mercoledì 3 ottobre 2007

Carlo Lizzani, l'imprinting del Novecento (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 3 ottobre 2007
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"

Viviamo davvero in un mondo deteriorato, se la semplice onestà intellettuale diventa una specie di prodigio. E se le stesse osservazioni, gli stessi concetti già espressi in precedenza – ed espressi a più riprese, con una chiarezza che esclude qualunque possibilità di equivoco – vengono ogni volta accolti come chissà quali rivelazioni, di cui è legittimo sorprendersi e intorno alle quali va subito imbastito l’ennesimo dibattito.
Carlo Lizzani, al pari di molti altri, ha questa storia intellettuale che germoglia al tempo del fascismo ma che poi, specialmente dopo l’Otto Settembre e la tragedia della Guerra Civile, lo spinge tra le file dei comunisti. A differenza di tanti altri, però, ne ha parlato e scritto con ammirevole franchezza, senza nascondersi dietro il dito della “dissimulazione onesta” citata, a propria ed altrui discolpa, da Carlo Muscetta: «una generazione schizofrenica, la nostra: credevamo nell’anelito antiborghese del fascismo e pensammo di travasarlo nelle file del Pci».
Nato a Roma il 3 aprile del 1922, Lizzani si forma nel pieno del Ventennio. L’intelligenza lo avvicina spontaneamente alla cultura, la curiosità lo porta a interessarsi al cinema, il desiderio di affermazione lo induce a uscire prestissimo dal bozzolo e a cercare di ritagliarsi subito un proprio spazio, frequentando il Cineguf (l’associazione specializzata dei GUF, i Gruppi Universitari Fascisti) fino a diventarne vice fiduciario.
Per il cinema, in quel momento, la situazione è ancora ambigua. Ancora sospesa tra l’entusiasmo del miglior fascismo, che a cominciare da Mussolini ne ha colto la straordinaria attitudine a diffondere valori e modelli di comportamento, e le remore delle vecchie élites culturali, poco propense a riconoscerne le potenzialità prettamente artistiche. Inoltre, e questo sarà sempre il suo limite intrinseco (o la sua grande sfida, se preferite), il cinema incarna al massimo grado il problema, tutto contemporaneo, dell’arte che si intreccia al business. Il problema dell’elaborazione creativa che, per potersi trasformare da progetto astratto in opera finita, è costretta a coesistere con le logiche dell’impresa economica: accettando di divenire prodotto, merce da vendere, fonte di profitto; e però sforzandosi di salvare, quanto più possibile, le proprie ragioni originarie, i propri impulsi più profondi e potenti (e misteriosi), la propria integrità.
Al Cineguf se ne discute. Nelle riunioni riservate agli iscritti, dopo le proiezioni dei film che, almeno per ora, non sono destinati al pubblico delle sale. Lizzani, e non è certo il solo, morde il freno. Proprio perché ama il cinema, la sua magia avvolgente, quel miracolo che fonde insieme la levità del sogno e l’urgenza della realtà, è semplicemente impossibile che ami indistintamente tutto il cinema, tutte quante le pellicole che vengono prodotte sia in Italia che all’estero. L’amore vero è selettivo. E’ esigente. E’ ambizioso. Desidera specchi, e scoperte, all’altezza delle proprie aspettative.
Nel 1942, rivolgendosi al già noto Cesare Zavattini, il ventenne Lizzani esce allo scoperto e rivendica esplicitamente la massima libertà di espressione. E, quindi, di sperimentazione. “E’ ormai pacifico – afferma in una lettera scritta su carta intestata del Cineguf – che un cinema d’arte non potrà mai nascere, in Italia, se non si concederà all’artista la libertà che potrà permettergli, al di fuori di ogni astratta, esteriore, immorale imposizione di contenuti, una definitiva, interiore sofferta elaborazione di forme”. Molti anni dopo, nella recente autobiografia “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, egli stesso contemplerà quelle parole con una certa sorpresa, avvertendo il bisogno di riflettere sulla contraddizione (apparente?!) tra le prescrizioni dittatoriali del fascismo e la libertà di espressione concessa ai giovani intellettuali. “Era possibile esprimersi in questo modo su una pubblicazione ufficiale del Gruppo universitario fascista di Roma? (...) E’ forse necessario, ancora, insistere sulla natura ambigua del fascismo. Movimento reazionario ma modernizzatore. L’attribuzione, da cinquant’anni, di un generico aggettivo fascista a tutti i movimenti repressivi militari o autoritari (colonnelli greci, dittature latino-americane, lo stesso franchismo) nasconde alle nuove generazioni i tratti essenziali del movimento creato da Mussolini”. E ancora: “Vi confluiscono, com’è noto, le nostalgie medievali della corporazione e il radicalismo soreliano, il nazionalismo e l’eco della stagione socialista, antiborghese e anticapitalista del capo, il dannunzianesimo e il Futurismo. Un gran calderone ideologico studiato con sorprendente genialità per accompagnare l’ingresso impetuoso delle masse nella Storia (...)”.
Più o meno, sono le stesse considerazioni che, emerse en passant in un rapido botta e risposta apparso il 15 settembre sul magazine del Corriere della Sera “Io donna”, sono state poi sviluppate in un’ampia intervista pubblicata il lunedì successivo da “La Stampa”. Intervista, peraltro, già diffusamente, e incisivamente, commentata da Enrico Nistri su queste stesse colonne, il 20 settembre scorso.
Quello che si può aggiungere, a così breve distanza di tempo, è che a Lizzani, pur con tutta la sua obiettività e il suo acume, sembra comunque sfuggire un aspetto cruciale del (difficilissimo) rapporto tra azione politica ed elaborazione culturale. Mentre la prima, specie quando assurge a compiti di governo, deve privilegiare gli effetti concreti delle proprie scelte rispetto alle mere affermazioni di principio, la seconda tende a fare esattamente l’opposto: si lascia prendere la mano dalla sua ansia di rigore, di coerenza, di perfezione, e si fa scivolare tra le dita il filo della realtà. Una domanda che Lizzani dovrebbe porsi, ma che non si pone, è se la sua crescente avversione per il Regime non sia stata condizionata, e in modo decisivo, dall’impazienza giovanile. Sarebbe approdato a giudizi ugualmente negativi se, invece di concentrarsi su certi aspetti, finendo col ritenerli determinanti, li avesse considerati come degli stadi intermedi all’interno di un processo assai più lungo, e dunque come il prezzo da pagare in vista di un futuro migliore? In altre parole: qual era, in effetti, l’essenza? E qual era, di contro, la superficie, l’involucro, la messinscena (inevitabile?!) finalizzata a coinvolgere le masse popolari in vista di una loro piena maturazione e del loro approdo a una salda consapevolezza del proprio potenziale?
Eppure, da uomo di cinema, Lizzani dovrebbe sapere perfettamente che qualsiasi rappresentazione ha in sé qualcosa di enfatico. O, quanto meno, di unilaterale. Da una parte c’è qualcuno che vuole comunicare e che stabilisce come farlo. Dall’altra c’è qualcuno che dovrà essere attratto, coinvolto, indotto prima a prestare attenzione e poi, se tutto andrà come si spera, a condividere quel particolare contenuto. Quel particolare messaggio. Lizzani, che ha il merito di aver assiduamente coltivato l’idea di un cinema che non si limiti al semplice intrattenimento, non può non sapere che, in campo artistico, non c’è apprendimento senza emozione. Dapprima si affascina; poi, eventualmente, si arriva anche a convincere.
Se il cinema di Lizzani è stato buono, e in tanti casi lo è stato, è in forza di questa attitudine a tenere in equilibrio la forma e la sostanza. D’altra parte, come sottolinea egli stesso nell’introduzione alla succitata autobiografia, i suoi film si sono “quasi sempre ispirati a eventi della Storia recente o a clamorosi fatti di cronaca, o tratti da grandi opere letterarie”; inoltre, vedi il celebre “La muraglia cinese” del 1957, primo film occidentale sulla Cina di Mao, non sono mancati i documentari, così come non è mancata la voglia di guardare, e operare, al di là della sola regia. “Il cinema – scrive ancora Lizzani – è stato per me anche territorio di esplorazione teorica e storiografica, e, in certi periodi, mi ha impegnato a fondo come operatore culturale. La direzione del Festival di Venezia, alla fine degli anni settanta (dal 1977 al 1982 – Ndr), mi ha permesso, ad esempio, di contribuire a rendere visibile quel grande cinema tedesco (Fassbinder, Von Trotta, Schloendorff, Wenders) che in quegli anni aveva consolidato la sua identità ma non aveva ancora trovato un palcoscenico internazionale autorevole”.
Se vogliamo, un’ulteriore estensione dell’idea di film come creazione collettiva. Col regista che, in nome del suo amore per il cinema, passa dal coordinamento di una propria troupe alla gestione di una macchina organizzativa complessa come quella di un grande festival. Così: per la soddisfazione di trovare nuovi e più efficaci spazi ai film di valore, ai cineasti in attesa di consacrazione, ai giovani esperti che si affacciano sul mondo della critica. Così: per tornare a fare, a distanza di tanti anni, quello che si era cominciato a fare ai tempi del Cineguf, quando si scriveva a un’autorità come Cesare Zavattini e, a mezza via tra deferenza e orgoglio, gli si metteva a disposizione “l’attrezzatura tecnica della sezione cinematografica del Guf, cioè: operatori, macchine da presa e pellicola in quantità illimitata”. Un imprinting, quale che ne sia l’origine, che non è mai venuto meno. Che ha continuato a dare frutto. Che ha accompagnato Lizzani lungo tutto il suo percorso. Per dirla con Antonio Valenzi, il critico cinematografico che anima lo spazio radio-web “Good Night and Good Luck”, si tratta di «uno dei pochissimi gentlemen autentici in un mondo di cialtroni». Ancora una volta, quella che dovrebbe essere la norma è diventata l’eccezione; e viceversa. Come dicevamo all’inizio, è davvero una realtà deteriorata.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.

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