la responsabilità di raccontare la tua storia omettendo il nodo Bologna, il che vuol dire implicitamente che secondo noi, persone di sinistra, voi non c’entrate nulla. Ma raccontare la nostra esperienza privandola dei fatti di Bologna avrebbe portato ad un film censurato, incompleto». E non lo soddisfa neanche l’escamotage trovato da Michele Placido in Romanzo criminale (2005), film sulla “peggio gioventù” della banda della Magliana, in cui il regista inventa un esecutore materiale della strage, forse un emissario dei servizi segreti, che poi viene eliminato (dal “nero” Riccardo Scamarcio). Fioravanti quella condanna infamante non la digerisce, pur riconoscendo tutti i suoi errori e accettandone le conseguenze. «Ad un certo punto della mia vita criminale mi sono reso conto di essermi battuto per un proletariato che non voleva il mio intervento. Noi eravamo un’avanguardia, ma dietro non c’era nessun esercito. Devi avere quel minimo di autoironia per ammettere di essere stato un ingenuo e di esserti sbagliato». Fresco di stampa è il libro di Andrea Colombo (portavoce di Rifondazione Comunista), Storia nera (Cairo Publishing, 17 euro) che racconta la «verità» di Fioravanti e della Mambro sulla strage di Bologna. E il regista napoletano Franceso Patierno, che sta lavorando ad un nuovo progetto di film dedicato proprio ai fondatori dei NAR, denuncia: «C’è un enorme tabù nei confronti del terrorismo nero. Tanti terroristi di sinistra scrivono libri, vanno alle trasmissioni, firmano editoriali sui giornali, mentre il terrorismo di destra è percepito ancora come trent’anni fa». A sentire Fioravanti, in Italia ci sarebbe stato bisogno di un film come Apocalypse Now: «Io credo che sia il più grande film sul terrorismo, quello che ha meglio rappresentato lo stato d’animo degli anni di piombo, di chi partecipa ad una guerra nella quale è entrato nella convinzione di essere dalla parte del bene, salvo poi gradualmente accorgersi che il bene non esiste. E non puoi semplicemente limitarti a cambiare barricata. Mentre a diciotto anni ti sembra di intuire che esistano il bene e il male, man mano che cresci scopri che questa linea di demarcazione non esiste ed entri in uno stato di caos, in una condizione di attesa della fine, come il colonnello Kurz. Perché non credi più in quello che hai fatto e non hai comunque un’alternativa. Lo stato d’animo del terrorista è esemplificato nella figura di Kurz, nella sua grandezza ma anche nella sua mancanza di risorse e alternative. Perché non c’è stato un film come questo in Italia? Forse perché per raccontare il male è necessario considerarlo una parte imprescindibile di ogni singolo essere umano, pronta a prevalere in qualsiasi momento». Questo il cinema non ha saputo farlo (tanto meno la fiction) e ancora oggi, quando affronta certi temi, ricorre a schemi rassicuranti, edulcorati, ottocenteschi: buoni contro cattivi. In Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, gli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia (non a caso gli stessi de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, 2003), inventano di sana pianta - nel libro da cui il film è tratto, Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, non c’è - la scena in cui Accio, il protagonista fascista, viene pestato dai suoi stessi “camerati”, episodio che lo spinge ad andare a sinistra. La semplificazione è servita: i buoni rimangono buoni e i cattivi sempre più cattivi.
Negli anni '70 e '80 il cinema incideva fortemente sull’immaginario politico dei giovani. Ricorda Fioravanti: «Il film culto di Prima Linea e di alcuni ragazzi delle BR di Roma era Il mucchio selvaggio (Sam Peckinpah, ’69, ndr), lo consideravano un vero e proprio manifesto ideologico. Ma tale film piaceva anche a me, perché metteva in scena uno stato d’animo da noi provato molte volte. Non era affatto di sinistra, era un film individualista. La rivolta dei banditi, la loro scelta di una morte eroica, veniva solo dopo aver compreso che non c’era più spazio per il compromesso e questo non ha niente a che fare con la consapevolezza proletaria o la lotte di classe».
Sta di fatto, conclude Fioravanti, che sulla stagione del terrorismo alla fine è prevalsa una «logica di rimozione ipocrita e vigliacca, che, però, tutto sommato, ha funzionato. Oggi il paese è pacificato, queste cose non accadono più, la violenza si è spostata sugli stadi, ma ad un livello molto inferiore. Ora, forse, è arrivato il momento che questo debito di comunicazione venga colmato». E il libro di Uva è apprezzabile anche per questo.
Per l’intero decennio dei ’70, evidenzia Uva, è il tanto disprezzato cinema popolare, soprattutto la commedia satirica e il “poliziottesco” - «come fu spregiativamente definito dalla critica ideologica il poliziesco all’italiana» - a raccogliere coraggiosamente la sfida di fotografare e mettere in scena le tensioni e i drammi che sconvolgono le grandi città italiane: la criminalità, gli scontri sempre più feroci tra “opposti estremismi”, la nascita del terrorismo come “violenza organizzata” e le ombre cupe dello stragismo. La realtà irrompe nel grande schermo, che ne riproduce le suggestioni nell’immaginario collettivo: l’assassinio del commissario Luigi Calabresi il 17 maggio del ’72 è uno dei fatti tragici dalla «ricaduta cinematografica più forte». Roberto Curti - specialista di cinema popolare - ha sottolineato come «i commissari di ferro del poliziesco italiano siano tutti, chi più chi meno, reincarnazioni di Luigi Calabresi». Le “grandi firme”, invece, «latitano» e Uva ne spiega il perché: «Forse a causa di un imbarazzo ideologico che ha accomunato molti registi, restii a misurarsi con un tema il cui retroterra culturale e politico è il medesimo nel quale alcuni di essi si sono formati». Soltanto all’inizio degli anni ’80 - quando la lotta armata esaurisce la propria spinta (salvo i recenti rigurgiti) e annuncia la «ritirata strategica» - l’anima popolare del cinema italiano progressivamente si attenua e sul grande schermo prevalgono i film d’autore sul terrorismo. «Molti autori forse sentendosi in qualche misura moralmente corresponsabili o, all’opposto, per dichiarare la propria lontananza morale da quei fatti, hanno avvertito la necessità di usare lo strumento che meglio conoscevano per tentare di inquadrare dall’interno la loro generazione ribelle, imbracciando la macchina da presa e affacciandosi dalla finestra del presente, giù verso quel passato». L’approccio cambia radicalmente: se il poliziottesco traeva spunto dalla cronaca cercando di restituirne - a volte rozzamente - le dinamiche, gli autori preferiscono elaborare una visione intimistica degli anni di piombo, soffermandosi sulle “dimensioni individuali”, indagando sulle vicende personali dei terroristi e sulle loro macerie psicologiche, sul senso di frustrazione seguito alla “sconfitta”.
Per molti registi dover accettare che gli assassini del terrorismo rosso venivano da sinistra è particolarmente disorientante. Nanni Moretti: «Il crollo del mio personale muro di Berlino arrivò quando scoprii, alla fine degli anni ’70, che i brigatisti non erano marziani dei servizi segreti». La condanna è totale: «Non solo si sono resi responsabili di omicidi, il che è già di per sé imperdonabile, ma hanno anche la colpa di aver detto un mucchio di sciocchezze incredibili. La cosa che mi rammarica di più è che anche dall’interno del carcere hanno preteso di essere al centro del conflitto politico, continuando a pubblicare le stesse stupidaggini. Da loro mi sarei aspettato un atteggiamento più discreto, più dignitoso». Mimmo Calopresti, ex militante di Lotta Continua e regista - ne La seconda volta (’95) ha diretto Moretti nei panni di un architetto sopravvissuto alla violenza di Prima Linea con un proiettile calibro 38 nel cranio - esprime lo stesso sdegno: «I brigatisti con le loro pubblicazioni hanno dato una prova di narcisismo che non mi aspettavo».
Giuseppe Valerio Fioravanti, fondatore dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari), è in regime di semilibertà dal luglio ’99, ma non si è messo in cattedra e si guarda bene dall’esaltare o anche solo giustificare le sue scelte «tragiche e sbagliate». Nel volume di Uva, la prima delle “conversazioni” è proprio con lui. Ritiene doveroso spiegare «perché ragazzi che avevano ricevuto una buona educazione, non avevano particolari problemi in famiglia e vivevano in un paese democratico - non certo il Cile di Pinochet - si sono alzati una mattina e si sono messi ad ammazzare la gente». Per gli “schermi di piombo” il terrorismo, specialmente dopo il sequestro Moro (che ispirerà decine di pellicole), coincide con le BR, lo spontaneismo armato non è stato “trattato” se non marginalmente. Diversi progetti di film, come quello di Francesca D’Aloja e Marco Risi, non sono andati in porto. E’ lo stesso Fioravanti a spiegarne il perché: «Noi, come sceneggiatori – mi diceva la D’Aloja – ci assumeremo la responsabilità di raccontare la tua storia omettendo il nodo Bologna, il che vuol dire implicitamente che secondo noi, persone di sinistra, voi non c’entrate nulla. Ma raccontare la nostra esperienza privandola dei fatti di Bologna avrebbe portato ad un film censurato, incompleto». E non lo soddisfa neanche l’escamotage trovato da Michele Placido in Romanzo criminale (2005), film sulla “peggio gioventù” della banda della Magliana, in cui il regista inventa un esecutore materiale della strage, forse un emissario dei servizi segreti, che poi viene eliminato (dal “nero” Riccardo Scamarcio). Fioravanti quella condanna infamante non la digerisce, pur riconoscendo tutti i suoi errori e accettandone le conseguenze. «Ad un certo punto della mia vita criminale mi sono reso conto di essermi battuto per un proletariato che non voleva il mio intervento. Noi eravamo un’avanguardia, ma dietro non c’era nessun esercito. Devi avere quel minimo di autoironia per ammettere di essere stato un ingenuo e di esserti sbagliato». Fresco di stampa è il libro di Andrea Colombo (portavoce di Rifondazione Comunista), Storia nera (Cairo Publishing, 17 euro) che racconta la «verità» di Fioravanti e della Mambro sulla strage di Bologna. E il regista napoletano Franceso Patierno, che sta lavorando ad un nuovo progetto di film dedicato proprio ai fondatori dei NAR, denuncia: «C’è un enorme tabù nei confronti del terrorismo nero. Tanti terroristi di sinistra scrivono libri, vanno alle trasmissioni, firmano editoriali sui giornali, mentre il terrorismo di destra è percepito ancora come trent’anni fa». A sentire Fioravanti, in Italia ci sarebbe stato bisogno di un film come Apocalypse Now: «Io credo che sia il più grande film sul terrorismo, quello che ha meglio rappresentato lo stato d’animo degli anni di piombo, di chi partecipa ad una guerra nella quale è entrato nella convinzione di essere dalla parte del bene, salvo poi gradualmente accorgersi che il bene non esiste. E non puoi semplicemente limitarti a cambiare barricata. Mentre a diciotto anni ti sembra di intuire che esistano il bene e il male, man mano che cresci scopri che questa linea di demarcazione non esiste ed entri in uno stato di caos, in una condizione di attesa della fine, come il colonnello Kurz. Perché non credi più in quello che hai fatto e non hai comunque un’alternativa. Lo stato d’animo del terrorista è esemplificato nella figura di Kurz, nella sua grandezza ma anche nella sua mancanza di risorse e alternative. Perché non c’è stato un film come questo in Italia? Forse perché per raccontare il male è necessario considerarlo una parte imprescindibile di ogni singolo essere umano, pronta a prevalere in qualsiasi momento». Questo il cinema non ha saputo farlo (tanto meno la fiction) e ancora oggi, quando affronta certi temi, ricorre a schemi rassicuranti, edulcorati, ottocenteschi: buoni contro cattivi. In Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, gli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia (non a caso gli stessi de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, 2003), inventano di sana pianta - nel libro da cui il film è tratto, Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, non c’è - la scena in cui Accio, il protagonista fascista, viene pestato dai suoi stessi “camerati”, episodio che lo spinge ad andare a sinistra. La semplificazione è servita: i buoni rimangono buoni e i cattivi sempre più cattivi.
Negli anni '70 e '80 il cinema incideva fortemente sull’immaginario politico dei giovani. Ricorda Fioravanti: «Il film culto di Prima Linea e di alcuni ragazzi delle BR di Roma era Il mucchio selvaggio (Sam Peckinpah, ’69, ndr), lo consideravano un vero e proprio manifesto ideologico. Ma tale film piaceva anche a me, perché metteva in scena uno stato d’animo da noi provato molte volte. Non era affatto di sinistra, era un film individualista. La rivolta dei banditi, la loro scelta di una morte eroica, veniva solo dopo aver compreso che non c’era più spazio per il compromesso e questo non ha niente a che fare con la consapevolezza proletaria o la lotte di classe».
Sta di fatto, conclude Fioravanti, che sulla stagione del terrorismo alla fine è prevalsa una «logica di rimozione ipocrita e vigliacca, che, però, tutto sommato, ha funzionato. Oggi il paese è pacificato, queste cose non accadono più, la violenza si è spostata sugli stadi, ma ad un livello molto inferiore. Ora, forse, è arrivato il momento che questo debito di comunicazione venga colmato». E il libro di Uva è apprezzabile anche per questo.
1 commento:
Sei un grande!
Con affetto e stima, soprattutto, ammirazione.
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