martedì 23 ottobre 2007

Le lance spezzate, a giorni in libreria il secondo libro di Salvatore Santangelo (prefazione di Piero Visani)

A giorni sarà in distribuzione il secondo libro di Salvatore Santangelo, Le lance spezzate (Nuove Idee).
Nell'invitare tutti alla lettura del volume, pubblichiamo con piacere in anteprima la bella prefazione scritta da Piero Visani.
A Salvatore rivolgiamo l'augurio di "bissare" e superare il successo dell'ottimo Frammenti di un mondo globale (Nuove Idee).


Quando – come accade a chi scrive – si è più vicini ai sessant’anni che ai cinquanta, fa sempre piacere scoprire che tra le giovani generazioni, tra coloro che potrebbero essere propri figli o quasi, esiste un idem sentire, una sensibilità condivisa per un certo tipo di problemi, un comune interesse per determinate tematiche. Non nutro certo la presunzione di aver svolto un’azione di stimolo in questo senso, visto che ho vissuto gran parte della mia vita matura in deliberato isolamento, ma il vedere che un preciso patrimonio ideale trova nuovi e certo più vigorosi interpreti non mi può che far piacere. Non ho rendite di posizione da difendere e, in uno dei Paesi più gerontocratici del mondo, mi sento di poter dire che “largo ai giovani!”, per quanto politicamente scorretto, sia uno slogan del tutto condivisibile.
Ho accolto quindi come un immeritato attestato di stima la richiesta, che Salvatore Santangelo mi ha rivolto, di scrivere un’introduzione al suo libro Lance spezzate, frutto di una convergente collaborazione ad una rubrica di questioni strategiche che Flavia Perina, Luciano Lanna e Aldo Di Lello hanno inteso a suo tempo inaugurare sulle pagine del “Secolo d’Italia”, dando prova di una grande sensibilità nei confronti di tematiche che la Destra italiana – latamente intesa – ha purtroppo a lungo trascurato.
Non conosco personalmente Santangelo, anche se sono certo che rimedierò presto, ma devo dire che nel suo libro mi sono riconosciuto subito, così come avevo cominciato a riconoscermi nei suoi articoli, nelle non troppo frequenti occasioni in cui i miei pressanti impegni professionali mi avevano consentito di leggerli.
L’aspetto che mi ha più colpito è la sensibilità dell’Autore per il fenomeno bellico, una sensibilità che non è quella grossolana e primitiva dei fautori di una sciocca ostentazione di muscoli, ma è quella avveduta e consapevole di chi sa riconoscere – dietro le parole d’ordine “politicamente corrette” di un flusso mediatico narcotizzato e narcotizzante – come il conflitto permei l’esistenza contemporanea, in forme ben più marcate di quanto si sia disposti ad ammettere, e come esso si manifesti ovunque, dalla conflittualità individuale fino alla guerra guerreggiata, investendo ogni campo della società. Niente male per un giovane cresciuto nella scuola italiana post-sessantottina, dove la tutela dei diritti di libertà è travalicata da tempo nell’accondiscendenza alle più svariate forme di licenza, ma dove il solo “pensare la guerra” o – più semplicemente – non dichiararsi pacifisti appartiene al regno dell’ineffabile, è l’iconoclastia per eccellenza, è il modo migliore per sperimentare sulla propria pelle quanto possa essere severa, con chi non si allinea, la democrazia plebiscitaria (o totalitaria, se si vuol essere più franchi).
La guerra e il conflitto sono ovunque e non appare poi tanto strano che sia così, non foss’altro perché viviamo in un’epoca di unipolarismo statunitense (per quanto in corso di ridimensionamento); un unipolarismo che – anche se i suoi fautori lo negano – è tutt’altro che refrattario all’”esportazione della democrazia” manu militari. Santangelo è lucido nell’individuare i limiti di questa visione strategica e nel denunciarne il carattere scopertamente imperiale (per non dire imperialista). La sua è una polemica in punta di fioretto, molto felpata, ma non per questo meno incisiva, perché si rende perfettamente conto che è quanto meno strano che il “migliore dei mondi possibili” si faccia strada per il pianeta a colpi di “missioni di pace”, “interventi umanitari” e “operazioni di polizia internazionale”, suscitando comprensibili resistenze
Il fatto è che l’Occidente, inteso come Stati Uniti più Europa, più le varie parti del mondo di cultura occidentale, vive immerso in contraddizioni profonde. La prima è che lo si possa considerare un unicum. Si può farlo, ma, in tal modo, si elide il ruolo del Vecchio Continente. Che è davvero vecchio e malconcio, schiacciato non solo e non tanto dalla sua crisi demografica, ma anche e soprattutto dal fatto di essere stato costretto ad assorbire la cultura impostagli dagli americani dopo il 1945 per troncarne ogni velleità futura e di averlo fatto al punto di essere accusato da questi ultimi (ma più per scherno che per davvero) di essere “venusiano”, a fronte dei “marziani” (e marziali) Stati Uniti.
La seconda è che se – a mio avviso più correttamente – si scindono i destini dell’Europa da quelli degli USA – si scopre che la prima non ha alcun interesse ad acquisire una soggettività politica, una sovranità (che comporta inevitabilmente anche la disponibilità di un significativo strumento militare), ma ambisce piuttosto a diventare una sorta di gerontocomio, di paradiso per le vacanze degli anziani, dove la disponibilità di una pensioncina (a volte meritata, a volte frutto di voto di scambio) consente di passare adeguati periodi in qualche pensioncina montana o marina, con una sorprendente circolarità anche semantica. Et les jeux sont faits, nel senso che sono finiti. Finis Europae.
Su questo sfondo, il solo “pensare la guerra” assume caratteri diversissimi se soltanto lo si fa da una delle due sponde dell’Atlantico. Da quella americana, dove ancora esistono – a livello di classi dirigenti – una strategia e degli obiettivi planetari, occorre fare i conti con quella che, in ogni epoca, è stata ed è una costante della dimensione umana, ed occorre recuperarne la visione, spesso esposta agli attacchi di una cultura pacifista tutt’altro che marginale nell’immaginario collettivo statunitense, se non altro perché la classe dirigente ha bisogno di poter contare non solo sugli strumenti classici della potenza imperiale, ma deve ovviamente inserirli in un contesto che spieghi e giustifichi il ricorso ad essi. E ciò chiarisce ad abundantiam il fiorire di studi e saggi sul tema, di cui Santangelo ci fornisce un approfondito quadro.
Dalla sponda europea, per contro, la guerra è un déjà vu, un accidente della Storia ormai relegato nell’album dei cattivi ricordi, uno spiacevole memento (il memento mori di un continente di vecchi di ogni età, terrorizzati dall’idea della morte e ignari del fatto che anche da vivi si può essere six feet under) di un’epoca definitivamente tramontata e che – va detto – nessuno si sogna di recuperare.
Il “pensare la guerra”, dunque, è diventato un esercizio intellettuale riservato quasi esclusivamente agli esperti statunitensi, ma – come l’Autore chiarisce bene in vari punti del libro – essi risultano condizionati dai valori fondanti della loro cultura, dall’amore per le tecnologie, la potenza del fuoco, l’overkilling. Niente di tutto questo, per loro sfortuna, serve davvero ad una potenza imperiale chiamata a confrontarsi con le realtà dei conflitti asimmetrici, con il rifiuto dei deboli di confrontarsi con i forti sui campi di battaglia scelti da questi ultimi, con la frammentazione e parcellizzazione delle guerre in una serie di dimensioni conflittuali (finanziaria, mediatica, terroristica) di cui è chiara soltanto ad alcuni la natura scopertamente polemica e polemogena, dove il ricorso alla sola componente militare è palesemente insufficiente a risolvere i problemi.
Il vero dramma risiede poi nel fatto che, in un’epoca di guerre crescenti e sempre più pervasive, da parte occidentale (termine che non mi piace, ma che uso qui per convenzione) manca la materia prima per affrontarle e vincerle, mancano i guerrieri. I guerrieri non devono essere confusi con i militari, che per esempio negli USA abbondano. Il guerriero non chiede la vittoria, chiede il combattimento. Non è l’esito che lo esalta, è lo scontro in sé. I militari contemporanei, specie in Europa ma anche in America, sembrano dei manager in uniforme e la cultura diffusa nei loro centri di formazione è proprio quella, spesso impartita da docenti civili (!). Guardateli mentre si presentano alle conferenze stampa: snocciolano statistiche, non vanno mai fuori dalle righe, trasmettono una sensazione di freddezza agghiacciante, che c’è da dubitare possa infondere fiducia (non diciamo morale!) alle truppe. Non hanno l’aria di guerrieri, spesso non lo sono per nulla e – fatto decisamente più preoccupante, per soggetti che hanno scelto la professione delle armi – quasi sempre sembrano non tenere granché ad acquisirla. Evidenziano un crollo verticale di identità funzionale.
Il perché è semplice e Santangelo scrive in merito a queste tematiche alcune delle sue pagine migliori: la cultura occidentale ha espulso dal proprio interno la dimensione guerriera e stenta a recuperarla. La crisi è grave, se investe in profondità la stessa istituzione militare. Non si tratta – sia chiaro – di fare sfoggio di inutili esibizioni muscolari da miles gloriosus, ma di farsi portatori in prima persona di una cultura “altra” rispetto a quella dominante, una cultura dove la violenza non è una peculiarità deprecabile delle sacche di disagio metropolitano e dei milioni di emarginati che le popolano, ma un elemento che è indispensabile per la grandezza e la potenza di uno Stato, che può decidere di farne consapevolmente a meno, ma che poi non dovrà lamentarsi se in tal modo vedrà ridotto il proprio ruolo nel mondo, se si vedrà umiliato ed offeso da potenti avversari, se perderà autonomia e sovranità.
L’”eclissi dei combattenti” è una tragica e dolorosa realtà dell’Occidente contemporaneo, frutto di scelte culturali catastrofiche e autolesionistiche, della crescente femminilizzazione della società (per questa affermazione «accetto il “crucifige”, e così sia»…), del tramonto dei tradizionali valori maschili e dei riti di iniziazione e di passaggio che ad essi si accompagnavano, per cui siamo in presenza di giovani generazioni che, con tutta probabilità, non saprebbero più reggere una guerra, il suo peso, le sue tensioni terribili. Ma anche, e forse soprattutto, della sparizione di valori forti, di ideali elevati, di comportamenti virili che ricordino a tutti – e Santangelo non si astiene dal farlo – che «la battaglia è il solo ventre che possa partorire un uomo». Il che sarebbe come minimo un auspicabile inversione di valori all’interno di società che sono malate anche perché hanno lasciato scivolare verso il basso principi come l’etica e l’onore, lasciando per contro spazio agli ipersoggettivismi più corrosivi.
Come Bisanzio, l’Occidente americanizzato e americaneggiante basa le sue conquiste od i suoi tentativi di conquista sulla superiorità tecnologica. Ha successo negli attacchi, come dimostrano i recenti esempi afghano e iracheno, ma è molto più vulnerabile nel controllo dei territori conquistati, dove la tecnologia non serve più a granché e dove sarebbe invece utilissima un’autentica componente guerriera, che manca o che – quando c’è, come nel caso delle forze speciali - è numericamente troppo ristretta per poter risultare significativa. Le lance dell’Occidente sono dunque spezzate – come giustamente suggerisce il titolo dell’opera – non tanto in sé, perché la loro efficacia tecnica resta micidiale, ma perché spezzati ne sono i portatori. La loro identità funzionale ha infatti subito, nel corso degli ultimi decenni, un autentico tracollo, di fatto istituzionalizzato dalla transizione agli eserciti professionali, che in teoria avrebbero dovuto forgiare dei validi combattenti di mestiere e che in pratica si sono trasformati in più o meno ampie burocrazie in uniforme, utilizzate spesso come forme di contenimento della disoccupazione giovanile o come scorciatoie di promozione sociale. Per non parlare del fatto che il crescente impiego dei militari nelle cosiddette missioni di pace ha contribuito a frenare gli entusiasmi di molti, nel bacino potenziale di reclutamento, costringendo gli Stati Maggiori a ricorrere all’ultima risorsa degli imperi in crisi di identità, il reclutamento di stranieri attratti dal miraggio di ottenere la cittadinanza.
Niente di tutto questo sfugge a Santangelo, che scrive alcune delle sue pagine più convincenti affidandosi al filo della memoria, al ricordo della grande tradizione militare europea e ad una giusta rivendicazione di quella italiana. Da Custoza a Lissa, da Dogali ad Adua, da Caporetto all’8 settembre, la storia militare nazionale annovera più sconfitte che vittorie, nonché poderose esibizioni di incompetenza professionale del corpo ufficiali. Ma c’è anche un’Italia diversa, più individualista, capace di sopperire con il bel gesto del singolo alle carenze spesso macroscopiche degli apparati. E l’Autore fa bene a ricordare ed a ricordarci che Caporetto non può occultare le imprese degli arditi, che le rotte africane non possono oscurare gli eroismi della Folgore o dell’Ariete, che l’incapacità (per non dire altro) degli ammiragli non può far dimenticare il forzamento dei porti di Gibilterra e Alessandria d’Egitto.
Per noi italiani, ripensare la guerra significa recuperare una dimensione nuova, da tempo del tutto inesplorata. Una dimensione che appartiene integralmente alla sfera dell’umano e che – trascurata com’è stata – ci ha privato di identità, di memoria e ovviamente di sovranità. Ma ci ha privato pure di energie, di ideali, di motivazioni interiori da spendere nella vita di tutti i giorni, trasformandoci in stanchi, passivi e patetici consumatori indifferenziati di un’esistenza che si trascina senza senso nella sua reiterata e vuota quotidianità.
Santangelo collega giustamente la dimensione del conflitto, in tutti i suoi aspetti, all’universo del Sacro, per il tipo di trascendenza che essa impone a tutti coloro che consapevolmente la pratichino e ne individua altrettanto correttamente valenze e implicazioni in termini di autodisciplina, controllo interiore, (ri)scoperta di mondi sconosciuti. Il fatto che essa sia stata espulsa dalla cultura dominante non ha risolto alcun tipo di problema, non ha diminuito il livello di violenza di cui le nostre società sono permeate, anzi lo ha aumentato, mentre ha indebolito gravemente la forza del potere statale, ponendolo alla mercé di qualsiasi tipo di nemico e di offesa.
È indispensabile che, in una visione politico-culturale che definirei di Destra (termine che mi piace pochissimo) solo per convenzione, queste problematica vengano finalmente affrontate e riportate alla posizione centrale che loro compete. Santangelo ha il merito di farlo in questo libro riuscendo perfino ad avere ragione di quel minimo di frammentarietà che può derivare dalla raccolta sia pure parziale di articoli di giornale. Lo fa con uno stile sempre pacato, ricco di argomentazioni e denso di citazioni, che dimostrano una grande conoscenza della materia.
L’auspicio è che esso possa servire ad avviare un dibattito ed a farlo nei termini corretti, vale a dire riferiti non tanto alla mancanza degli strumenti e delle risorse atte a garantirci di riacquisire una dimensione militare, ma all’inesistenza delle scelte culturali e valoriali atte a garantirne – gramscianamente, cioè in via preliminare – la legittimazione funzionale. A fare sì, in una parola, che il polemos diventi logos. È un compito talmente arduo, nel quadro culturale nazionale, che credo stimoli Santangelo non meno di quanto stimola me. Consideriamoci iscritti d’ufficio a un nuovo Fight Club.
PIERO VISANI
Salvatore Santangelo (nella foto) nasce a L’ Aquila nel 1976. Giornalista professionista, è redattore del mensile Area, membro del comitato di redazione del quadrimestrale di geopolitica e globalizzazione Imperi e collaboratore del quotidiano Secolo d’Italia. Ha partecipato a diversi volumi collettivi Dizionario del mondo fantastico (Milano, Bompiani, 2003) e Teocrazia tra modernità e tradizione (Roma, Settimo Sigillo, 2003). Nel 2005 ha pubblicato Frammenti di un mondo globale (Nuove Idee). Oltre a quella giornalistica, svolge un’ intensa attività di consulenza nel settore del marketing e della comunicazione, per alcune importanti imprese nazionali. È stato consigliere dell'ex Ministro delle politiche agricole e forestali On. Gianni Alemanno.

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