Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 23 dicembre 2007
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 23 dicembre 2007
È un pregio? È un difetto? Passano gli anni (i decenni...) e la musica di Mark Knopfler rimane perfettamente uguale a se stessa. Una miscela deliziosa ed equilibratissima alla quale non si può rimproverare niente, se non di utilizzare sempre i medesimi ingredienti e di sprigionare sempre le medesime fragranze. Mettiamola così: ci sono artisti che ti chiedono di seguirli in giro per il mondo, magari imponendoti viaggi faticosi e dagli esiti incerti, e altri che ti invitano nella loro tenuta di campagna. Poi, se accetti l’offerta e li vai a trovare, ti conducono volentieri di qua e di là, tra terreni ben curati e dolci ondulazioni, lungo placidi corsi d’acqua che portano a un laghetto minuscolo, ma incantevole. Il massimo dell’imprevisto si riduce a un temporale fuori programma. Il massimo del brivido all’accenno, carico di suggestione, venato di scetticismo, a qualche vecchia storia un po’ strana, e tuttora inspiegabile.
Mark Knopfler appartiene alla seconda categoria. Sa quello che vuole e lo ottiene, ogni volta, con ammirevole sicurezza. I ferri del mestiere li padroneggia a menadito: la chitarra è morbida, ma tutt’altro che molle; la voce è misurata, ma tutt’altro che monocorde. Anche ignorando i suoi trascorsi con i Dire Straits, si capisce benissimo che la sobrietà è una scelta deliberata. La chitarra potrebbe impennarsi e volare ad alta velocità, nel consueto omaggio rock al Dio dell’Assolo, e il ritmo potrebbe accelerare e tendersi ben più di quanto non avvenga. Ma con quali vantaggi?
Il gioco di Knopfler è volutamente diverso. Meno appariscente, come si conviene agli adulti. Più sereno, come si conviene a chi si è liberato del bisogno di stupire. La sfida non è scovare soluzioni inedite, ma infondere nuova vitalità, nuova bellezza, a quello che già si conosce. Kill to Get Crimson non fa eccezione. Dopo il sodalizio con Emmylou Harris, che l’anno scorso era sfociato in All the Roadrunning, Knopfler torna padrone assoluto della scena. Ma le differenze sono blande, e non è certo una sorpresa. In fondo, anche se presentata su un piano di assoluta parità, per lo più la Harris si limitava a impreziosire i pezzi con la sua voce: un’ospite graditissima, ma pur sempre un’ospite. Il padrone di casa era e resta lui. E infatti, stavolta, l’invito è soltanto a suo nome.
F. Z.
(Mark Knopfler – “Kill to Get Crimson” – 2007)
Mark Knopfler appartiene alla seconda categoria. Sa quello che vuole e lo ottiene, ogni volta, con ammirevole sicurezza. I ferri del mestiere li padroneggia a menadito: la chitarra è morbida, ma tutt’altro che molle; la voce è misurata, ma tutt’altro che monocorde. Anche ignorando i suoi trascorsi con i Dire Straits, si capisce benissimo che la sobrietà è una scelta deliberata. La chitarra potrebbe impennarsi e volare ad alta velocità, nel consueto omaggio rock al Dio dell’Assolo, e il ritmo potrebbe accelerare e tendersi ben più di quanto non avvenga. Ma con quali vantaggi?
Il gioco di Knopfler è volutamente diverso. Meno appariscente, come si conviene agli adulti. Più sereno, come si conviene a chi si è liberato del bisogno di stupire. La sfida non è scovare soluzioni inedite, ma infondere nuova vitalità, nuova bellezza, a quello che già si conosce. Kill to Get Crimson non fa eccezione. Dopo il sodalizio con Emmylou Harris, che l’anno scorso era sfociato in All the Roadrunning, Knopfler torna padrone assoluto della scena. Ma le differenze sono blande, e non è certo una sorpresa. In fondo, anche se presentata su un piano di assoluta parità, per lo più la Harris si limitava a impreziosire i pezzi con la sua voce: un’ospite graditissima, ma pur sempre un’ospite. Il padrone di casa era e resta lui. E infatti, stavolta, l’invito è soltanto a suo nome.
F. Z.
(Mark Knopfler – “Kill to Get Crimson” – 2007)
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”. Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.
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