domenica 14 ottobre 2007

Dr. House, salvaci tu (di Adriano Scianca)

Articolo di Adriano Scianca
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 14 ottobre

Siamo destinati a morire veltroniani? Chi ci salverà dalla melassa buonista impastata di nutella e figurine Panini? Chi, se non il Dottor House?
Scontroso, cinico, sarcastico, irritante, il celebre medico interpretato dall’oxfordiano attore inglese Hugh Laurie sembra effettivamente rappresentare una necessaria scialuppa di salvataggio rispetto alla marea retorica che invade l’Italia ai tempi del Partito democratico. Già Nietzsche ci insegnava a “pensare al di là del bene e del male”. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti ed il grandioso linguaggio post-moralista del filosofo tedesco sembra esser stato sepolto dai reazionari di ogni colore.
Ecco allora che, di questi tempi, anche un medico televisivo claudicante e misantropo come Gregory House, colui per il quale «la verità comincia dalle bugie», può portare una salutare boccata d’ossigeno. Medico brillante, di estrema competenza nel proprio lavoro, nella serie tv "Medical Division" Gregory House potrebbe essere la punta di diamante del proprio ospedale, ma il carattere irritante e asociale tipico della sua personalità rischia di compromettere la tradizionale fiducia tra paziente e dottore. Per via di queste caratteristiche, in più di un'occasione ha anche rischiato il licenziamento, ma l'amministratrice dell'ospedale presso cui lavora, la dottoressa Lisa Cuddy, ha sempre preso le sue difese, anche rinunciando al finanziamento di 100 milioni di dollari offerto dal titolare di una casa farmaceutica per presiedere il consiglio d'amministrazione dell'ospedale e ostile ad House. Gregory House, specializzato in nefrologia e malattie infettive è, infatti, geniale, riuscendo a risolvere brillantemente i casi clinici più difficili e disperati, con una tecnica degna del più abile degli investigatori. Non a caso è stato paragonato a Sherlock Holmes con cui ha più di un'affinità. Ma House è anche un medico atipico, uno scienziato della medicina, che cura le malattie, ma odia il contatto con i pazienti e le persone in generale. «Questo posto è pieno di malati, se mi sbrigo riesco a evitarli». House ha anche una vera passione/dipendenza per il Vicodin, l'unico oppiaceo che riesca a lenirgli il dolore alla gamba; ma tutto questo diventa inutile e superfluo se ha un caso nuovo, un puzzle da risolvere.
Non c’è da stupirsi se anche il mondo della cultura “alta” ha alla fine abbandonato ogni pregiudizio per occuparsi del telefilm americano. È il caso, ad esempio, di La filosofia del Dr. House, saggio appena uscito per i tipi di Ponte alle Grazie e firmato da “Blitris”, collettivo filosofico genovese formato da quattro giovani studiosi (di cui alla fine del libro ci vengono svelati i nomi: ma allora perché concedersi il vezzo alla Luther Blisset del nome collettivo?). Il volume, diviso in quattro saggi, mira ad illustrare i fondamenti etici e logici dell’agire di House, che di regola è solito insultare, prendere per i fondelli e raggirare pazienti, colleghi ed in genere chiunque ne incroci il cammino zoppicante ma deciso. Una sorta di Patch Adams al contrario, insomma, per il quale i pazienti sono sintomi delle malattie e non viceversa. Una delle frasi preferite di Gregory House è infatti: «Preferisci un dottore che ti tiene la mano mentre muori o uno che ti ignora mentre migliori?».
Ma il cattivissimo camice bianco ha sfornato perle di cinismo in abbondanza nel corso delle fortunate stagioni televisive. Qualche esempio: «Sai che le persone non possono vivere senza amore? Beh, l'ossigeno è ancora più importante». Ed ancora, un dialogo che è un cazzotto nello stomaco: «House: "Ha un cancro allo stomaco con metastasi squamosa delle cellule, sei mesi al massimo". Cameron: "Hai mai guardato le sue lastre?" House: "No, sto cercando di indovinare. E' un nuovo gioco. Se mi sbaglio, vinci un orsacchiotto". Cameron: "Una macchia sulle lastre non significa necessariamente che sia terminale". House: "Mi piacciono i bambini. Così pieni di speranza..."».
Un amorale, quindi? Il saggio di “Blitris” preferisce citare Kierkegaard e la “follia” del singolo che decide senza poter fare riferimento ad un quadro di riferimenti superiore che non c’è più o che forse non c’è mai stato. «La decisione di House è folle nella misura in cui non applica nessuna regola: decide senza regola nella notte del non-sapere», dicono gli autori. Sarebbe stato bello anche confrontare le scelte disperate, radicali ed arbitrarie del dottore televisivo con l’opera di Carl Schmitt, per il quale la decisione sovrana sempre «scaturisce da un nulla normativo e da un disordine concreto». Ma questo sarebbe forse stato pretender troppo. Ma, al di là dei contenuti, ciò che risulta interessante in La filosofia del Dr House è proprio questa idea di una “filosofia pop” che si “sporca le mani” con la cultura nazionalpopolare e supera gli snobismi accademici per confrontarsi con ciò che concretamente la gente vede, legge ed ascolta. «Non ci sono cose degne o indegne di attenzione filosofica – affermano gli autori del saggio – ma solo buoni o cattivi modi di fare filosofia sulle cose. Tutte le cose. La filosofia non dovrebbe rinunciare a niente, nemmeno alla televisione. Tanto più che oggi l’essenziale, nel bene e nel male, e al di là, passa proprio attraverso il piccolo schermo». Tale idea, ovviamente, rimane valida nonostante il fatto che “Blitris” ne abbia dato una incarnazione assai problematica. Il saggio del collettivo filosofico sembra infatti fallire proprio laddove dovrebbe essere più forte, coniugando in modo posticcio e sin troppo didascalico cultura “alta” e cultura “bassa”. Ciò nulla toglie, tuttavia, al fatto che sia proprio la composizione di questi due fronti la sfida più intrigante che si pone per il pensiero contemporaneo.
La tendenza, del resto, è chiara. Non è da molto, in effetti, che abbiamo visto le librerie invase dal volume collettaneo su I Simpson e la filosofia (a cura di William Irwin, Mark Canard, Aeon Skoble, Isbn edizioni). Bart Simpson come incarnazione del nichilismo nietzscheano? Marge come aristotelica custode della casa? Perché no, con una buona dose di ironia anche questo è possibile. Per non parlare, poi, dei numerosi saggi dedicati al rapporto tra cinema e filosofia, a cominciare dall’appena uscito Woody Allen e la filosofia. Quindici filosofi alle prese con il cinema di Woody Allen (a cura di M. T. Conard e A. J. Skoble, Effepi libri) o dal più datato Pillole rosse. Matrix e la filosofia (W. Irwin e V. Cicero, Bompiani). Interessante, a questo proposito, la spiegazione data dallo stesso William Irwin, curatore dell’opera sulla pellicola dei fratelli Wachowski: «Willie Sutton era una mente criminale, a suo modo un genio. Una volta gli chiesero: “Willie, perché rapini le banche?”; lui rispose papale papale: “Perché è lì che ci sono i soldi”. Perché allora scrivere di un prodotto di cultura pop come Matrix? Perché è lì che c’è la gente». E’ un’ottima osservazione. Che ne è, infatti, della filosofia se essa non riesce a mettere a tema ciò che la gente, a torto o ragione, considera importante? Racconta la leggenda che Talete, pensando ai massimi sistemi, cadde sbadatamente in un pozzo, tanto da meritarsi la derisione di una schiava tracia che passava di lì. Ora, a meno che non si voglia ripetere l’errore del pur illustre predecessore, è forse il caso che oggi la filosofia cominci a guardare con più attenzione dove mette i piedi. Chiamiamolo, se vogliamo, un rinnovato “senso della terra” di zarathustriana memoria. Ed in questo “ritorno sulla terra” della filosofia è inevitabile imbattersi nella televisione, con buona pace dei custodi della cultura “alta”, per i quali il medium televisivo è sempre troppo “popolare”, “massificato” e, ça va sans dire, “berlusconiano”.
Si potrebbe obbiettare, ovviamente, che un conto è conciliare Heidegger e Kant con prodotti intrinsecamente “filosofici” come The Matrix o Blade Runner ed un altro è occuparsi con lo stesso approccio di sottoprodotti di massa come cartoni o telefilm. Ma anche questo, in fondo, non è che un pregiudizio. Recentemente ci ha pensato Aldo Grasso a ristabilire la verità con il suo Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri (Mondadori). «I telefilm – ha scritto il critico del Corriere della Sera – sono ricolmi non solo di citazioni attinte a piene mani alla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, ma trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti “rubati” a modelli alti […]. Alcuni telefilm di successo rappresentano anche la “buona letteratura” dei nostri giorni». In particolare, Buona maestra (titolo che inverte una celebre sentenza moralistica ed anti-televisiva d Karl Popper) contrappone telefilm e reality. Mentre il secondo è il regno della ciarla, della chiacchiera, del “tutto vale tutto”, le serie tv riporterebbe un “principio d’ordine”, una “gerarchia di valori”, anche se a Grasso non sfugge che, in un’epoca postmoderna, ogni idea di senso non può che essere frammentaria.
Il saggio in questione si apre del resto con una citazione di Gottfried Benn secondo la quale «chi non vede più connessioni, più alcuna traccia di sistema, può ancora procedere solo per episodi». Il telefilm come espressione di una poetica post-metafisica, quindi. E proprio in relazione alla tv series con Hugh Laurie, Grasso ne ha individuato il significato più recondito nell’idea del “pensare la malattia”. Ovvero il male come sfida logico-medica da analizzare, scomporre e combattere con un procedimento che volutamente ricorda quello dello Sherlock Holmes di Conan Doyle cui gli autori del telefilm si sono dichiaratamente ispirati. Per Grasso, il senso del “pensare la malattia” viene disvelato da una frase di Cioran: «Cedere, in mezzo ai nostri mali, alla tentazione di pensare che non servano a niente, che senza di essi saremmo andati infinitamente più avanti, significa dimenticare il duplice aspetto della malattia: “annientamento” e “rivelazione”; essa non ci sottrae alle nostre apparenze e non le distrugge se non per aprirci meglio alla nostra realtà ultima e talvolta all’invisibile». Il male come un invito a “divenire ciò che siamo”. Also sprach Dr. House.
Adriano Scianca (1980), laureato in filosofia, collaboratore di diverse riviste, giornali e siti web, nonchè appassionato di cultura non conforme, filosofia sovrumanista e pensiero postmoderno.

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