Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 9 dicembre 2007
De Gregori sforna il nuovo album, che è poi l’ennesimo live della sua lunghissima, ultra trentennale carriera, e ci aggiunge un dvd: con ampi spezzoni di concerto e, soprattutto, con una sua lunga, interessantissima chiacchierata con Renato Nicolini.
A prima vista potrebbe sembrare solo una specie di gadget. Uno di quei classici “contenuti extra” che si ritrovano nei dvd: il commento del regista, l’intervista con le star, i retroscena della produzione. L’occasione, a costo zero, di saperne un po’ di più su quello che si cela dietro il risultato finale. Come si fa a far volare gli eroi di Matrix? Quanto c’è di vero nella storia del Gladiatore? Stanley Kubrick era davvero un despota che tiranneggiava gli attori?
Curiosità spicciole. Ma anche domande vere, che non si limitano alla superficie, o che si accontentano di inseguire (acchiappare) l’aneddoto più o meno memorabile, ma che mirano a comprendere cosa si muove nelle profondità della mente, e del cuore, degli artisti. Cosa li spinge a fare certe scelte. Cosa li ha portati a optare, tra innumerevoli soluzioni, per quella che è diventatala versione finale.
Nei dvd cinematografici, appunto, è ormai una consuetudine. Uno standard. Spesso e volentieri gli “extra” sono così cospicui da richiedere un secondo disco, in aggiunta a quello col film. E lo stesso, analogamente, avviene per i dvd di carattere musicale. Da una parte il concerto, dall’altra ogni genere di supplementi. Fino a far sì, a volte, che il contorno (o il dessert...) risulti persino più gustoso del piatto principale. Più caratteristico. Più sorprendente. Più rivelatore.
Il mercato discografico, al contrario, è rimasto indietro. Salvo rare eccezioni, che solo adesso cominciano a moltiplicarsi, si è continuato a procedere come se negli ultimi decenni, a parte il passaggio dal vinile al cd, non fosse accaduto nulla di nuovo. Come se, all’appassionato di musica, potesse e dovesse bastare il solo prodotto audio: il solito mazzetto di canzoni e, tutt’al più, il corredo di un albumetto coi testi e con qualche fotografia, inevitabilmente immiserita dal formato “14 x 13” della custodia.
Assurdo. E anche stupido, in fin dei conti. Di fronte al dilagare della pirateria vera e propria, ma anche della circolazione via Internet di materiali sonori e visivi di ogni genere, la contromisura non è affatto la repressione penale incentrata sul culto del copyright. L’antidoto è la commercializzazione di prodotti migliori a prezzi più competitivi: e i contenuti speciali, guarda caso, sono la più agevole delle integrazioni, visto che non costano quasi nulla e, di contro, accrescono la conoscenza degli artisti da parte del pubblico, rafforzando il legame e il rispetto reciproco. Più si esce dagli schemi del marketing – coi musicisti puttane e i discografici magnaccia (e con noi acquirenti nei panni della clientela, ovvero dei gonzi da spennare) – e più si contrasta l’attuale tendenza a ridurre tutto a una gara forsennata, e senza esclusione di colpi, a chi frega l’altro. A chi riesce a ottenere di più dando in cambio di meno. Ma non solo. Anche lasciando da parte le implicazioni economiche, pur così rilevanti sul piano etico, e così qualificanti su quello culturale, l’aggiunta di contenuti extra ai normali cd musicali è una grande, preziosissima opportunità di carattere artistico. O, quanto meno, comunicativo. Soprattutto per chi non si limita al mero intrattenimento, l’opera d’arte non è che la punta di diamante di un processo più ampio. L’obiettivo è esprimersi. Far arrivare ad altri le proprie idee, le proprie emozioni, quello che si ha dentro e che si riverbera, che si traduce, in una particolare visione della realtà. Bastano le canzoni, per riuscirci? Forse sì, ma almeno qualche parola vale comunque la pena di aggiungerla. Qualche chiarimento, qualche spiegazione, qualche sottolineatura. E molti cantautori, infatti, lo fanno abitualmente già sul palco: vuoi con le lunghe presentazioni di Guccini, sempre in bilico tra l’ampio affresco dell’affabulazione e la pennellata secca della battuta, vuoi con le annotazioni discontinue, ma ricorrenti, di tantissimi altri.
De Gregori, invece, tende ad astenersi. Ma più per riserbo, si direbbe, che non per timidezza. Più che per una forma di alterigia, che se c’è stata in passato sembra ormai lasciata alle spalle, per il timore di finire invischiato nel clichè dell’artista che blandisce il pubblico, a cominciare dall’abusatissima pantomima dei pezzi cantati in coro, e che in cambio ne è a sua volta coccolato in maniera indiscriminata: fino al punto in cui la stima cambia in affetto e l’apprezzamento artistico, che andrebbe rinnovato caso per caso, si stempera in una vicinanza emotiva che vive di vita propria e che si autoalimenta, chiedendo solo di essere (almeno un po’) ricambiata.
A De Gregori, giustamente, tutto questo ripugna. Per quanto l’affetto della gente possa fargli piacere, la priorità resta quella di costruire, e preservare, un rapporto corretto con i suoi ascoltatori. Un rapporto che sia il più possibile circoscritto alla dimensione artistica. «Quanto ti interessa sapere chi ti ascolta?», gli domanda Nicolini. «Preferisco – dice De Gregori – che il pubblico sia per me un oggetto misterioso. Non cerco di decifrare il mio pubblico. Sono io l’oggetto da decifrare». E ancora: «Credo che ci debbano essere questi due piani: da un lato l’artista che sta sul palco e, dall’altro, il pubblico che sta in platea».
Giustissimo. Come tutto quello che va nella direzione di un superamento dell’abituale dicotomia tra emozione e riflessione, tra il piacere istintivo dell’arte per tutti e l’impegno faticoso della critica per pochi. Anche ammesso che non nasca esattamente da questa consapevolezza, l’idea di alternare i filmati delle esibizioni dal vivo e gli spezzoni dell’intervista si rivela azzeccatissima. Il divertimento dello show e la lucidità dei ragionamenti: due capi di una corda che va annodata di nuovo. Per stringerla, per tenerla stretta, con la massima cura.
(Francesco De Gregori,“Left & Right”, 2007)
A prima vista potrebbe sembrare solo una specie di gadget. Uno di quei classici “contenuti extra” che si ritrovano nei dvd: il commento del regista, l’intervista con le star, i retroscena della produzione. L’occasione, a costo zero, di saperne un po’ di più su quello che si cela dietro il risultato finale. Come si fa a far volare gli eroi di Matrix? Quanto c’è di vero nella storia del Gladiatore? Stanley Kubrick era davvero un despota che tiranneggiava gli attori?
Curiosità spicciole. Ma anche domande vere, che non si limitano alla superficie, o che si accontentano di inseguire (acchiappare) l’aneddoto più o meno memorabile, ma che mirano a comprendere cosa si muove nelle profondità della mente, e del cuore, degli artisti. Cosa li spinge a fare certe scelte. Cosa li ha portati a optare, tra innumerevoli soluzioni, per quella che è diventatala versione finale.
Nei dvd cinematografici, appunto, è ormai una consuetudine. Uno standard. Spesso e volentieri gli “extra” sono così cospicui da richiedere un secondo disco, in aggiunta a quello col film. E lo stesso, analogamente, avviene per i dvd di carattere musicale. Da una parte il concerto, dall’altra ogni genere di supplementi. Fino a far sì, a volte, che il contorno (o il dessert...) risulti persino più gustoso del piatto principale. Più caratteristico. Più sorprendente. Più rivelatore.
Il mercato discografico, al contrario, è rimasto indietro. Salvo rare eccezioni, che solo adesso cominciano a moltiplicarsi, si è continuato a procedere come se negli ultimi decenni, a parte il passaggio dal vinile al cd, non fosse accaduto nulla di nuovo. Come se, all’appassionato di musica, potesse e dovesse bastare il solo prodotto audio: il solito mazzetto di canzoni e, tutt’al più, il corredo di un albumetto coi testi e con qualche fotografia, inevitabilmente immiserita dal formato “14 x 13” della custodia.
Assurdo. E anche stupido, in fin dei conti. Di fronte al dilagare della pirateria vera e propria, ma anche della circolazione via Internet di materiali sonori e visivi di ogni genere, la contromisura non è affatto la repressione penale incentrata sul culto del copyright. L’antidoto è la commercializzazione di prodotti migliori a prezzi più competitivi: e i contenuti speciali, guarda caso, sono la più agevole delle integrazioni, visto che non costano quasi nulla e, di contro, accrescono la conoscenza degli artisti da parte del pubblico, rafforzando il legame e il rispetto reciproco. Più si esce dagli schemi del marketing – coi musicisti puttane e i discografici magnaccia (e con noi acquirenti nei panni della clientela, ovvero dei gonzi da spennare) – e più si contrasta l’attuale tendenza a ridurre tutto a una gara forsennata, e senza esclusione di colpi, a chi frega l’altro. A chi riesce a ottenere di più dando in cambio di meno. Ma non solo. Anche lasciando da parte le implicazioni economiche, pur così rilevanti sul piano etico, e così qualificanti su quello culturale, l’aggiunta di contenuti extra ai normali cd musicali è una grande, preziosissima opportunità di carattere artistico. O, quanto meno, comunicativo. Soprattutto per chi non si limita al mero intrattenimento, l’opera d’arte non è che la punta di diamante di un processo più ampio. L’obiettivo è esprimersi. Far arrivare ad altri le proprie idee, le proprie emozioni, quello che si ha dentro e che si riverbera, che si traduce, in una particolare visione della realtà. Bastano le canzoni, per riuscirci? Forse sì, ma almeno qualche parola vale comunque la pena di aggiungerla. Qualche chiarimento, qualche spiegazione, qualche sottolineatura. E molti cantautori, infatti, lo fanno abitualmente già sul palco: vuoi con le lunghe presentazioni di Guccini, sempre in bilico tra l’ampio affresco dell’affabulazione e la pennellata secca della battuta, vuoi con le annotazioni discontinue, ma ricorrenti, di tantissimi altri.
De Gregori, invece, tende ad astenersi. Ma più per riserbo, si direbbe, che non per timidezza. Più che per una forma di alterigia, che se c’è stata in passato sembra ormai lasciata alle spalle, per il timore di finire invischiato nel clichè dell’artista che blandisce il pubblico, a cominciare dall’abusatissima pantomima dei pezzi cantati in coro, e che in cambio ne è a sua volta coccolato in maniera indiscriminata: fino al punto in cui la stima cambia in affetto e l’apprezzamento artistico, che andrebbe rinnovato caso per caso, si stempera in una vicinanza emotiva che vive di vita propria e che si autoalimenta, chiedendo solo di essere (almeno un po’) ricambiata.
A De Gregori, giustamente, tutto questo ripugna. Per quanto l’affetto della gente possa fargli piacere, la priorità resta quella di costruire, e preservare, un rapporto corretto con i suoi ascoltatori. Un rapporto che sia il più possibile circoscritto alla dimensione artistica. «Quanto ti interessa sapere chi ti ascolta?», gli domanda Nicolini. «Preferisco – dice De Gregori – che il pubblico sia per me un oggetto misterioso. Non cerco di decifrare il mio pubblico. Sono io l’oggetto da decifrare». E ancora: «Credo che ci debbano essere questi due piani: da un lato l’artista che sta sul palco e, dall’altro, il pubblico che sta in platea».
Giustissimo. Come tutto quello che va nella direzione di un superamento dell’abituale dicotomia tra emozione e riflessione, tra il piacere istintivo dell’arte per tutti e l’impegno faticoso della critica per pochi. Anche ammesso che non nasca esattamente da questa consapevolezza, l’idea di alternare i filmati delle esibizioni dal vivo e gli spezzoni dell’intervista si rivela azzeccatissima. Il divertimento dello show e la lucidità dei ragionamenti: due capi di una corda che va annodata di nuovo. Per stringerla, per tenerla stretta, con la massima cura.
(Francesco De Gregori,“Left & Right”, 2007)
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”. Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.
Nessun commento:
Posta un commento