Dal Secolo d'Italia di venerdì 14 dicembre 2007
Che la destra abbia definitivamente superato qualsiasi sindrome di subalternità o legittimazione lo dimostra la sua capacità di oltrepassamento dal vecchio rapporto con la stampa e l’informazione in generale. Oggi il leader di An è protagonista nei principali talk show televisivi, pubblica i suoi interventi politici sulla prima pagina del Corriere della Sera e le sue dichiarazioni forniscono il titolo d’apertura ai principali quotidiani e settimanali. Si è fuoriusciti, insomma, dalla subordinazione al rapporto con un certo modo d’intendere il rapporto tra la destra e i giornali che era quello – del tutto impolitico – in vigore fino ai primi anni Novanta, secondo il quale i giornalisti di destra dovevano occuparsi solo delle pagine culturali.
Ricordate Il Tempo degli anni Settanta o il Giornale nuovo degli inizi? Le grandi firme di destra, come la stessa destra tout court, dovevano essere ghettizzate alla voce “cultura”, depoliticizzandone così tutto il potenziale. Rispetto agli schieramenti e all’attualità di quei decenni quei giornali – come anche il Settimanale rusconiano – ritenevano che la politica da supportare dovesse essere quella moderata-centrista di stampo governativo, andreottiana, fanfaniana, anche craxiana andando avanti con gli anni. La destra doveva, invece, limitarsi al ruolo testimoniale sul piano politico-parlamentare e, dal punto di vista giornalistico, a quello decorativo-culturale. Pensiamoagli anni in cui Piero Buscaroli poteva scrivere sul foglio montanelliano ma con pseudonimo e solo e soltanto di musicologia. Gli stessi anni in cui la redazione del Tempo era piena zeppa di giornalisti formatisi politicamente nelle organizzazioni giovanili della destra ma i quali dovevano occuparsi solo di cultura. Gli anni della “terza pagina” curata da Fausto Gianfranceschi, responsabile della cultura del quotidiano romano per il lunghissimo periodo che va dal 1963 al 1988. Certo, quella pagina – come la presenza di molti intellettuali di destra sugli analoghi spazi del Giornale e del Settimanale – ebbe la funzione di un vero e proprio territorio franco nell’editoria giornalistica nel clima di quei decenni egemonizzati dalla cultura neomarxista e illuminista, paragonabile per molti versi all’analogo ruolo svolto, a partire dal 1970, dalla casa editrice Rusconi. Ma, a partire dalla caduta del Muro di Berlino e dal tracollo dei partiti della Prima Repubblica con Tangentopoli, quello schema era destinato a cadere definitivamente.
Recentemente è stato Michele Santoro a ricordare come fu il leader della Cgil Luciano Lama a spiegargli che, nel nuovo scenario, bisognava cominciare ad abituarsi all’idea di una destra politica che si confrontava direttamente con la sinistra in prima serata. Un’area politica che stava imponendosi come centrale nel dibattito non poteva più venire relegata in ambiti non di prima pagina.
L’impressione è però che, a quindici anni di distanza da quegli avvenimenti, ci sia ancora chi continui a lavorare come se stessimo a prima del ’92. La lettura di due quotidiani su tutti, Libero e il Giornale, dà infatti l’impressione di essere tornati a quegli anni. C’è nelle loro pagine una tale abbondanza di evocazioni e firme legate alla cultura di destra che si accoppia paradossalmente con il silenziatore sulle scelte e le strategie messe in atto dalla destra politica. Anzi, più si scrive di Guareschi, di Longanesi, di Papini, di Malaparte, di Jünger, di Evola (e chi più ne ha più ne metta) più si censura e si mistifica sulla presenza della destra nel dibattito politico. Non è inoltre neanche il caso di fare nomi e cognomi, ma è quantomeno sospetto il recupero in grande stile di certe firme sulle pagine culturali dei due quotidiani dopo un lungo periodo di oscuramento. C’è stata una fase in cui in certe redazioni, in linea con la lezione dei cosiddetti professori di Forza Italia, si era addirittura arrivati a limitare al minimo i danni della presenza di qualsiasi richiamo alla destra culturale, si trattasse di militanze giovanili “compromesse” con la Nouvelle Droite o di interessi teorici per Heidegger o Nietzsche. E le stesse pagine culturali erano state “normalizzate” all’insegna di una presunta nuova egemonia popperian-hayekiana…
Adesso siamo quindi all’ennesimo contrordine: si tenta di recuperare la destra ma, come negli anni Settanta, solo sul piano degli interessi culturali. Quasi che i lettori di quest’area sia possibile mantenerli(o recuperarli) solo con i “santini”, col Pantheon dei grandi autori, con qualche firma e con gli ammiccamenti… La verità, come abbiamo detto all’inizio, è che la destra sta ormai definitivamente fuori dalla vecchia sindrome dell’accerchiamento e dall’inevitabile subordinazione alle altrui egemonie. E può raccontarsi in prima persona. Non ha più bisogno di ghetti e neanche di ruoli meramente decorativi. Per la destra fare politica e cultura sono oggi un tutt’uno. Indietro non si può tornare.
Ricordate Il Tempo degli anni Settanta o il Giornale nuovo degli inizi? Le grandi firme di destra, come la stessa destra tout court, dovevano essere ghettizzate alla voce “cultura”, depoliticizzandone così tutto il potenziale. Rispetto agli schieramenti e all’attualità di quei decenni quei giornali – come anche il Settimanale rusconiano – ritenevano che la politica da supportare dovesse essere quella moderata-centrista di stampo governativo, andreottiana, fanfaniana, anche craxiana andando avanti con gli anni. La destra doveva, invece, limitarsi al ruolo testimoniale sul piano politico-parlamentare e, dal punto di vista giornalistico, a quello decorativo-culturale. Pensiamoagli anni in cui Piero Buscaroli poteva scrivere sul foglio montanelliano ma con pseudonimo e solo e soltanto di musicologia. Gli stessi anni in cui la redazione del Tempo era piena zeppa di giornalisti formatisi politicamente nelle organizzazioni giovanili della destra ma i quali dovevano occuparsi solo di cultura. Gli anni della “terza pagina” curata da Fausto Gianfranceschi, responsabile della cultura del quotidiano romano per il lunghissimo periodo che va dal 1963 al 1988. Certo, quella pagina – come la presenza di molti intellettuali di destra sugli analoghi spazi del Giornale e del Settimanale – ebbe la funzione di un vero e proprio territorio franco nell’editoria giornalistica nel clima di quei decenni egemonizzati dalla cultura neomarxista e illuminista, paragonabile per molti versi all’analogo ruolo svolto, a partire dal 1970, dalla casa editrice Rusconi. Ma, a partire dalla caduta del Muro di Berlino e dal tracollo dei partiti della Prima Repubblica con Tangentopoli, quello schema era destinato a cadere definitivamente.
Recentemente è stato Michele Santoro a ricordare come fu il leader della Cgil Luciano Lama a spiegargli che, nel nuovo scenario, bisognava cominciare ad abituarsi all’idea di una destra politica che si confrontava direttamente con la sinistra in prima serata. Un’area politica che stava imponendosi come centrale nel dibattito non poteva più venire relegata in ambiti non di prima pagina.
L’impressione è però che, a quindici anni di distanza da quegli avvenimenti, ci sia ancora chi continui a lavorare come se stessimo a prima del ’92. La lettura di due quotidiani su tutti, Libero e il Giornale, dà infatti l’impressione di essere tornati a quegli anni. C’è nelle loro pagine una tale abbondanza di evocazioni e firme legate alla cultura di destra che si accoppia paradossalmente con il silenziatore sulle scelte e le strategie messe in atto dalla destra politica. Anzi, più si scrive di Guareschi, di Longanesi, di Papini, di Malaparte, di Jünger, di Evola (e chi più ne ha più ne metta) più si censura e si mistifica sulla presenza della destra nel dibattito politico. Non è inoltre neanche il caso di fare nomi e cognomi, ma è quantomeno sospetto il recupero in grande stile di certe firme sulle pagine culturali dei due quotidiani dopo un lungo periodo di oscuramento. C’è stata una fase in cui in certe redazioni, in linea con la lezione dei cosiddetti professori di Forza Italia, si era addirittura arrivati a limitare al minimo i danni della presenza di qualsiasi richiamo alla destra culturale, si trattasse di militanze giovanili “compromesse” con la Nouvelle Droite o di interessi teorici per Heidegger o Nietzsche. E le stesse pagine culturali erano state “normalizzate” all’insegna di una presunta nuova egemonia popperian-hayekiana…
Adesso siamo quindi all’ennesimo contrordine: si tenta di recuperare la destra ma, come negli anni Settanta, solo sul piano degli interessi culturali. Quasi che i lettori di quest’area sia possibile mantenerli(o recuperarli) solo con i “santini”, col Pantheon dei grandi autori, con qualche firma e con gli ammiccamenti… La verità, come abbiamo detto all’inizio, è che la destra sta ormai definitivamente fuori dalla vecchia sindrome dell’accerchiamento e dall’inevitabile subordinazione alle altrui egemonie. E può raccontarsi in prima persona. Non ha più bisogno di ghetti e neanche di ruoli meramente decorativi. Per la destra fare politica e cultura sono oggi un tutt’uno. Indietro non si può tornare.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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