Dal Secolo d'Italia di martedì 6 novembre 2007
Paola Mastrocola è una narratrice brava e di successo, categorie non sempre coincidenti. Scrive romanzi bellissimi, oltre che molto venduti e meritatamente premiati. E questo è un dato acquisito. La notizia, semmai, è un'altra: non risulta essersi iscritta al Pd, come molti colleghi italiani. D'altronde, fuori dal giro, l’autrice torinese (classe ’56) c’è sempre voluta rimanere, con ostinazione. E nell’ultimo romanzo, da pochi giorni in libreria, Più lontana della luna (titolo tratto dai versi di Salvatore Quasimodo, Guanda, pagg. 296, euro 16), l’ha messa nero su bianco, raccontando con apprezzabile sincerità il disagio di chi negli anni Settanta riuscì a vivere aldilà del conformismo sinistrese. «La sinistra intellettuale – ha dichiarato in una recente intervista – è un clan chiuso. Si vedono, si leggono e si confrontano tra loro. Guai a proporre punti di vista differenti». E il romanzo descrive meglio di qualsiasi testo di sociologia l’atmosfera surreale di quel periodo e la follia autoreferenziale di chi pretendeva di disegnare il mondo a propria immagine e somiglianza.
Nella giovane Lidia del romanzo, figlia di un operaio della Fiat e di una “verduraia” nella piccola Stupinigi (località a pochi chilometri da Torino) abitata soprattutto da dipendenti della casa automobilistica piemontese – c’è buona parte dell’adolescenza schiva e sognatrice di Paola, l’amore per la poesia e la letteratura (che la scrittrice insegna in un liceo scientifico, cercando di trasmettere passioni più che nozioni), la prospettiva di una povertà dignitosa, ma tutt’altro che glamour, da cui è difficile uscire. «Mi tornava strano che tra tutta quella gente che voleva bene agli operai c’ero solo io che lo ero davvero, figlia di un operaio. Loro avevano sempre la parola operaio in bocca però avevano tutti la casa in montagna. La casa in montagna non era un privilegio borghese?». Borghesia, proletariato, repressione, capitale, autocoscienza, crisi di sistema. Un linguaggio burocratico quanto ossessivo, quello della sinistra radicale, che avrebbe finito per spazzare via, senza lesinare mazzate, l’ala creativa del movimento. «Con loro mi annoiavo a morte. Mi annoiavano le loro parole: erano troppe e sempre uguali, sembravano formule. E non mi piaceva quel loro modo di parlare, sempre truci, arrabbiati, mai un sorriso, una battuta. A voi piace fare politica? Perfetto, fatela. Ad altri piacerà di più leggere poesie o andare a cavallo. Ognuno ha i suoi sogni, le sue passioni, e non è detto che alcune siano meglio di altre, chi lo dice?». Lo dicevano i compagni e non sentivano ragioni. «Se non facevi politica eri una specie di insetto inutile. Ti tiravano contro quelle parole contundenti, o fascista o qualunquista. Facevano male. Soprattutto qualunquista, mi sembrava una parola ingiusta e anche un po’ vigliacca». Ed ecco che la poesia diventava «roba piccoloborghese!».
L’imperativo morale era "lottare" per tante cause internazionali. E naturalmente lottare contro i fascisti. «Alla causa cilena - racconta la protagonista - è vero, non ci pensavo mai. Ai fascisti ancora meno: non capivo dove stavano e chi erano, se per esempio io ne conoscevo qualcuno, e perché ce l’avessero con loro, e la parola fascisti la tiravano fuori di continuo, anche quando non c’entrava niente secondo me». Per la lotta, occorreva munirsi di divisa d’ordinanza, indossare jeans e maglioni peruviani, calzare zoccoli di legno, andare in sede e partecipare ai cortei. Al corteo. Uno si dimostrerà più che sufficiente, tanto che Lidia eviterà di ripetere l’esperienza. «Vidi che stavano spaccando i bastoni delle bandiere e li usavano a mo’ di spade, i gruppi si menavano per avere la testa del corteo. Non mi piaceva che si dicessero frasi del tipo “ti cago sui denti”: erano della stessa parte politica, cos’era questa cosa di combattersi tra gruppi?». Ricordo, quest’ultimo, strappato al marito, il sociologo Luca Ricolfi (autore del divertentissimo pamphlet Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori, Longanesi 2005), e riversato nel romanzo. Convinta da un’amica ad andare nella sede del movimento, Lidia ne esce inorridita. «Portavano tutti l’eskimo, quello con la pelliccetta finta verdemarcio militare. Se non l’avevi, non eri nessuno. Ma questo lo capii dopo. Avevano capelli lunghi e crespi, barbe, baffi, camice larghe di lana a quadri. Mi venne da pensare che chi faceva politica doveva avere i capelli crespi, se no niente. Ma forse era un pensiero qualunquista e io ero una qualunquista dimmerda». Un incubo, tanto orwellianamente diffuso da sembrare reale: «Mi veniva da credere che tutti la pensavano come loro, ed ero io quella sbagliata perché il mondo era fatto tutti di compagni, un’enorme palla del microfono e tutti seduti sopra incappucciati nell’eskimo e intorno migliaia di bandiere rosse piantate a mo’ di stuzzicadenti, che svolazzano al vento della rivoluzione». Poi la scoperta, liberatoria: «Nel mondo c’erano anche persone che giocavano a bowling, andavano in moto, in palestra a farsi i muscoli, Che Guevara e Valpreda non sapevano chi fossero, ma in compenso lavoravano tutto il giorno». Ma Lidia – che nel frattempo ha dovuto lasciare la scuola, sacrificata per l’acquisto di un appartamento, e aiuta la madre al banco di frutta – cerca altro, vuole mettere quanta più distanza possibile da una quotidianità cui si sente profondamente estranea. Non vuole passare la vita ad aspettare, come il padre aspetta che l’azienda gli riconosca la «prima qualifica super». Non vuole farsi il fidanzatino e rassegnarsi alla normalità. Così decide di scappare: «Addio, vado a fare il trovatore!». Qualche responsabilità, al riguardo, ce l’ha l’enciclopedia monumentale acquistata dal padre: trenta volumi, una «gigantesca» rata mensile per diciotto anni esatti. «Il ’68 fu un anno cruciale, si sa: il maggio francese, i carri armati russi che invadono Praga. Per me fu l’anno del venditore di enciclopedie». Su quei voluminosi tomi Lidia scopre Bernart de Ventadom, trovatore provenzale del secolo XII. «Mi colpirono due cose: che fosse figlio di una fornaia e che cantasse l’amore da lontano». Liriche d’amore. «I trovatori scrivevano poesie per donne molto lontane. Non ci vivevano insieme, non si vedevano mai, ma andava bene lo stesso, le amavano da morire, sarebbero morti senza quell’amore. Uomini molto soli, ecco cos’erano i trovatori: soli come cactus nel deserto». Si infiamma per «la storia di un poeta (Jauffré Rudel, ndr) che s’innamora della contessa di Tripoli senza averla mai vista, solo per sentito dire, si fa crociato, così può andare in quei posti e vederla, ma quando arriva a Tripoli si ammala. Riuscirà a vedere la contessa, accorsa al suo capezzale, poco prima di morire, ringraziando Dio». Affascinata da queste letture, decide di partire. «Se in quegli anni un giovane se ne andava di casa, era per fare l’hippy o darsi alla politica». Lidia no, per lei partire significa cercare la giusta distanza per amare. Torna a casa ma fugge di nuovo, stavolta con il cavallo del padre, chiamato Pino «perché alla tivù c’era il carosello del bagnoschiuma Pino Silvestre Vidal con un cavallo bianco che andava al galoppo tra le onde in riva al mare». Inizia così un viaggio tra il reale e la favola che la porterà ad attraversare un’Italia parallela, all’inseguimento del proprio inafferrabile e totalizzante sogno individuale, indifferente a quelli collettivi, alla Storia come alla cronaca, vivendo amori da vicino e da lontano, romantici e meschini, cadendo e rialzandosi. «Saperti amante e non poterti avere… Era il mio slogan». Per un romanzo che, come le opere precedenti, combatte non senza autoironia una appassionata guerra ai luoghi comuni e si dimostra capace di emozionare. Quel che può fare la buona letteratura quando non cerca di convincere il lettore della bontà di una tesi, preconfezionata.
10 commenti:
Questa Mastrocola m'incuriosisce, caro Roberto.
Bell'articolo, il tuo. Molto vero, soprattutto. Ricordo un convegno regionale dei Verdi ad Asti nel 1990 (quindi altroché anni 70...). C'eravamo io e un ambientalista valsusino che era stato comunista e poi cacciato durante i fatti di Praga (quindi con 20 anni più di me, lui). D'un tratto intervenì dalla platea dicendo: qui vi state giocando il consenso popolare, perché rimanete dei demoproletari, siete sempre tristi, sporchi e brutti.
Alcuni di questi, come Vernetti e Viale, col tempo sono diventati più presentabili, adatti ai tempi nuovi. Ma la tristezza non li ha mollati. Gli altri si sono persi, ma quelli dlele nuove generazioni rimangono sporchi e brutti, forse meno tristi ma più patetici.
Alla fin fine se andiamo a vedere i tempi non sono cambiati. Basta pensare all'immensa galassia dei movimenti che da qualche anno contestano i grandi summit internazionali, solo slogan violenza e nessun contenuto
Grazie Claudio. Sono tristi, sì. Ed è triste anche il commento che sul Magazine di oggi l'ineffabile D'Orrico (credo sia attribuibile a lui) riserva al libro della Mastrocola, indicandolo tra i "peggiori della settimana": "L'autrice sbrocca su trovatori & anni '70. Antipaticuccia (di destra?)"
Sì, perchè lui è simpatico.
Imbarazzante la sua intervista a Bobo Vieri :))
E la recensione a Littell. Di una supponenza e un pressapochismo da dilettante. O da parodia del critico, come dicono di lui su PULP.
PS: hai ricevuto la mia mail?
Sì, non ti ho ancora risposto perchè sono stato incasinatissimo. Poi ti dico :)
Nessun problema, volevo solo essere sicuro che la posta funzionasse :))
Riguardo ancora a D'Orrico, credo che ormai sia persino dannoso prenderlo per il culo, dedicandogli pagine intere (pur spassosissime) come fanno su PULP ne "L'angolo della Sfinge".
Credo sia entrato in quella categoria di personaggi che si sono ormai assicurati il basso consenso, per cui se ne parli male, o li sfotti, passi soltanto per invidioso o intellettualoide. Io posso soltanto dire che uno così offende la critica seria. Il libro della Mastrocola ha subito anche delle critiche da parte di altri giornalisti o intellettuali, ma su un piano diverso: c'è chi, ad esempio, ha storto il naso sull'uso di un linguaggio forse un po' troppo fiabesco, con troppe carinerie. Però sono critiche argomentate, focalizzate, non delle boutade in tre righe per attirarsi l'approvazione del lettore.
Come quando ha liquidato Palahniuk in tre righe, dicendo che secondo lui la ragione del suo successo è che il cognome fa rima con il nome. Uno su Palahniuk può pensarla come vuole, e io stesso ho qualche riserva pur apprezzandone alcune cose, ma si tratta di uno scrittore complesso e importante, e per criticarlo bisogna almeno dimostrare d'averlo letto. D'Orrico scrive per Il Corriere della Sera, non per un giornalino di un club. Soprattutto, in quanto "critico" (o aspirante tale) non può colludere col lettore, cercare una complicità col lettore che sarà pure facilitante e foriera di consensi, ma esclude ogni forma di relazione che porti alla conoscenza.
Prenderlo per il culo, purtroppo, significa soltanto scatenare una reazione del tipo: "guarda, lo sfottono perché è diretto e semplice, pensa a noi lettori comuni perché è uno di noi". In realtà, direbbe la Woolf, è proprio D'Orrico a fare un pessimo servizio a The Common Reader. Ma non c'è verso di spiegarlo.
Sono più che d'accordo. Continuo a pensare, però, che i lettori del Corriere meritino qualcosina di più.
:))
Caro Roberto
visto che ho letto almeno UN articolo?!? Però devo dirtelo...
Tu sei un venditore eccezionale. Perchè fai leva sulla curiosità. Non vale! Tu mi incuriosisci!!! E mi viene voglia di cambiare prospettiva, il che non è strano, perchè io che sono di sinistra, io non voglio essere inglobata in un blob con paraorecchi/naso/bocca ). Ho visto Mio fratello è figlio unico ma prima o poi leggerò il libro.
Mi sono fatta regalare Celine (non dico che l'ho letto...avevo troppi esami). Mi sa che proverò a guardare anche questo libro consigliato, intanto lo metterò lì sul comodino. Per avere sempre un progetto. Per non morire senza aver provato anche questo. Per non morire nel cervello.
Grazie caro amico
N.B.
Grazie a te, Nicoletta! :)
Posta un commento