sabato 13 ottobre 2007

Quel vento che attraversa l'Occidente (di Pierluigi Mennitti)

Articolo di Pierluigi Mennitti
Dal Secolo d'Italia di sabato 13 ottobre 2007

Una misura della loro popolarità può essere data dalla lunga lista d’attesa alla quale i colleghi politici (capi di Stato, premier, ministri o semplici deputati) devono iscriversi per poter avere un incontro o stringere una mano. Che si chiamino Nicolas Sarkozy, Angela Merkel o Arnold Schwarzenegger, sono i leader delle destre gli uomini politici che oggi tutti vorrebbero incontrare. A cominciare dai loro avversari.
Prendete il governatore della California. Ex attore di film eroico avventuriero militareschi, irriso prima per quel suo cozzare sulle consonanti quando parla americano che tradisce le origini austriache, poi per quella voglia tutta cinematografica di menare le mani, infine per una presunta inadeguatezza alle raffinatezze della politica. Una volta eletto ha sorpreso tutti, miscelando il suo credo politico con una politica pragmatica e poco ideologica, capace di incrociare i bisogni di uno Stato ipermoderno come la California di Beverly Hills o di Hollywood, delle interminabili spiagge dorate, delle ricchezze e delle libertà sfrenate. E anche dell’ecologia. Oggi, doppiata la boa del primo mandato e affermatosi come il repubblicano più illuminato di tutta l’America, si fa la coda per strappare un appuntamento. E il ministro degli Esteri tedesco, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, uno dei collaboratori più stretti e fidati dell’ex cancelliere Gerhard Schröder, quella coda la fa volentieri, perché farsi fotografare stringendo la mano al «repubblicano più illuminato di tutta l’America» funziona e porta voti.
C’è, insomma, un dato col quale tutti stanno facendo i conti: la destra è chic, la destra funziona. Non dappertutto, è ovvio. I cicli politici sono anche geografici e bisognerà attendere, ad esempio, la fine dell’esperienza zapateriana per ritrovare la Spagna pronta ad affrontare una nuova fase popolare, dopo aver ricevuto tanto dagli anni di Aznar. E in Italia occorre aspettare la fine della seconda parentesi prodiana. Ma da qualche tempo lo Zeitgeist dell’Occidente sembra pendere verso destra. Tanto nell’Occidente tradizionale quanto in quella sorta di “nuovo Occidente” rappresentato dalle giovani democrazie est-europee, dall’Ucraina ai Paesi Baltici, dalla Repubblica Ceca alla Romania, fino alla Polonia, dove l’alternativa alla guida troppo rigida e conservatrice dei gemelli Kaczynski non è rappresentata dal socialismo post-comunista ma da un’altra destra, più europea e più riformista, quella di Donald Tusk edella sua Piattaforma Civica.
La destra ha insomma il vento in poppa. In Germania la Grossa Coalizione ha ridato slancio alla Cdu e ha messo in crisi i socialdemocratici. In Svezia il nuovo premier Fredrik Reinfeldt prosegue, a mesi di distanza dalla sua sorprendente elezione, la sua luna di miele con gli elettori. In Grecia non sono servite le speculazioni sulle tragedie degli incendi estivi per cancellare anni di governo serio e laborioso di Kostas Karamanlis. E in Gran Bretagna è bastato che David Cameron si presentasse col piglio del leader al congresso del suo partito per invertire di nuovo i sondaggi e sconsigliare al successore di Tony Blair di avventurarsi sulla strada delle elezioni anticipate.
E su tutti, negli ultimi tempi, spicca il presidente francese Nicolas Sarkozy. La sua irresistibile cavalcata alla conquista dell’Eliseo è stata un capolavoro di strategia politica. Idee, programmi, energia, carisma. E poi staff, collaboratori, lavoro di squadra a testimonianza che la stagione politica che si è aperta richiede preparazione e passione: l’improvvisazione non paga più. Sarkozy è divenuta l’icona della destra che tutti vorrebbero interpretare e dall’elezione in poi, nonostante qualche irrequietezza, il presidente ha rafforzato la sua posizione, giocando su tutti i tavoli, driblando gli ostacoli della burocrazia conservatrice, sorprendendo con la disponibilità ad accogliere, nella squadra di governo e in quella dei collaboratori, esponenti politici e culturali provenientidalla sinistra.
Le destre sono tante e diverse, e un giro d’orizzonte internazionale come questo corre il rischio di mettere in un unico calderone realtà anche difficilmente compatibili. Non è un aggiornato atlante mondiale della destra, che qui cerchiamo di disegnare: se la definizione non portasse sfortuna, potremmo dire che parliamo di destre plurali, che hanno conquistato responsabilità di governo perché sono state capaci di adattarsi alle diverse realtà nazionali, evitando di applicare ricette scolastiche imparate sui libri sacri delle vecchie biblioteche liberali e conservatrici. Ma se è possibile rintracciare alcuni comuni denominatori di questa nuova primavera delle destre, uno è certamente quello di aver allentato i legami con l’ideologia e di aver iniziato a studiare il mondo. Pragmatismo, potremmo dire. Ma non quello che offuscava gli ideali in nome di politiche standardizzate, che degradava la politica per privilegiare economia, business e mercato, come se il destino delle destre fosse solo quello di presenziare alla dismissione del bene pubblico a favore del dispiegarsi caotico del bene privato. Un pragmatismo di tipo diverso, fatto di confronto con la realtà e con i bisogni dei cittadini e di flessibilità delle proposte politiche.
Flessibilità. Non bisogna aver paura delle parole. Le destre oggi vincenti sono quelle che hanno saputo aggregare consensi in aree elettorali che prima votavano a sinistra. La dimensione sociale delle proposte politiche è la vera novità degli ultimi anni. In Francia. In Germania. In Svezia. E anche in California, dove il governatore repubblicano venuto dal cinema (ricorda qualcun altro?) è stato capace di opporsi anche a George Bush e al gotha intellettuale di Washington pur di sostenere le politiche ecologiche gradite ai suoi elettori e sgradite agli imprenditori. La duttilità della proposta politica è la vera arte di governo. I cattolico-democratici ne sono stati artefici insuperabili (fino all’eccesso di compromessi stagnanti) negli anni della ricostruzione postbellica. Poi è stata la volta delle sinistre, quando hanno abbandonato i dogmi ideologici del marxismo. La spinta verso il centro è stata la molla del rinnovamento del New Labour di Tony Blair e dell’Spd di Gerhard Schröder, capaci di fare proprie le innovazioni dei predecessori conservatori (Margaret Thatcher in Gran Bretagna, Helmut Kohl in Germania) e di instradare le loro forse politiche sui binari del riformismo. Oggi accade alla destra. Angela Merkel s’è presa carico di governare la Germania in una fase di emergenza democratica: nessuna maggioranza omogenea e il vicolo stretto di una Grande Coalizione. Ha letto i numeri di un paese ancora profondamente diviso tra est e ovest, ha sondato i bisogni dei cittadini e ha messo su un governo di compromesso che ha puntato sulle riforme e sulla solidarietà. Le une legate all’altra. Di tanto si riforma il welfare, di tanto si accrescono le sicurezze: il problema è quello di svecchiare i meccanismi, di renderli meno automatici, di sottoporli a verifiche continue. Ne è venuto fuori un progetto di modernizzazione dello Stato sociale, non il suo smantellamento. La Merkel ha buon gioco a ribattere ai critici che l’accusano di tradire i veri valori del suo partito: «Ma questa è l’economia sociale di mercato, questa è la nostra storia». La verità è che la Cancelliera non è rimasta ferma alle posizioni tradizionali della Cdu dell’ultimo decennio (nel quale infatti il partito è stato escluso dal governo) ma le ha sapute integrare con nuove sensibilità, strappandole anche dalla bacheca degli avversari. È il caso dell’ecologismo, un valore valore e una politica che non possono essere confinate a sinistra dal momento che oggi incontra i bisogni di fasce sempre più ampie di popolazione (e quindi di elettori). Oggi la Merkel è diventata l’alfiere non di una generica lotta al riscaldamento globale ma di politiche concrete per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici. Pragmatismo, appunto. Che può anche tradursi in futuri sviluppi politici: non è più tabù, ad esempio, immaginare un governo che alle tradizionali forze del centrodestra (Cdu e Fdp) possa in futuro associare i Verdi.
Sorprendere. Immaginare. Avventurarsi con curiosità nei tempi nuovi. È anche il caso svedese. L’ascesa sorprendente di Fredrik Reinfeldt, il premier tranquillo che ama girare in golfino, promette una riforma morbida del welfare per mantenere quanto di buono lo stato sociale ha garantito allo sviluppo della Svezia con quel tanto di efficienza che l’economia globale richiede. Il suo avversario socialdemocratico aveva proposto tasse più alte per assicurare pensioni più elevate. Èstato battuto, perché Reinfeld ha puntato sul futuro di un paese severo ed equilibrato che non ha bisogno di tutele demagogiche ma può affrontare a viso aperto la sua sfida globale dopo aver assunto la leadership di una regione vitalecome quella artico-baltica.
Dall’Inghilterra David Cameron ha ormai convinto tutti che fa sul serio. Il suo bagaglio culturale sembra fatto apposta per spiazzare i nostalgici di Winston Churchill e Margaret Thatcher ma anche per conquistare il consenso della nuova generazione, quella cresciuta all’ombra del blairismo. Anche qui l’ecologia ha fatto il suo ingresso nel programma di governo così come l’idea di stili di vita più moderni e metropolitani. Cameron è figlio del suo tempo e non ha voglia di interpretare lo spartito del passato. Rimangano appese al muro le effigi dei sacri padri del partito, oggi i Tories vogliono scrivere un’altra storia. E questo è un ulteriore aspetto che accomuna le destre nuove e vincenti di questi anni e di questi giorni: l’età dei leader. C’è stato nel complesso – e ovunque – un cambio generazionale che ha portato linfa vitale e una maggiore capacità a entrare in sintonia con gli umori della società. In politica, bisogna non aver paura di aprire nuove stagioni.
Pierluigi Mennitti (Brindisi, 1966). Laureato all’Università La Sapienza di Roma in Scienze Politiche, è direttore della rivista di cultura politica Ideazione, per la quale tiene una rubrica (Alexanderplatz) in qualità di inviato in Germania, paese nel quale risiede. In veste di politologo ha più volte presenziato alla trasmissione Otto e mezzo condotta da Giuliano Ferrara. Collabora anche con la rivista Emporion e diversi quotidiani, tra cui il Secolo d'Italia.

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