sabato 23 giugno 2007

E alla fine si salvarono solo gli 883...

Dal Secolo d'Italia di sabato 23 giugno 2007

«Non sopporto il fatto che a guidare il Paese siano persone di settant’anni, con una visione del mondo che non esiste più. Vorrei finalmente facce e idee nuove. In questo senso, purtroppo, non credo che il partito democratico servirà a qualcosa». Punto. Nemmeno tre righe per il distinguo d’ordinanza (nel mondo dello spettacolo): «però c’è Walter Veltroni che sarebbe un magnifico imperatore romano». No, Max Pezzali in una recente intervista concessa a Vanity Fair, non ha risparmiato nessuno, strapazzando politici, colleghi e giornalisti «che tromboneggiano e per i quali registrare i cambiamenti è praticamente impossibile». Lui, invece, è cambiato. E lo dice. Senza arroccarsi nel «cliché del ‘cantante generazionale’ dei ragazzi di provincia», come pure sarebbe lecito aspettarsi da chi deve fare i conti con le legioni di giovanissimi che dal 12 ottobre (quando inizierà – da Milano – il tour che lo porterà nelle maggiori città italiane) affolleranno i suoi concerti per ascoltare live il suo nuovo album, Time Out, presentato pochi giorni fa. No, Max rivendica i suoi quarant’anni, altro che giovanilismo ruffiano: «Non li cambierei con i miei venti. Oggi sono meno vittima dei luoghi comuni».
Forse anche per la sua schiettezza pavese, Max annovera tra i suoi fans Edmondo Berselli, uno che all’autoreferenziale orchestra di tromboni radical-chic non ha lesinato randellate – sia pure assestate con stile garbato e ironico – affidando al suo Venerati Maestri (Mondadori, 2006) un divertente quanto feroce atto d’accusa rivolto proprio al «regime ferreo degli infallibili che inibisce qualsiasi critica». Qualcosa non va, ha detto il sociologo ed editorialista di Repubblica. Indicando cosa: «Il conformismo diffuso, l’ovvio dei popoli, il velluto di ipocrisia collettiva che sembra avere coperto con una specie di indiscusso canone artistico, intellettuale e spettacolare l’Italia contemporanea, in ragione della quale tutti sono d’accordo con tutti e nessuno obietta mai niente». L’intento è manifesto: ridicolizzare lo snobismo di un mondo culturale che vive di riflessi condizionati, alimentando la prassi – tutta italiana – di celebrare ogni «cretinata» solo in virtù dell’appartenenza al carrozzone progressista. Berselli se la prende soprattutto con il vezzo di chi si ostina a dividere la cultura in alta e bassa, buona e cattiva. Da una parte i lumi, la coscienza e la Cultura, dall’altra la reazione, il vecchiume e la volgarità.
Ci aveva lasciati con un ammonimento: «Qui bisogna fare i conti con i Pooh». E lui, recidivo, è tornato a farli, perché a distanza di sette anni ha rimandato in libreria – in una edizione riveduta e corretta – Canzoni. Storie dell’Italia leggera (Il Mulino, € 13,00). Un libro che si fa leggere – sfogliare, per i più svogliati – d’un fiato, con il sorriso. Un libro che avrebbe voluto essere «politico, sostenuto dall’idea che nel nostro paese i conformismi ideologici e i loro variopinti fantasmi proiettino un alone che si stende perfino sulle canzoni», ma che finisce inevitabilmente per essere «romantico e sentimentale, anche nelle malevolenze e nelle irritazioni». Perché la forza suggestiva delle canzoni finisce per travolgere ogni velleità di riflessione sociologica, spazzando via l’indignazione e rievocando sentimenti e ricordi che credevamo irrimediabilmente sopiti. Perché è senz’altro vero che le canzoni hanno saputo raccontare i momenti maggiormente significativi della nostra storia nazionale, sottolineandone – a volte persino anticipandone – i mutamenti nel costume, le mode giovanili, il clima culturale e l’atmosfera sociale, ma ancor di più hanno inciso nelle nostre vicende personali, accompagnandole e plasmandole, come fa la colonna sonora con un film, del film che – malgrado tutto e tutti – ci appassiona più di ogni altra cosa: la nostra vita.
Pier Paolo Pasolini, che – primo a sinistra – aveva capito quanta ricchezza si nascondesse nella cultura popolare, alle canzoni riconosceva un «potere magico, abiettamente poetico». Sono solo canzonette, è l’obiezione mossa a più riprese, con altezzosa sufficienza, da molti. Sciocchezze, le canzoni, anche quando non esprimono una visione coerente del mondo e della vita, riescono a sintonizzarsi con il nostro immaginario con una radicalità che neanche il tempo riesce a scalfire, pronte a riaffiorare quando meno ce l’aspettiamo, sorprendendoci, mettendoci di fronte a noi stessi, a ciò che eravamo e siamo.
E’ alla luce di questa consapevolezza che Berselli, nella nuova edizione di Canzoni, si dice «meno interessato» alla tesi elaborata nel ‘99 e sulla quale poggiava il libro: che «attraverso le canzoni si capirebbe meglio la nostra società». Ostinatamente, rivendica solo «la sociologia selvaggia che innerva l’ultimo capitolo» dedicato, per intero, proprio a Max Pezzali e agli 883, formazione che dal terzo album, dopo l’addio del saltellante Mauro Repetto, è ridotta al solo Max.
«Malgrado la calvizie incipiente che non gli consente di esercitare un’egemonia estetica da sex symbol», il cantante pavese nel giudizio berselliano esprime meglio di chiunque altro il vissuto quotidiano dei giovani di questi ancora indecifrabili anni Novanta, nei quali «le ideologie sono state sostituite dai conformismi e dall’omologazione non si salva nessuno».
L’autore torna a scagliarsi contro i critici, rei di «aver catalogato fin dagli inizi gli 883 nel settore ‘basso’ del consumo musicale», liquidandoli come un’operazione di marketing. «Possibile che nessuno si sia accorto che gli 883 rappresentavano innanzitutto un’operazione sociologica? Possibile che nessuno abbia sospettato che rappresentino quel pezzo d’Italia che viene su fino a noi dagli anni Cinquanta?» Già, perché di quegli anni che cercavano di scrollarsi di dosso il bianco e nero, animati dalla «illusione della dolce vita di massa» e sospinti da una «ventata di sospirata irresponsabilità», Berselli non nasconde una certa nostalgia. In una televisione che era ancora a dimensione familiare e comunitaria – ben diversa da quella attuale, «dove si divertono solo quelli che la fanno, cioè gli ospiti e i marchettari: con l’idea che l’audience della domenica, per tacere di quella del sabato sera, non meriti altro» – e che cercava di «dissolvere la tetraggine del dopoguerra», Celentano e Mina, il molleggiato e la tigre, fecero la loro rumorosa irruzione. Ma i due artisti – analizza Berselli – smarrirono ben presto lo slancio iniziale. Mina, «che in una canzone la diceva molto più lunga di molti romanzi neorealisti che avevano la presunzione di descrivere la società italiana», si è limitata a rifare Mina, mentre Celentano ha progressivamente ceduto all’idea di fare dei suoi fans un popolo, assalito da «un’irrefrenabile e fastidiosissima vocazione pedagogico-religiosa» che sfocerà nel «paternalismo massimalista» da telepredicatore «apocalittico ma perfettamente integrato». I
Il giornalista emiliano ne ha anche per il primo Battisti, poco colto e decisamente naif, stroncando Mogol e rivalutando il «Lucio dell’ultima fase, libertario senza troppa fiducia nella democrazia liberale e nei suoi istituti, futurista, minimalista, culturalmente nichilista, che decide di sparire proprio nel decennio dell’esteriorità assoluta, quando il presenzialismo è condizione necessaria per esistere».
«I revival aizzati da Mara Venier hanno reso insopportabili gli anni Sessanta», lamenta l’autore, trascinando con sé quel che di buono avevano: «Un concentrato di cialtroneria collettiva che poteva diventare spettacolo trascinante. Il professionismo è venuto dopo, quando l’avventura stava finendo».
Già, perché la «eccitante sensazione di avere davanti a sé un’infinita prateria per la propria spensieratezza» cede presto il passo un clima avvelenato. «Misteriosamente sbucano fuori quelli che cominciano a menartela con la contestazione e Marcuse. Non gli bastava il Pci, no. Forse perché il Pci era fatto di uomini in grisaglia, ossuti, pettinatissimi, brizzolati e, quindi, per resistere all’ondata beat, e non farsi travolgere dalla sommossa consumista, bisognava inventarsi qualcosa di assolutamente rivoltoso e comunque oltranzista anche in politica».
«Gli anni Settanta – scrive Berselli – sono stati dominati da un’idea e una soltanto: che l’unica prospettiva intellettuale, l’unico quadro teorico utilizzabile, l’unica strumentazione sociopolitica, l’unica speranza civile sia esclusivamente ‘di sinista’. Altro che egemonia. Un pensiero unico che permea il Corriere di Piero Ottone, imbeve le case editrici da Einaudi in giù, forma generazioni di insegnanti e dà il ‘la’ alle ricorrenti manifestazioni degli studenti». Si fa un gran parlare di libertà e creatività, «ma in realtà chi non tiene i capelli lunghi viene scambiato non per un anticonformista ma per un ‘fascio di merda’». Tanto da far gridare al sempre vigile Capanna: «I Rokes sono “fffascisti”!»
Luoghi comuni che permeano anche gli anni Ottanta, caratterizzati «da un processo collettivo e mass-mediologico che ha portato a identificare il mondo giovanile nella semplificazione prodotta da Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti, nel cui “pensiero positivo” tutto il mondo in rivolta o in assistenza, passando da Che Guevara a Madre Teresa, forma una “grande Chiesa”, una generalizzazione che accoglie tutti i detriti ideologici sopravvissuti al naufragio».
Anche se ‘C’è chi dice no’, come titola una canzone di Vasco Rossi dell’87. Ha scritto Pier Vittorio Tondelli: «In anni in cui tutto stava andando verso la normalizzazione, il carrierismo, il perbenismo, Vasco, con la sua faccia da contadino, la sua andatura da montanaro, la sua voce sguaiata da fumatore, il suo sguardo sempre un po’ perso, diventava l’idolo di una diversità, di un farsi i fatti propri, di un non volersi irreggimentare che trovarono pronta e osannante una moltitudine di ragazzini». «Romanticismo stravaccato e popolare diverso dagli altri bravi italiani rocchettari che fanno i compunti e stendono i compitini politically correct – aggiunge Berselli – non un duro ideologo e neanche un cattivo maestro, ma piuttosto una sopportabile canaglia. Non canta canzoni su Enrico Berlinguer come fece Antonello Venditti con risultati dimenticabili». Dopo di lui il diluvio, letterale, di parole: «Dopo tutto questo bagnato si sono salvati solo quelli che valevano, che non erano ‘cantautori’ ma artisti tout court, De Gregari, De André, Guccini, Venditti, Dalla, lo stesso Baglioni».
Ma l’unica promozione piena Berselli la riserva ancora a Pezzali: «Interprete intelligente e a suo modo colto, capace di identificare i giochi di ruolo della provincia. E poi gli 883 non hanno una gran voglia di essere buoni. Maestri di vita sono il bar e la strada, che educano il cuore a diventare coriaceo, o menefreghista». Permettendo a Max di sfuggire alle tre tipologie (progressive) richiamate da Alberto Arbasino. Né “bella promessa” (non più), né “solito stronzo” (non ancora?), né “venerabile maestro” (speriamo mai).

11 commenti:

Anonimo ha detto...

pur con tutto il rispetto del sig. Berselli e di max pezzali,

lasciare fuori lucio battisti o, peggio, insinuarlo insignificante nel panorama musicale che ha illustrato "leggermente" gli anni '70 ed ultra,

mi sembra atto di blasfemia non tanto canora ma, di più, di costume sociale...

mi sembra un ricadere all'indietro nelle contestazioni che facevano all'eretino dei tempi nostri (sempre negli anni '70) i mestatori che: "se non canti la lotta di classe non sei degno di cantare..."

anch'io sono un estimatore accanito del cosiddetto "secondo battisti",

ma non ho mai fatto mistero di esserci arrivato dietro le note del "primo battisti"...

è ovvio, noto (in quanto l'ho già scritto altrove...), e va da sé che, oggi, i testi di panella mi giungano più che bene...

ma quando avevo 13-14-15 anni, e non sapevo un beneamato cazzo di sperimentalismo e di avanguardia, "la canzone del sole" (per esempio, e tutte le altre di conseguenza...) mi arrivava con la forza viva del testo, della musica e dell'interpretazione magica del grande lucio...

senza contare che del "mio canto libero" ne ho fatto bandiera della mia militia e non solo...

se, poi, in segno post moderno, si preferisce max pezzali - che non disdegno - alla duplice accoppiata mogol-battisti panella-battisti, che copre l'arco di un mio trentennio,

oh!!! ne prendo atto...

evidentemente resto succube delle emozioni iniziali...

(ma non scherziamo...)

miro renzaglia

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Sono d'accordo con te, Miro, nel giudizio largamente positivo del cosiddetto primo Battisti (sul secondo, invece, qualche perplessità ce l'ho. I primi album sono stati la colonna sonora dei miei vent'anni e anche oltre. Ascoltavo anche gli altri cantautori, qualche complesso (Marillon, Police...) ma le "emozioni" più forti arrivavano da Battisti. In macchina ancora oggi ho sempre almeno un cd di Battisti. Personaggio interessante, oltre che bravo artista. Berselli è pungente, arguto, brillante nella scrittura, il libro si fa leggere con gusto, persino con divertimento, specialmente quando denuncia il "pensiero unico" e disegna i quadri psicologici di Celentano, Mina, Vasco Rossi... Demitizza e fa sottolineature sociologiche interessanti e ci prende! In ogni caso, lui per primo ride di se stesso e arriva alla conclusione che la musica è essenzialmente emozioni e, come tali, personali e irrazionali.

Anonimo ha detto...

Alcuni punti del tuo articolo, Roberto, sono interessanti e acuti, soprattutto quando sottolinei la differenza (attraverso Berselli) tra i "cantautori", in genere pessimi musicisti e pure demagogici, e gli artisti come De André, Dalla o De Gregori (con le dovute differenze qualitative). Aggiungerei che i veri artisti musicali hanno apportato un immaginario, seguendo l'artista per eccellenza, colui che nel bene e nel male ha segnato la musica del '900 distaccandosi per primo dalla "protest song" cui i radical chic volevano relegarlo: Bob Dylan.
De André è quello che maggiormente ha portato in Italia il genio di Bob Dylan, facendo del testo e della musica un percorso indissolubile, sconvolgendo la forma stessa della canzone e dell'album. E non è un caso che De André abbia come il maestro seguito una strada europea come l'altro aveva seguito quella dell'immaginario statunitense. Album come "Higway 61 revisited" o "Blonde on Blonde" sono stati, per l'epoca, qualcosa di inaudito.
Tuttavia:

1) Direi che prima di Pasolini fu Gramsci a cogliere gli aspetti positivi della cultura "nazionalpopolare" e quindi dell'immaginario collettivo (e lo dico, come sai, da "metapolitico).
2) Non so perché ma gli 883 sono la band preferita dai disabili mentali insieme a Gianni Morandi. Qualcosa vorrà ben dire (con tutto il rispetto per la sensibilità delle persone con cui lavoro).
3) Mi spiace ma Battisti proprio non lo sopporto. Credo che Mogol sia l'autore di testi più parodiabile dopo Baudelaire. E forse gli ho fatto involontariamente un complimento.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Ciao Claudio. Dylan non l'ho citato, ma Berselli la pensa esattamente come te. Scrive: "Dylan canta come nessuno ha mai cantato, non ha predecessori né successori, è venuto da Marte". Le varie versioni importate il più delle volte rappresentano scimmiottature in salsa ideologica, buone per pubblici ammaestrati.
D'accordo su Gramsci, anche se l'approccio tra i due è diverso. Gramsci (semplificando, mi rendo conto) teorizza di utilizzare la cultura per creare e consolidare il consenso, per irregimentarlo, per fini di parte; Pasolini è più libertario, meno condizionato e condizionabile rispetto alla politica, non è un militante né un ideologo, non fa cultura, è cultura, è espressione del suo tempo.
Morandi... mio Dio no! :)

Anonimo ha detto...

Di Dylan, a noi, è arrivata una versione molto condizionata dall'immaginario cattocomunista (di cui i Nomadi sono il virus). E' impossibile prendere parte a qualsiasi manifestazione pacifista senza che qualcuno intoni "Blowin in the wind", canzone che Dylan stesso ha finito per detestare, tant'è che durante i concerti evita di suonarla, oppure la suona con intonazioni irriconoscibili, tanto per irritare il pubblico. L'ex compagna Joan Baez non gli ha fatto un buon servizio. Lei s'incazzo molto quando lui, nel 1964, dopo la marcia per i diritti civili, dichiarò al mondo che non si sarebbe mai fatto ingabbiare in una ideologia perché difendeva il suo essere artista e iniziò il suo percorso più estremo e creativo. Dylan non è mai stato politicamente corretto, e tra il 1965 e il 1968 la sua arte si indirizzerà a stravolgere la forma canzone per arrivare a qualcosa di totale. Quando credevano di averne fatto un menestrello progressista, ecco che lui scodella "Just like a woman", ad esempio, mandando in bestia le femministe.
Si, lui veniva da Marte, per l'epoca. Ma senza di lui probabilmente non esisterebbero Tom Waits, Nick Cave, De André, De Gregori, Neil Young, Guccini e neppure il John Lennon più ispirato (diventato subito suo amico, ma Lennon non riuscirà a preservarsi libero dai condizionamenti ideologici come il maestro).

Riguardo alla differenza tra Gramsci e Pasolini ho capito cosa intendi, ed è chiaro che la mia simpatia va per il secondo.

Anonimo ha detto...

X Claudio Ughetto

scrivi:

"3) Mi spiace ma Battisti proprio non lo sopporto. Credo che Mogol sia l'autore di testi più parodiabile dopo Baudelaire. E forse gli ho fatto involontariamente un complimento."

replico:

oh!!! vai quasi d'accordo (anzi, senza il quasi...) con il leggendario Stefano Pivato che, a monte delle 246 pagine del suo memorabile studio sulla canzone popolare italiana "La storia leggera" (Ed il Mulino, 2003) trova la maniera di citare una sola volta lucio battisti in una nota a piè della sua 183a pagina...

ma quale Baudelaire?

...e "anima latina"?

miro

Anonimo ha detto...

Nessuna parolina per Franco Battiato???

Che resta fuori perché non è mai stato dentro i cosiddetti recinti o steccati???

E come dice in:

I'M THAT (dal CD 10 Stratagemmi)

"What glorious light
wisdom without bound
wrapt in eternal solitary shade
The impenetrable gloom
of light intense
impervious inaccessible immense

And brought light to the gods and mortal man
my abstinence and renunciation left his heaven to me
you are a hero you are what is ten times more.

We're come from stars’ cosmic nature
now we are destroying the future

A real man
everything is good
inspired by love and wine

The light which is in me
is now ablaze in me
I come from the first chosen

What joy to breathe the scent of open air
which die like the last rays of the sun
no mortal man has lifted my veil.

I'm neither Muslim nor Hindu
Non sono mussulmano nè induista
nor Christian nor Buddhist
nè cristiano nè buddista
I'm not for the hammer
non sono per il martello
neither for the sickle
nè per la falce
and even less for the tricolour flame
nè tanto meno per la fiamma tricolore
because I'm a musician
perchè sono un musicista"

Cordialmente

Susanna Dolci

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Gentile Susanna, obiezione assolutamente fondata! Non vorrei ricordarmi male ma Berselli nel libro non affronta Franco Battiato. Se lo fa, si limita a sfiorarlo. Riferirò dopo aver controllato.
A presto.
Roberto

Anonimo ha detto...

Per Miro:
il fatto che Battisti non mi piaccia non significa che io ne sminuisca l'importanza. Credo abbia segnato non poco la storia della musica italiana, ma personalmente (ed è un parere discutibilissimo) credo abbia divulgato una poesia kitschicheggiante che non reggo.
Ci dev'essere il vecchio Freud di mezzo. Mia madre adorava Battisti. Si commuoveva sentendo "Emozioni", ed io ci ho fondato la mia ribellione adolescenziale, chiedendomi cosa ci fosse di piacevole in un testo del genere.

Anonimo ha detto...

X Claudio Ughetto

eh!!! ti capisco...

quando c'è di mezzo quel vecchio arnese di Freud, tutto diventa più difficile perché...

da quel momento in poi, le "emozioni" non si possono più vivere in santa pace,

bisogna analizzarle...

e, allora, cominciano le pippe, mentali e non solo...

miro renzaglia

:-)))

Anonimo ha detto...

Intere generazioni rovinate dalla psicoanalisi :)))))