martedì 6 novembre 2007

Fate un'offerta, signori. E scaricate il nostro nuovo cd (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 4 novembre

Un giorno, forse, la ricorderemo come una decisione storica. La mossa d’apertura di una partita che, se verrà vinta dagli alfieri del cambiamento, rivoluzionerà definitivamente i rapporti tra chi fa musica e chi la ascolta, eliminando alla radice il problema dei prezzi troppo elevati dei cd. E, quindi, la causa stessa della (cosiddetta) pirateria discografica.
La trovata, tanto più brillante per la sua assoluta semplicità, si chiama “Up to you” (“Sta a te”), ed è dovuta ai Radiohead, una delle più importanti band emerse dalla scena internazionale negli anni Novanta. Invece di limitarsi a distribuire il loro nuovo album nei negozi, o a metterlo on line per consentire di scaricarlo a pagamento, Thom Yorke & Co. si sono spinti agli estremi limiti della libertà di fruizione. Dal 10 ottobre scorso il nuovo album, intitolato “In Rainbows”, si può scaricare liberamente dal sito del gruppo, con tanto di copertina e corredo grafico in formato digitale. Dopo di che, se si intende pagare si paga, fissando da soli la cifra che si vuole (o si può) corrispondere. Altrimenti, non si versa nulla e amici come prima. “Sta a te”, appunto.
E’ la morte del mercato discografico, così come lo conosciamo? Ovviamente no – e gli stessi Radiohead, del resto, hanno messo in vendita “In Rainbows” in un cofanetto de luxe al prezzo, ragguardevole, di 40 sterline – ma di sicuro è un’innovazione straordinaria. Che, laddove si diffondesse, permetterebbe di ridiscutere a fondo anche il problema dei diritti d’autore.
All’origine, com’è noto, c’è un principio sacrosanto: tutelare gli autori e gli interpreti (nonché gli editori, ma qui il discorso, specie nel caso delle “majors”, si fa già più scivoloso) dall’indebito utilizzo delle loro opere. Il problema, però, è che con l’andare del tempo si è passati da un estremo all’altro. Se una volta la regola era l’abuso a danno degli artisti, ora si eccede in senso opposto: con la scusa di reprimere i comportamenti illeciti, si espande a dismisura l’idea stessa di illecito. Fino a postulare che sia dovuto un compenso agli autori/interpreti/editori per qualsiasi uso non rigorosamente privato di un’opera altrui. Anche quando, da tale uso, non deriva il benché minimo profitto.
Cominciamo con una provocazione, allora. Siete soprapensiero e aspettate l’autobus, o la metro, o il vostro turno alla cassa di un supermercato. Senza nemmeno rendervene conto, vi mettete a fischiettare uno dei vostri pezzi preferiti. Diciamo “Azzurro”, se avete i vostri begli annetti. O “Albachiara”, se siete più giovani. Voi fischiettate tranquilli (persino gioiosi, perché no?) e la gente intorno vi ascolta. Di buon grado. Il pezzo è carino e voi ve la cavate discretamente. Tutto bene, si direbbe.
Nemmeno per idea.
Non importa che voi lo sappiate oppure no. E non importa neppure che nella vostra distratta, trascurabilissima performance non ci sia nessuno scopo – e nessuna possibilità – di guadagno. Dal punto di vista strettamente (strettamente!) giuridico, voi state comunque violando la legge. Proprio così, cari miei. State infrangendo le norme sul diritto d’autore. Benché in buona fede, state effettuando una “pubblica esecuzione” di opere soggette a copyright. Ergo, se spuntasse uno zelante ispettore della SIAE potreste essere perseguiti. Cavolo: non avete richiesto la prescritta “autorizzazione per l’utilizzazione delle opere protette”. Ed è inutile che cadiate dalle nuvole e diciate che proprio non potevate immaginare che... Vi hanno beccato, belli. Avete ignorato le norme. Siete passibili di denuncia.
Fine della provocazione. Che sembra sconfinare nel paradosso, ma che in realtà non è poi così lontana dal vero. Recentemente, in Scozia, è finita nei guai una società, la Kwick-Fit, che gestisce una catena di laboratori di autoriparazione. Sapete com’è: i meccanici lavorano e, nel frattempo, ascoltano un po’ di musica. Magari ad alto volume, visto che la loro non è esattamente l’attività più silenziosa del mondo. Ed ecco il problema. Arrivano i clienti e si mettono ad aspettare che l’auto sia pronta. Mentre sono lì che aspettano succede che ascoltino a loro volta la musica proveniente dall’officina. Ed ecco la violazione. I clienti in attesa configurano un pubblico. Ergo – afferma ufficialmente la Prs, “Performing Rights Society”, ente deputato a raccogliere i proventi delle royalty e a distribuirle tra i titolari dei diritti – bisognava chiedere il permesso. E pagare quanto dovuto.
Come vedete, la questione esiste davvero. E, se non ci affretta a rientrare nei limiti del buon senso, è destinata a sfociare in interpretazioni assurde. E in controversie speciose. Un conto è impedire comportamenti illegittimi, ben altro è applicare ciecamente, cioè fino alle estreme conseguenze, dei principi che saranno anche condivisibili, sul piano astratto, ma che su quello pratico diventano inaccettabili. Come abbiamo già detto, tutelare gli autori e gli interpreti è sacrosanto, ma a patto di far valere tale protezione nel solo ambito dell’utilizzo commerciale delle loro opere. O vogliamo davvero criminalizzare chiunque per ogni nonnulla?
Purtroppo, il punto di vista delle società produttrici, e della stessa SIAE, sembra essere questo. La loro posizione, il loro dogma, è che l’acquisto di un dvd, o di un cd audio, comporta solo ed esclusivamente la possibilità di utilizzarlo in privato. Vietato duplicarlo. Vietato prestarlo. Probabilmente, se dipendesse da loro, l’ideale sarebbe che l’uso venisse riservato soltanto all’acquirente e a nessun altro che lui. Dài e dài – se il “beau geste” dei Radiohead non servirà d’esempio, spazzando via gli Sceriffi del Prezzo Imposto e dando inizio alla Nuova Era della Libera Offerta – si rischia di arrivare proprio a questo.
Inviteremo parenti e amici a vedere un film o a sentire un disco, beninteso a casa nostra, e ci sarà da pagare un sovrappiù. Tot persone, tot diritti. Le abitazioni come i cinema, come le sale da concerto, come i night. La dura legge del borderò. L’apoteosi della mercificazione.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”. Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sempre magistrale Zamboni!
Al di là di tutto, l'ultimo dei Radiohead è bellissimo, con suoni da rivoltarti i sensi. Va però ascoltato più volte, apprezzato senza distrarsi. Ne sarete appagati.
Insomma: scaricatevello!