venerdì 28 dicembre 2007

Architetti a lezione di futurismo (di Filippo Rossi)

Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di giovedì 27 dicembre 2007

Il secondo dopoguerra ha lasciato agli italiani una di quelle eredità che nessuno vorrebbe scoprire di aver ricevuto all’apertura di un testamento: un’eredità che ci è cresciuta tutt’intorno,
lentamente, come un cancro che distrugge il corpo di un vecchio, quasi senza accorgersene, nell’attesa della morte. Un’eredità, la cattiva architettura, che ha bestemmiato l’essenza stessa dell’identità italiana, distruggendo il paesaggio esteriore e, ancora più grave, quello interiore. Perché ci ha disabituato a pensare la bellezza nell’ambito della modernità, ci ha disabituato a sognare un futuro che sappia costruire attorno alla vita delle persone nuove cattedrali, nuovi castelli, nuove città, nuove utopie. E così gli italiani, per colpa di una classe politica senza coraggio, senza cultura e senza decisionismo, si sono ritrovati con una cultura architettonica (che è cultura politica per antonomasia) divisa tra i deliri bucolici alla Adriano Celentano e la nostalgia obbligata per quel “fascismo di pietra” descritto dallo storico Emilio Gentile nel suo ultimo libro. E così, dopo più di sessant’anni, ad esempio, si ritrova come unico simbolo della sua modernità l’Eur di mussoliniana memoria. Eppure, l’architettura per essere tale, come ha spiegato Massimiliano Fuksas sul mensile della Fondazione Farefuturo, «deve riuscire a progettare il futuro attraverso i sogni, attraverso simboli che rappresentino il nostro passaggio in questo mondo». Purtroppo – denuncia ancora Fuksas – oggi manca completamente questa capacità di lasciare il segno «a causa di una terribile frattura nella cultura italiana che comporta le nostre enormi difficoltà nel saper progettare il futuro».
«Voglio porre l’architettura – ha recentemente dichiarato anche il presidente francese Nicola Sarkozy – al centro delle nostre scelte politiche: l’architettura ha un ruolo primario nel destino individuale e collettivo degli uomini». È anche per queste ragioni che la coraggiosa mostra «Astronave Torino» (Al Miaao di Torino ancora fino al 6 gennaio) ha un’importanza strategica per le nuove sfide della cultura (e della politica) italiana. La mostra segna il take-off, l fase di decollo verso “Afterville”, rassegna di manifestazioni ufficialmente collegate al prossimo Congresso Mondiale degli Architetti che si terrà nel 2008 al Lingotto e dedicate alle interferenze concettuali e figurative tra il pensiero progettuale e l’immaginario della fantascienza nel ’900.
«Astronave Torino» descrive, secondo un progetto elaborato da Enzo Biffi Gentili e Luisa Perlo, un particolare sviluppo del tema della città futura o post-città, attraverso la ricostruzione di momenti inediti o rimossi di ricerche e sperimentazioni “spaziali”, nei settori dell’architettura, della pittura, del design e dell’artigianato metropolitano, tutte collegate direttamente o indirettamente a una “eccentrica” ma vitalissima storia culturale di Torino. «Siamo convinti – spiega Enzo Biffi Gentili sul sofisticato magazine- catalogo dell’intera iniziativa – che tra le referenze passate da esibire a un pubblico internazionale occorra mostrarne alcune inconsuete e persino, per taluni “impresentabili”». E così nella mostra sono ricostruite e documentate, per reperti e campioni, quattro tappe di un viaggio culturale verso le città del futuro: i disegni di architettura nucleare e di urbanistica spaziale degli anni Cinquanta di Enzo Venturelli (Torino 1910-1996), interessantissimo e non abbastanza riconosciuto architetto espressionista e fantascientifico; una curiosa iconografia astrale originata da Pianeta, l’edizione italiana pubblicata a Torino della rivista francese Planète di Louis Pauwels, padre insieme a Jacques Bergier del “realismo fantastico”, fenomeno culturale europeo degli anni ’60, i cui contenuti hanno ispirato altre successive mitiche riviste come Wired; le macchine del tempo della Mutoid Waste Company, come il “Tempio metalmeccanico” da loro eretto alla Cavallerizza Reale nel 2002 in una perturbante performance “metalmeccanica” in occasione delle Celebrazioni del Centenario dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902; i modelli, tra science fiction e grotesque, prodotti da un attivissimo milieu torinese-internazionale di architetti-artisti come Marco Patrito, autore della famosa multimedia graphic novel Sinkha, e Tullio Rolandi, mago di rendering futuribili; di artisti come Michele Guaschino con i suoi mostri e German Impache con le sue astronavi; di eclettici come l’editore e autore Vittorio Pavesio e l’artigiano metropolitano Bruno Petronzi.
Una mostra, insomma, in nome di una “promiscuità intellettuale”, di un “azzardo immaginifico”, che non può che far bene a una cultura italiana. La fantascienza come nuovo futurismo che sappia aiutare a fuggire dalla nostalgia di maniera e dalla retorica della “via Gluck”: «Esiste una soglia oltre la quale – spiega Riccardo Bedrone (foto a sinistra), presidente del Congresso mondiale degli architetti – cessa di essere solo fiction e diventa anche progetto». Progettare i sogni, si diceva, per costruire città con l’anima: «Lo spirito di Afterville è di comunicare immagini della città di domani. In controtendenza rispetto alle generic city contemporanee – spiega ancora Bedrone – la fantascienza ha diffuso scenari metropolitani procedendo per aggiunte e stratificazioni. Capitali moderniste slanciate verso l’alto, tessuti disomogenei pulsanti di luci e forme, grappoli di infrastrutture dalle geometrie sovrapposte e incombenti. Oppure la «Città che sale», come la immaginavano i futuristi all’inizio del secolo scorso. Territori urbani sognati, teorizzati, progettati, disegnati e modellati dal nulla... La configurazione della polis del futuro, in realtà, dice molto del presente: dietro lo sforzo immaginativo degli autori di scienze fiction si celano la tradizione letteraria, l’inconscio collettivo e l’ipotetica evoluzione delle funzioni sociali della contemporaneità».
Un’architettura che fondi le suoi pilastri culturale nel miraggio dei mille futuri possibili, è questo il coraggio che serve all’Italia per uscire dal pantano delle piccole esigenze quotidiane, delle palazzine di periferie, dei quartieri e delle strade senza anima, dei tetti spioventi, delle colonne posticce. Perché costruire nuove città, nuovi quartieri, nuovi spazi urbani è come costruire nuove cattedrale: serve il coraggio dell’ignoto, l’avventura del misterioso. Come dicevano Marinetti e Fillìa nel loro Manifesto dell’arte sacra e futurista: «Soltanto gli artisti futuristi ansiosi di originalità a ogni costo e sistematici odiatori del già visto, possono dare al complesso plastico la potenza di sorpresa magica necessaria per esprimere miracoli.». Ed è proprio di questa voglia di miracoli, di questa modernità con l’anima, che le città italiane hanno bisogno per dare il via a un nuovo rinascimento nazionale, per uscire dalla cultura della paura che, trasversale, blocca ogni speranza di rigenerazione. Verrebbe da dire, visitando la mostra torinese: l’architettura o è futurista o non è; o è sognatrice o non è; o è azzardo o non è; o è vitalità o non è. È tutta qui la sfida che la politica deve accettare per non morire di inutilità manifesta: serve un “realismo magico” per rifondare nuove città su quelle nate dalla tragedia culturale di un dopoguerra palazzinaro e incolto. Costruire il futuro senza farsi bloccare dalla paura del futuro: e per fare questo, l’architettura e la politica devono riconquistare il diritto assoluto alla libertà d’immaginazione. E di decisione. In nome della bellezza della modernità. "Soltanto gli artisti futuristi elettrizzati di ottimismo colore e fantasia possono precisare in un’opera d’arte sacra la beatitudine del paradiso", diceva Marinetti. Vale anche per le città del nostro futuro prossimo venturo. Tutte ancora da pensare. Con ottimismo e fantasia. Perché – spiega Fuksas – «progettare è sognare». Per un nuovo “tempo delle cattedrali” quando – come fa cantare Riccardo Cocciante nella sua Notre Dame de Paris – «la pietra si fa statua musica e poesia, e tutto sale su verso le stelle, su mura e vetrate, la scrittura è architettura».
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".

1 commento:

Unknown ha detto...

grazie
enzo biffi gentili