domenica 23 settembre 2007

40 anni dopo, Che Guevara visto da destra (di Filippo Rossi)

Le radici europee dell'icona Che Guevara
Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di domenica 23 settembre 2007

E’ opportuno parlare, da destra, dell’icona ormai quarantennale di Che Guevara? E comunque, in caso di risposta affermativa, come parlarne? Ancora in molti rispondono a queste domande con un moto di cupo disgusto, di spontanea avversione, come se la potenza nell’immaginario globale dell’ic
ona pop Che Guevara, simbolo giovanile dell’avventuriero moderno, non dovesse riguardare soprattutto chi ha la pretesa di intercettare – e comprendere fino in fondo – i fermenti esistenziali delle nuove generazioni di oggi (e dell’altro ieri). Del resto, mancano pochi giorni al quarantennale della sua disperata morte in Bolivia: il 9 ottobre 1967, all’età di soli trentanove anni. Oltre al tempismo editoriale, quindi, il saggio di Ludovico Incisa di Camerana, I ragazzi del Che. Storia di una rivoluzione mancata, appena uscito per la Corbaccio (pp 402, euro 20) nella collana storica diretta da Sergio Romano, ha il grande pregio di rispondere alla perfezione a queste due domande, senza dogmi e senza retorica. Certo che dobbiamo parlare di Che Guevara, ci dice Incisa di Camerana, perché forse è soprattutto da destra che si riesce a capire meglio un fenomeno di costume che solo in apparenza e superficialmente appartiene a una tradizione culturale totalmente altra. E perché, in realtà, solo da destra si riescono a capire certi segreti intrecci dell’anima e dell’immaginario che, invece, categorie tutte ideologiche e dogmatiche non riescono a penetrare. Solo da destra, infine, si riesce a capire quanta passione politica si possa esprimere anche dentro l’orizzonte della modernità.
Lasciamo stare la pigrizia mentale delle catalogazioni da salotto politichese – è questo il segnale preciso del libro di Incisa di Camerana – e cerchiamo piuttosto di arrivare, col racconto e un approfondimento per connessioni, ai significati profondi che Che Guevara, come uomo e come mito dell’immaginario collettivo, porta con sé: significati che si innestano – spiega l’autore – in una tradizione culturale non certo terzomondista ma tutta, tutta europea. E in primo luogo, allora, si capisce come le magliette con l’immagine del Che in Europa non siano affatto un’appropriazione indebita, non siano solo moda globalizzata e, soprattutto, non siano per niente ideologia. “Il non-europeo Guevara – annota Incisa – non si presenta infatti come una figura del Terzo Mondo, ma come una figura occidentale senza riscontro in aree extraeuropee, dal mondo arabo all’Africa, alla Cina, al Vietnam, all’India”. Sul piano storico-politico – questa la tesi dell’ex ambasciatore – la figur
a del Che si comprende meglio all’interno della tradizione culturale di una destra che affonda le sue radici nelle intemperie incandescente e immaginifica del Novecento, nel quadro, cioè, di “quel volontarismo europeo, di una giovane borghesia volontarista, disposta a vincere o a perdere, pronta nella guerra o nell’insurrezione a giocare il tutto per tutto e specialmente se stessa, l’élite dei reparti d’assalto”. Che Guevara, insomma, come l’erede legittimo del mito dell’esperienza della guerra come catarsi esistenziale ed esperienza di liberazione individuale, che ha affascinato, come lo descrive Gorge Mosse, i volontari delle guerre europee. Guevara erede, si potrebbe aggiungere, di quella Generazione ’14 magicamente descritta da Robert Wohl nel suo Storia di una generazione e cantata da Ezra Pound già nel 1920: “Audacia mai veduta, scempio mai veduto. / Sangue giovane e sangue nobile, / Rosee guance e bei corpi; / vigore mai veduto / sincerità mai veduta, / disinganni mai detti in passato / isterismi, confessioni di trincea, / risa di vetri morti. / Morirono a migliaia, / e i migliori, fra quelli, / per una vecchia cagna sdentata, / per una civiltà rattoppata…”.
Da questo punto di vista, vale la pena seguirlo fino infondo il ragionamento vertiginoso di Incisa di Camerana: “Ai miti del primo cinquantennio, agli ‘indomabili’, come li chiama Maurizio Serra, impegnati sul bordo tra decadenza e modernità, i Malraux, i D’Annunzio, i Lawrence, i Marinetti succede nella seconda metà del secolo un unico personaggio, il Che, che rifiuta a ogni costo un monologo intellettuale già sbiadito, respinge la decadenza e dimostra un assoluta ripugnanza per effetti letterali e gesti teatrali, ma è capace con la sua immagine di cancellare ogni sconfitta, di affascinare e commuovere”. Questo comunista atipico “senza tessera, malvisto da Mosca e da Pechino, non apparteneva alla stirpe dei Lenin, degli Stalin e tanto meno dei vecchi burocrati dell’ultimo ciclo sovietico”. La sua stirpe era quella dei Marinetti e dei Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinand Céline, degli Ernst Jünger, dei Giuseppe Prezzolini. Quello stesso Prezzolini che, ancora negli anni Sessanta, riusciva a interpretare le insofferenze dei nuovi “barbari”: “La gioventù di oggi che si riunisce in bande, che veste in modo strano, con una specie di uniforme del ‘vizio’ e si arruola subito in qualunque disordinata attività, non è attratta da assicurazioni sociali, da posti garantiti, dalla carriera… E’ una gioventù che anela all’avventura, cerca un mondo dove non ci sia sicurezza ma rischio, dove quello che avverrà quando ci si entra è sconosciuto, misterioso, pericoloso, e perciò grandemente attraente”. In buona compagnia di Prezzolini, ha ragione Incisa di Camerana secondo il quale Che Guevara “era rimasto per sempre giovane l
ettore di Salgari”. Forse è per questo che ormai il Guevara che attrae di più – anche all’inizio del Ventunesimo secolo – è quello dei suoi viaggi in motocicletta per l’America Latina. Profondamente europeo, proprio per questo “il Che ha chiesto a una giovane generazione della classe media latinoamericana un compito impossibile: la mobilitazione delle masse e la formazione di un esercito rivoluzionario. Una minoranza ha aderito al suo appello, in molti casi senza credere in una possibilità di vittoria, ma cedendo al fascino delle cause perdute, delle imprese senza speranza, della bella morte, lo stesso fascino che nell’Ottocento ha attirato i fratelli Bandiera e poi i 300 di Carlo Pisacane a sbarcare in Calabria, i bersaglieri lombardi e lo stesso Garibaldi alla difesa della Repubblica romana, e nel Novecento ha provocato l’inutile e sanguinosa rivolta dei patrioti irlandesi nella Pasqua del 1915 a Dublino, i Freikorps in Germania, la Guardia Bianca in Russia e ancora l’avventura di D’Annunzio a Fiume…”. Viene allora da pensare, oltre la storia, che la sua stirpe sarebbe piuttosto quella degli eroi senza tempo come Sandokan, Zorro o Don Chisciotte, dei nobili eroi che nei romanzi di cappa e spada combattono l’oppressione dei deboli per il trionfo della giustizia. “L’ideale – ha potuto scrivere Stenio Solinas – il sogno, le chimere non sono ‘traducibili’ e rimandano, necessariamente, pena il fallimento, a un altro ideale, un altro sogno, un’altra chimera da seguire. Che è poi la scoperta di se stessi. Lawrence d’Arabia termina in gloria la sua avventura araba ma si accorge che non gli è servita a nulla. E la motocicletta di aviere sconosciuto diviene il suo cilicio e la sua tomba. D’Annunzio paga Fiume con il Vittoriale, con la condanna a essere un monumento vivente, già consegnato al passato. Che Guevara trova, in una morte che sa più di sacrificio rituale che non di esatta comprensione delle ‘potenzialità rivoluzionarie’ esistenti in Bolivia, le ragioni per sentire, un’ultima volta ‘sotto i talloni gli zoccoli di Ronzinante; per ‘rimettersi in cammino con il suo ‘scudo al braccio’; per essere ‘un avventuriero di quelli che rischiano la pelle per dimostrare la loro verità’ e per uscirsene, a trentanove anni, da una rivoluzione nella quale per lui non vi era più posto”. In Italia, non a caso, una delle prime canzoni dedicate a quella morte eroica fu scritta da Pier Francesco Pingitore per i “Dischi del Bagaglino”.
La cantava Gabriella Ferri: “Addio Che / la gente come te / non muore nel suo letto / non crepa di vecchiaia … / Addio Che / come volevi tu / Sei morto in un giorno solo / e non poco per volta…”
Alla domanda “Chi ha ucciso Che Guevara?”, un suo biografo ha risposto: “I nemici e lui stesso”. Questo significa, commenta Incisa, che il Che aveva completato con la sua morte “un percorso eroico giunto al capolinea. Sopravvivendo avrebbe dovuto ricominciare da capo”. In fondo, la persistenza del mito del Che nell’immaginario giovanile di questo inizio millennio si spiega anche così: con il culto del
cavaliere solitario, senza macchia che parte contro le ingiustizie del mondo: “Un’immagine antica che rinasce nella modernità e che – ha spiegato l’antropologo Francesco Macello - rimanda più alla mitologia arturiana che non alla vulgata del marxismo-leninismo in cui, nel fare la storia, gli individui, sono sopraffatti dalla ineluttabilità delle masse”.
Un eroe solo, il Che raccontato da Incisa di Camerana, erede legittimo della cultura e dell’immaginario europeo, comunista atipico, mai burocrate, un anarco-individualista in cerca di avventura e di senso interiore, l’ultimo mito rimasto indenne dalle rovine del Novecento, figlio di D’Annunzio e Garibaldi, fratello di James Dean, con Sandokan e Zorro nella bisaccia e Don Chisciotte della Mancia impresso a caldo in un “cuore avventuroso”; Che Guevara icona popolare e modernissima, una sorta di Corto M
altese vissuto realmente, che viaggia oltre le ideologie per parlare a giovani ancora capaci di continuare a sognare altri mondi, altre vite. “E’ nata, alimentata da un’iconografia suggestiva, che documenta le sue avventure fino al martirio, una leggenda romantica o romanzesca ma svincolata da pregiudiziali ideologiche”. Non abbandoniamolo alle grinfie di chi ha fatto dell’ideologia una scuola di vita: questo l’appello non scritto ma evidente del libro di Incisa di Camerana. Non lasciamo marcire il mito là dove i miti non vengono capiti. Un Ernesto Che Guevara, quello che ci svela e racconta Incisa, che è impossibile considerare “dall’altra parte”, perché non ha “una parte”, viaggia ancora solo, senza briglie né sella, come scrisse Jean Cau, su strade che con l’ideologia le contrapposizioni dogmatiche non hanno nulla, ma proprio nulla, a che fare.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, dell'antologia Fascisti immaginari, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".

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