lunedì 19 novembre 2007

Aiuto, la tv ha scoperto che i cantanti fanno audience (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 18 novembre

Questo è un allarme. Che di sicuro non basterà a risolvere il problema, ma che intanto va lanciato. Dopo il “successo” della fiction dedicata a Rino Gaetano, infatti, c’è il fondatissimo rischio che quelli della tivù si siano convinti di aver trovato un nuovo filone, da sfruttare intensivamente. Per loro, che venerano l’Auditel come un dio (un feticcio) e che non contemplano nessun altro criterio di giudizio al di fuori dei dati di ascolto, la tentazione è pressoché irresistibile. La prima puntata di Ma il cielo è sempre più blu ha fatto registrare poco più di sei milioni di spettatori, la seconda si è fermata a un soffio dai sette. Wow! Tra il 26 e il 27 per cento di share. Vittoria netta nel “prime time”. Festa grande, per chi si preoccupa solo dei numeri. Per chi, come sottolineò a suo tempo Giorgio Gori, allora direttore di Canale 5, ha innanzitutto il compito di “vendere spettatori alla pubblicità”.
Cosa volete che gliene importi, allora, se il ritratto di Rino Gaetano, e degli anni Settanta, è degenerato nella caricatura? Se la sceneggiatura era fiacca e la regia di routine? A tutti quelli che, giustamente, hanno contestato le distorsioni della vicenda televisiva rispetto alla realtà biografica, gli artefici della fiction hanno replicato che il loro era un “libero adattamento”. La sorella maggiore di Rino, Anna, dichiara di non riconoscere il fratello «se non in alcuni flash». Agostino Saccà, responsabile di RaiFiction, replica, nel modo più apodittico, che «non abbiamo tradito Rino Gaetano». Marco Turco, il regista, puntualizza che «prima di sceneggiare abbiamo approfondito la ricerca, intervistato la sorella, gli amici».
Ma questa, semmai, è un’aggravante: se ti documenti a fondo e poi fai quel che ti pare, disseminando elementi arbitrari a go-go, non hai nessuna scusa. Men che meno quella dell’invenzione “drammaturgica” che servirebbe a rendere più chiara, attraverso l’aggiunta di dettagli falsi e di avvenimenti mai accaduti, la personalità del protagonista. Mai sentito parlare di Truman Capote, illustrissimi Agostino Saccà e Marco Turco? Mai letto il suo A sangue freddo? La sfida di Capote fu scrivere un grandissimo romanzo attenendosi scrupolosamente ai fatti. Il suo trionfo fu non aggiungere nulla di inventato; ma moltissimo di creativo. La letteratura come intelligenza di ciò che all’origine è nascosto. L’arte come capacità di trasmettere emozioni, riflessioni, verità, tirando fuori l’essenza di una storia. Guarda caso, la strage della famiglia Clutter, che ebbe luogo in un remoto paesino del Kansas nel novembre del 1959, non era famosa prima del romanzo di Capote, ma tutt’al più lo divenne dopo. Truman, che nella vita privata era un concentrato di debolezze ma che sul piano artistico non si concedeva il più piccolo alibi, non si interessò alla vicenda perché era promettente come richiamo pubblicitario. Non andò fino a Holcomb, “una zona desolata che nel resto dello stato viene definita ‘laggiù’ ”, per raccattare una terribile pagina di cronaca nera e farne il battistrada di un instant book a presa rapida. Truman spese quasi sei anni della sua vita pur di penetrare il più a fondo possibile nella mente degli assassini. Non si accontentò di saperne quanto bastava a mettere insieme un libro efficace. C’era ben altro in gioco. C’era una verità che aspettava di essere inseguita, scandagliata, compresa. E restituita ai lettori. Restituita-ai-lettori. Non ammannita a telespettatori di bocca buona, che gli va bene tutto “tanto è gratis”.
Va usata con estrema cautela, la forza comunicativa della tivù. Va usata, andrebbe usata, chiedendosi sempre se si stia agendo a favore dell’intelligenza o della stupidità, della sincerità o della mistificazione. Non è questione di complessità o di semplicità. Si può essere immediati spingendosi in profondità e insopportabili cincischiando in superficie. Il vizio peggiore – quello che in nessun caso può essere perdonato – è la banalizzazione. E la prima forma di banalizzazione è la rinuncia preventiva a utilizzare un linguaggio che sia anche solo un po’ innovativo, rispetto ai luoghi comuni della comunicazione di massa.
E’ tutto qui, il paradosso delle fiction sugli artisti e, più specificamente, sui cantautori italiani. Salvo rarissime eccezioni, ciò che li rende affascinanti non è affatto quello che hanno vissuto in prima persona, ma il modo in cui lo hanno trasfigurato nelle proprie opere: mischiando insieme fantasia ed esperienza, rivestendo il piombo degli avvenimenti reali con l’oro zecchino dell’immaginazione. Della comprensione che trascende l’individuo e tende a diventare universale.
Ciò che conta è quello che hanno saputo creare, non certo i fatti (o i fatterelli) cui si sono ispirati. Fabrizio De André – che insieme a Giorgio Gaber, temo, è il più probabile candidato a una rilettura televisiva – lesse su un quotidiano ligure della morte accidentale di una giovane prostituta e ne tirò fuori un capolavoro come “La canzone di Marinella”. Cosa ci farebbe vedere la fiction, per rievocare il momento magico dell’ispirazione? Fabrizio che prende il mano il giornale e che lo sfoglia distrattamente? Che all’improvviso si sofferma su quelle poche righe (primo piano sul trafiletto, voce fuori campo che legge lo scarno resoconto) e che infine, pensoso, alza gli occhi e guarda lontano (cambio di scena, lui sul palco della Bussola che canta il celeberrimo brano)?
Ecco, egregi Capoccioni della Fiction, accortissimi demiurghi dell’immaginario tivù, se proprio dovete insistere, sul filone cantautori, cominciate con un paio di puntate su Enzo Jannacci. Pensate: c’è da rievocare la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta, l’avvento del rock’n’roll, il cabaret del Derby, le lotte studentesche e quelle operaie. Stuzzicante, vero?
Vero. Ma proprio in apertura, con le parole che scorrono su fondo scuro, metteteci il prologo di “Quelli che”. Ricordate? “La televisiun la g'ha na forsa de leun. La televisiun la g'ha paura de nisun. La televisiun la t'endormenta cume un cuiun”.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”. Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

I signori che stanno nelle stanze dei bottoni in Rai si sono fatti due conti e hanno capito che la Fiction grazie a sponsor e interruzioni rende molto di più di un film in prima e in seconda serata visto che l'utente può benissimo sottoscrivere l'abbonamento a Sky o al digitale per un buon film. La mia impressione è che piano piano i bei film non li vedremo più ma solo spettacoli (contenitori serali e pomeridiani), telegiornali e fiction. Se poi ripenso alle Fiction sulle foibe, sul grande Torino, Salvo D'Acquisto, Moscati, Guerra e Pace (che mi sono rifiutato di vedere) e il recente Rino Gaetano mi verrebbe voglia di procedere legalmente contro i vertici Rai