lunedì 24 settembre 2007

Cormac McCarthy, riposizionamento in strada (di Claudio Ughetto)

Cormac McCarthy, riposizionamento in strada
di Claudio Ughetto (nella foto a sinistra)


“È poi questa storia (calviniana) del primo libro, il solo autentico, il migliore, il solo non autoreferenziale, dopo il quale possono iniziare solo le piccole manovre autoparodistiche e di riposizionamento...” scrive Antonio Moresco nel breve saggio Il vulcano. Invece, per lui, non è così: “La Galatea non è migliore di Don Chisciotte, Povera gente non è migliore dei Karamazov...”1
Si parla di scrittori grandi, naturalmente. E Cormac McCarthy è considerato uno dei più grandi tra i contemporanei. Sono in molti a riferirci2 che il critico Harold Bloom, autore de Il Canone occidentale, ma soprattutto del più divulgativo Come leggere un libro (in cui elogia Meridiano di sangue, forse il romanzo più controverso dell'autore texano), lo mette insieme a Philip Roth, Thomas Pynchon e Don DeLillo, ovvero i più rappresentativi autori statunitensi. La scelta di Bloom è coerente con la sua visione vichiana delle età letterarie. Semplificando, dopo gli ineguagliabili Dante, Shakespeare e Milton, si sarebbe passati a un'”Età democratica” della letteratura fino al caos del novecento, ed ora i veri autori sono quelli che sanno rispondere creativamente alla “teocrazia” del politically correct, richiamando nei loro libri i temi forti dei padri letterari. Secondo Bloom, Meridiano di sangue “consolida la fama indiscussa di Moby Dick e Mentre morivo, poiché Cormac Mc Carthy è il degno discepolo di Melville e Faulkner". Al di là di Meridiano di sangue, l'intera sua opera esprime al meglio sia l'epica del grande romanzo americano, sia il magnifico orrore dei grandi spazi tanto cari agli autori sudisti.
In Italia McCarthy è stato scoperto relativamente tardi, ma i suoi libri si sono subito imposti dopo il successo della “Trilogia della frontiera”, com'è abitualmente chiamata3, che ha dato una svolta alla produzione successiva. Prima avevamo romanzi torbidi, e plurivoci, dalla scrittura barocca, ed era spontaneo accostare l'autore a Faulkner. Da Cavalli selvaggi in poi, invece, McCarthy diventa un abile manipolatore di generi, colui che ha dato al western una dimensione alta. Dopo la “Trilogia”, il successivo Non è un paese per vecchi mette insieme il western e Tarantino e trova fans ovunque, tutti estasiati da un road-book iperviolento che fa di una borsa piena di soldi la metafora della seduzione del male. Ora è arrivato La strada (Einaudi 2007, euro 16,80), vincitore del Pulitzer 2007 e annunciato da mesi come un capolavoro.
Devo riconoscere di non essere particolarmente attratto dalle tematiche di quest'autore che ho scoperto con Cavalli selvaggi ed ho continuato ad approfondire per la sua insuperabile prosa. Non mi interessa tanto quello che scrive, ma come lo scrive. Se davvero usciremo da quest'Età Teocratica dando vita a una nuova epica, credo che i due iniziatori di questo processo saranno Cormac McCarthy e Derek Walcott, diversissimi (un romanziere e un poeta) ma entrambi capaci di restituire alla pagina senso panico e una primordiale interazione tra uomo e natura, comunque minata dall'avvento del progresso o della colonizzazione consumista. Ogni frase di McCarthy è insieme realistica ed evocativa, il connubio di scarna narrazione e dialoghi è a volte spiazzante, e verrebbe da parlare di “prosa poetica”. Per quanto riguarda i temi, invece, quasi mi dispiace stare tra quei critici progressisti che non riescono a vedervi altro che un'ennesima variante superomistica tanto cara ai maschi contemporanei. Meno evidente nei primi lavori, come Il guardiano del frutteto, Il buio fuori o Figlio di dio, faulkneriani e carichi di suggestioni mitiche, da Meridiano di sangue in poi essa diventa predominante. Colpisce sì la visione di un mondo in preda al caos, di una natura panica che fa da sfondo alle efferatezze umane, ma altrettanto il contesto di questa visione è talmente estranea alla nostra esistenza da sfiorare il midcult. Leggendo la “Trilogia” ogni maschio di questa società dell'Air-Bag s'immedesima in John Grady Cole e Billy Parham, alla ricerca di se stessi “oltre il confine”, ma pochi di noi sopporterebbero quella vita sotto le stelle per più di un week-end, né reggerebbero l'incredibile sequenza di prove che essi devono affrontare per diventare adulti. Harold Bloom stesso ammette di aver mollato la lettura di Meridiano di sangue più volte, disgustato dalla mattanza insensata protratta su chiunque da Glanton e i suoi uomini. Le nuove generazioni, forse, reggono meglio grazie alla mitridatizzazione fornitaci dal cinema contemporaneo, con la quale l'essenza poetica di McCarthy ha poco a che fare. La “Trilogia” è più romantica, quasi un tentativo di sottrarsi alla maniera che sarebbe subentrata con Non è un paese per vecchi.
Eppure è proprio Non è un paese per vecchi a fare di lui un'icona. E questo mi fa tornare ad Antonio Moresco, smentito proprio da un grande autore come Cormac McCarthy: sono le prime opere le migliori, mentre in seguito ecco subentrare l'autoreferenzialità e le piccole manovre di riposizionamento. La strada, pur contraddistinto da una prosa straordinaria, mi sembra rientrare proprio in queste manovre. Esaurite le possibilità del western, McCarthy prova a cimentarsi con il genere catastrofico mettendo insieme le “Cronache del dopo bomba” e Interceptor e riducendo tutto al grado pressoché zero: un uomo e un bambino in un mondo incenerito, alla ricerca del mare. Niente nomi, solo uomini e i loro bisogni, emozioni e qualche tenerezza per contrastare la sopraffazione. Se non fosse stato per la prosa straordinaria, ammetto che l'avrei mollato ben presto per riaprire Dissipatio HG di Guido Morselli o (più incisivo e attinente a quest'epoca, altrettanto scarno e allucinato) La vita e il tempo di Michael K di J. M. Coetzee, o anche cose più alla buona come La parabola del seminatore di Octavia E. Butler. Non vi ho trovato il phatos promesso, né la parvenza di tragedia che sarebbe stata l'ultima risorsa, quasi metaletteraria, in un contesto altrimenti abusato: togliere ogni orpello, ogni artificio, per concentrarsi sugli ultimi due uomini. Padre e figlio. Tornare alla miseria dell'uomo spaesato, abbandonato e lanciato nel mondo. Solo che cose del genere le faceva Samuel Beckett, mentre McCarthy scrive dopo il cinema e ai tempi della televisione.
Alla fine è di coltelli e pistolettate che si parla, e non c'è un Godot da aspettare.
Note

1. Antonio Moresco, Il vulcano, pag. 70, Bollati Boringhieri.
2. Tra cui la rivista PULP di settembre-ottobre 2007, che dedica a McCarthy uno speciale in occasione dell'uscita de La strada.
3. La “Trilogia” è composta da Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura, tutti pubblicati da Einaudi.
Claudio Ughetto è nato a Giaveno (TO) nel 1965, dove risiede. Di mestiere fa l'educatore in un Consorzio pubblico. I suoi interessi sono molteplici: letteratura e filosofia, arti figurative e tutto ciò che riguarda l'immaginario. Da anni si sente vicino alla cultura non conformista, nella convinzione che la dicotomia destra/sinistra sia ormai inefficace per leggere e affrontare le questioni contemporanee. Scrive per Diorama Letterario, Arianna e Opifice. Un suo racconto è stato pubblicato nell'antologia Tutti esplosi. Le trame di Opifice (prefazione di Massimo Carlotto, Giulio Perrone editore, euro 12). Di recente ha pubblicato il suo primo romanzo Una falciola di terra (Il Filo, 2007, euro 18).

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