Da Area di ottobre 2007
«Forte nevrosi da disadattamento psicopolitico». La diagnosi del dott. Aristide Brontocefalo – «autorità nel campo delle malattie dell’anima» – non lascerebbe scampo a molti tra noi, se mettessimo piede nel suo studio immaginario. Eppure, inconsapevolmente, talvolta capita che se ne seguano le prescrizioni, a partire da quella che l’illustre medico definisce la terapia del silenzio: «Lei, per un po’ di tempo, non dovrà più faticare a confezionare opinioni o a incamerare opinioni confezionate da altri. La voce delle sue idee non deve coprire le voci della vita. Deve rieducare il suo orecchio interiore ad ascoltare di nuovo il mondo».
Non c’è altro rimedio. Come ha recentemente confermato il V-day anti-casta di Grillo, l’insofferenza per la cosiddetta «Cittadella delle parole» – il centro di Roma, là dove sorgono i palazzi della politica e le redazioni dei giornali – ha da tempo superato il limite di guardia e non è solo un problema del paziente letterario di Brontocefalo. Solo con il silenzio potranno attenuarsi i sintomi della “malattia”, l’allucinazione sonora, un insopportabile Bum Bum Bum, che ha sorpreso il protagonista – giornalista di destra come l’autore del romanzo, di cui è l’alter ego – inviato al tradizionale appuntamento estivo del Meeting di Rimini, edizione prebipolare del 1991. Parliamo di Aldo Di Lello (nella foto), responsabile delle pagine culturali del Secolo d’Italia e direttore di Imperi, rivista quadrimestrale di geopolitica, autore di importanti saggi sulla globalizzazione e adesso anche buon narratore. Sì, perché il suo Anima destra (Mursia, p. 248, € 17,30) è una fotografia quanto mai nitida della memoria degli ultimi quindici anni di storia nazionale, il racconto spietato di una società politica degradata e incattivita, un romanzo scanzonato quanto amaro, ferocemente ironico ma senza essere cinico. Al contrario: un libro che nasce dall’esigenza interiore di provocare reazioni, di svegliare un ambiente sonnacchioso e rassegnato, un atto d’amore. Sì legge d’un fiato, diverte e fa riflettere. La scrittura è brillante e la galleria di personaggi è a più colori, di quelle che non si dimenticano nel momento, rappresentanti dei diversi popoli del centrodestra si annusano, si scoprono, lentamente viene meno la diffidenza di chi nel recente passato si era trovato su versanti diversi, spesso opposti, finiscono per piacersi. E alle elezioni politiche del 28 marzo 1994 diventano maggioranza. «I cellulari squillavano a più non posso. Drin Drin Drin. “Abbiamo vinto, abbiamo vinto”. Drin Drin Drin era diventata la colonna sonora di una favola. Ma anche, ahimè, di un’illusione». Già, perché come Di Lello fa dire al professor Rodolfo Sdrufolì, assistente parlamentare di un deputato polista alla prima legislatura, «abbiamo ballato una sola estate». Così il protagonista decide di partire per un viaggio in Italia, un percorso che lo porterà a conoscere altri personaggi, rappresentativi di un ceto politico in crisi di identità e soprattutto in cerca di collocazione.
Quando il protagonista torna a Roma si trova davanti uno scenario tutt’altro che edificante. Le sedi di discussione politica non sono più quelle istituzionali, soppiantate dalla morbosità chiassosa dei talk show, nei quali «il Clap Clap Clap delle tifoserie tracimava ovunque» e vinceva chi risultava più spiritoso o riusciva a raccogliere il maggior numero di applausi. I politici dei due schieramenti non comunicavano più idee, si affrontano cercando di delegittimarsi reciprocamente, senza risparmiarsi accuse e insulti. Il protagonista, seguendo i consigli del suo psicoterapeuta - «l’ideologia non è la scorciatoia per la felicità» - si concentra sulla sua vita, complice il destino, che lo mette di fronte ad una storia d’amore con una ragazza più giovane, la militante ciellina Stella. Motivo di più per rimettersi in discussione. Le conclusioni “politiche” del racconto sono amare: «La campagna del 2006 era stata la copia, in brutto, di quella del 1996. Le stesse facce, lo stesso linguaggio, la stessa animosità isterica. Di peggio c’erano solo quello smagamento, quella delusione, quell’aria stagnante di un Paese che non pareva disposto a pagare il prezzo delle riforme». Ancora una volta appare Brontocefalo – rivelandosi «lo specchio di tante anime in cerca di destino» – per suggerire al nostro l’ultima terapia, quella definitiva: il disincanto. Una terapia che, siamo certi, l'autore non ha intenzione di seguire.
Non c’è altro rimedio. Come ha recentemente confermato il V-day anti-casta di Grillo, l’insofferenza per la cosiddetta «Cittadella delle parole» – il centro di Roma, là dove sorgono i palazzi della politica e le redazioni dei giornali – ha da tempo superato il limite di guardia e non è solo un problema del paziente letterario di Brontocefalo. Solo con il silenzio potranno attenuarsi i sintomi della “malattia”, l’allucinazione sonora, un insopportabile Bum Bum Bum, che ha sorpreso il protagonista – giornalista di destra come l’autore del romanzo, di cui è l’alter ego – inviato al tradizionale appuntamento estivo del Meeting di Rimini, edizione prebipolare del 1991. Parliamo di Aldo Di Lello (nella foto), responsabile delle pagine culturali del Secolo d’Italia e direttore di Imperi, rivista quadrimestrale di geopolitica, autore di importanti saggi sulla globalizzazione e adesso anche buon narratore. Sì, perché il suo Anima destra (Mursia, p. 248, € 17,30) è una fotografia quanto mai nitida della memoria degli ultimi quindici anni di storia nazionale, il racconto spietato di una società politica degradata e incattivita, un romanzo scanzonato quanto amaro, ferocemente ironico ma senza essere cinico. Al contrario: un libro che nasce dall’esigenza interiore di provocare reazioni, di svegliare un ambiente sonnacchioso e rassegnato, un atto d’amore. Sì legge d’un fiato, diverte e fa riflettere. La scrittura è brillante e la galleria di personaggi è a più colori, di quelle che non si dimenticano nel momento, rappresentanti dei diversi popoli del centrodestra si annusano, si scoprono, lentamente viene meno la diffidenza di chi nel recente passato si era trovato su versanti diversi, spesso opposti, finiscono per piacersi. E alle elezioni politiche del 28 marzo 1994 diventano maggioranza. «I cellulari squillavano a più non posso. Drin Drin Drin. “Abbiamo vinto, abbiamo vinto”. Drin Drin Drin era diventata la colonna sonora di una favola. Ma anche, ahimè, di un’illusione». Già, perché come Di Lello fa dire al professor Rodolfo Sdrufolì, assistente parlamentare di un deputato polista alla prima legislatura, «abbiamo ballato una sola estate». Così il protagonista decide di partire per un viaggio in Italia, un percorso che lo porterà a conoscere altri personaggi, rappresentativi di un ceto politico in crisi di identità e soprattutto in cerca di collocazione.
Quando il protagonista torna a Roma si trova davanti uno scenario tutt’altro che edificante. Le sedi di discussione politica non sono più quelle istituzionali, soppiantate dalla morbosità chiassosa dei talk show, nei quali «il Clap Clap Clap delle tifoserie tracimava ovunque» e vinceva chi risultava più spiritoso o riusciva a raccogliere il maggior numero di applausi. I politici dei due schieramenti non comunicavano più idee, si affrontano cercando di delegittimarsi reciprocamente, senza risparmiarsi accuse e insulti. Il protagonista, seguendo i consigli del suo psicoterapeuta - «l’ideologia non è la scorciatoia per la felicità» - si concentra sulla sua vita, complice il destino, che lo mette di fronte ad una storia d’amore con una ragazza più giovane, la militante ciellina Stella. Motivo di più per rimettersi in discussione. Le conclusioni “politiche” del racconto sono amare: «La campagna del 2006 era stata la copia, in brutto, di quella del 1996. Le stesse facce, lo stesso linguaggio, la stessa animosità isterica. Di peggio c’erano solo quello smagamento, quella delusione, quell’aria stagnante di un Paese che non pareva disposto a pagare il prezzo delle riforme». Ancora una volta appare Brontocefalo – rivelandosi «lo specchio di tante anime in cerca di destino» – per suggerire al nostro l’ultima terapia, quella definitiva: il disincanto. Una terapia che, siamo certi, l'autore non ha intenzione di seguire.
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