Dal Secolo d'Italia di sabato 5 gennaio 2008
Tra due giorni sarà il trentesimo anniversario della strage di Acca Larenzia, una ricorrenza che porta con sé per chiunque abbia fatto politica a destra negli anni ’70-’80 sentimenti complessi e per molti versi indecifrabili. Sono emozioni private che spingono tanti, ormai lontani dalle passioni degli anni giovanili, a passare ogni anno, il 7 gennaio, dalla stradina del quartiere Tuscolano per un silenzioso e individuale omaggio: nel quartiere sono tutti stupiti da quei signori e da quelle donne di mezza età che si affacciano, sostano qualche minuto e poi se ne vanno.
Niente a che vedere con le manifestazioni rumorose dei tanti gruppi dell’estrema destra che si avvicendano davanti al palazzo della ex sezione missina, ed è giusto così. Chi era ragazzo ai tempi di Acca Larenzia oggi ha cinquanta, sessant’anni, un’età in cui non si mostrano volentieri i propri sentimenti, soprattutto quelli legati all’irrazionalità del cuore. Anche per questo tanti di quella generazione hanno giudicato con fastidio l’abbondante messe di saggistica che si è abbattuta sulle “memorie della destra” da Cuori neri in poi: se a sinistra il ricordo dei caduti ha sempre avuto una dimensione pubblica, santificata dai riti civili del 25 aprile e del 1° maggio, la destra ha sempre considerato il ricordo una dimensione privata e “familiare”, che può essere condiviso solo da chi ha avuto esperienza diretta dei fatti.
Storicizzare la storia di sangue degli anni ’70, sottraendola alla categoria del reducismo e della retorica militante è l’unico modo che vediamo per ricordare Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti e Stefano Recchioni. D’altra parte, la loro vicenda è già storia d’Italia. Persino Wikipedia, la tanto contestata enciclopedia “autoprodotta” sulla rete, la racconta con una certa precisione.
Storicizzare quel 1978 significa anche riconoscere che lo choc di Acca Larenzia fu tale (anche se in misura ovviamente minore) anche a sinistra. Radio Popolare il prossimo 7 gennaio, alle 20.40, rimanderà in onda la trasmissione a microfoni aperti che trent’anni fa diede voce allo smarrimento e all’indignazione di tanti ragazzi dell’estrema sinistra per le deliranti rivendicazioni di chi gridava «oggi con i fascisti siamo tre a zero».
Una parte dell’audio della diretta fu “montata” da Giampiero Mughini nel memorabile documentario “Nero è bello” e l’autore ricorda a proposito un episodio significativo. C’era un tecnico, «un ragazzone romano figlio del movimento del ’77», che collaborava al progetto con evidente ostilità e addirittura non rivolse per lungo tempo la parola agli autori giudicando folle l’idea di far parlare i fascisti. Racconta Mughini: malgrado tutto il ragazzone «seguiva attentissimo il materiale che stava montando: Tarchi che riconosceva gli errori della sua parte, Umberto Croppi che parlava di Nanni Moretti, Monica Centanni che spiegava cosa era stato per lei militare a destra. Il figlio del Settantasette finalmente capiva, riconosceva adesso quei ragazzi come suoi simili e non come belve da braccare. Quando montammo un pezzo di una trasmissione di Radio Popolare dove interveniva un ascoltatore a gridare “i fascisti bisogna ammazzarli tutti!” il ragazzone del Settantasette balzò in piedi e gridò: “Mascalzone!”».
Paolo Hutter, il redattore della radio dell’estrema sinistra che realizzò la diretta radiofonica, ebbe non pochi problemi con i suoi per la sua scelta. Ma quella registrazione rappresenta oggi l’incontrovertibile prova materiale di un fatto: il 7 gennaio del 1978 fu un crocevia storicamente essenziale per la destra come per la sinistra. Se avesse prevalso quel grido – “Mascalzoni!” – molte cose sarebbero state diverse. Invece, da quella data parte la catena ritorsiva degli opposti terrorismi, delle vendette armate incrociate. Il dialogo si rivela una istantanea parentesi e nasce la realtà del terrorismo di destra, inesistente prima della strage del Tuscolano malgrado ciò che tanti storici faziosi hanno raccontato al Paese. Non fu solo Hutter, a sinistra, a porsi il problema di interrompere la spirale violenta che la strage evidentemente annunciava. Anche il Manifesto commentò con toni di indignazione l’assemblea dell’autonomia romana all’Università nella quale, il 10 gennaio, un «clima terroristico» aveva impedito gli interventi di chi cercava di dissociarsi dall’uccisione «dei due giovani fascisti». Una presa di posizione riportata dal Secolo dell’epoca insieme al resoconto del dibattito alla Camera in cui il presidente Ingrao esprimeva una condanna non retorica e assoluta per gli autori della strage.
Trent’anni dopo, c’è da chiedersi perchè quello smarrimento e quella indignazione furono così rapidamente archiviati, perchè il tran-tran dell’antifascismo militante riprese così rapidamente il sopravvento. Non è azzardato rispondere che, una volta tanto, la società civile, gli intellettuali, il mondo del giornalismo e delle idee, fu in ritardo rispetto alle aree più sensibili della politica: non riuscì a cogliere l’entità del “passaggio”, non fu capace di uscire dallo schema secondo cui i morti di destra erano comunque vittime di serie B, non ascoltò, non capì che c’era l’occasione per interrompere o almeno depotenziare la spirale suicida della politica giovanile.
E a provocare il rapido oblio di quegli spunti fu un altro dato oggettivo: il terzo morto, Stefano Recchioni, fu ucciso da un capitano dei carabinieri in circostanze assolutamente senza giustificazione. Il ministro dell’Interno dell’epoca, Francesco Cossiga, pur spiegando l’accaduto con una ricostruzione di fantasia («essendosi inceppata la sua pistola prendeva un’altra arma, ma in quel momento cadeva a terra e dall’arma che impugnava partirono due colpi») dovette ammettere davanti alla Camera l’esigenza di prendere provvedimenti in ordine «all’organizzazione e all’addestramento» delle forze dell’ordine. Insomma, quella strage diventò ingombrante, molto ingombrante anche per lo Stato che se ne dimenticò del tutto e lasciò l’inchiesta a prender polvere anche quando, dieci anni dopo, dal racconto di una pentita, emersero i nomi dei membri del commando.
Oggi i manifesti che ricordano Ciavatta, Bigonzetti e Recchioni sono dedicati alla richiesta di “giustizia”. È un modo per ricordare la vergogna di cui si coprirono le istituzioni in quegli anni, perchè è ovvio che giustizia non può essere più fatta, non dopo sei lustri. Trent’anni dopo il riconoscimento più sincero che si può dare alle vittime è la verità dei fatti e, come facciamo qui accanto, un autentico ricordo di chi erano e come vivevano: non eroi su una barricata di ideali roboanti ma ragazzi qualsiasi, entrati in una sede del Msi forse per convinzione, forse per anticonformismo, ma più probabilmente per seguire un amico, una ragazza, una suggestione di impegno magari passeggera, come tanti che sono stati più fortunati, hanno avuto la possibilità di scordarsi gli anni ’70 e fare altro. E siamo sicuri che quei signori e quelle signore di mezza età che ogni 7 gennaio fanno un giro in macchina per affacciarsi due minuti ad Acca Larenzia, ci vanno pensando proprio a questo: «Era uno come me, potevo essere io e mi avrebbe fatto piacere che non mi dimenticassero».
Niente a che vedere con le manifestazioni rumorose dei tanti gruppi dell’estrema destra che si avvicendano davanti al palazzo della ex sezione missina, ed è giusto così. Chi era ragazzo ai tempi di Acca Larenzia oggi ha cinquanta, sessant’anni, un’età in cui non si mostrano volentieri i propri sentimenti, soprattutto quelli legati all’irrazionalità del cuore. Anche per questo tanti di quella generazione hanno giudicato con fastidio l’abbondante messe di saggistica che si è abbattuta sulle “memorie della destra” da Cuori neri in poi: se a sinistra il ricordo dei caduti ha sempre avuto una dimensione pubblica, santificata dai riti civili del 25 aprile e del 1° maggio, la destra ha sempre considerato il ricordo una dimensione privata e “familiare”, che può essere condiviso solo da chi ha avuto esperienza diretta dei fatti.
Storicizzare la storia di sangue degli anni ’70, sottraendola alla categoria del reducismo e della retorica militante è l’unico modo che vediamo per ricordare Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti e Stefano Recchioni. D’altra parte, la loro vicenda è già storia d’Italia. Persino Wikipedia, la tanto contestata enciclopedia “autoprodotta” sulla rete, la racconta con una certa precisione.
Storicizzare quel 1978 significa anche riconoscere che lo choc di Acca Larenzia fu tale (anche se in misura ovviamente minore) anche a sinistra. Radio Popolare il prossimo 7 gennaio, alle 20.40, rimanderà in onda la trasmissione a microfoni aperti che trent’anni fa diede voce allo smarrimento e all’indignazione di tanti ragazzi dell’estrema sinistra per le deliranti rivendicazioni di chi gridava «oggi con i fascisti siamo tre a zero».
Una parte dell’audio della diretta fu “montata” da Giampiero Mughini nel memorabile documentario “Nero è bello” e l’autore ricorda a proposito un episodio significativo. C’era un tecnico, «un ragazzone romano figlio del movimento del ’77», che collaborava al progetto con evidente ostilità e addirittura non rivolse per lungo tempo la parola agli autori giudicando folle l’idea di far parlare i fascisti. Racconta Mughini: malgrado tutto il ragazzone «seguiva attentissimo il materiale che stava montando: Tarchi che riconosceva gli errori della sua parte, Umberto Croppi che parlava di Nanni Moretti, Monica Centanni che spiegava cosa era stato per lei militare a destra. Il figlio del Settantasette finalmente capiva, riconosceva adesso quei ragazzi come suoi simili e non come belve da braccare. Quando montammo un pezzo di una trasmissione di Radio Popolare dove interveniva un ascoltatore a gridare “i fascisti bisogna ammazzarli tutti!” il ragazzone del Settantasette balzò in piedi e gridò: “Mascalzone!”».
Paolo Hutter, il redattore della radio dell’estrema sinistra che realizzò la diretta radiofonica, ebbe non pochi problemi con i suoi per la sua scelta. Ma quella registrazione rappresenta oggi l’incontrovertibile prova materiale di un fatto: il 7 gennaio del 1978 fu un crocevia storicamente essenziale per la destra come per la sinistra. Se avesse prevalso quel grido – “Mascalzoni!” – molte cose sarebbero state diverse. Invece, da quella data parte la catena ritorsiva degli opposti terrorismi, delle vendette armate incrociate. Il dialogo si rivela una istantanea parentesi e nasce la realtà del terrorismo di destra, inesistente prima della strage del Tuscolano malgrado ciò che tanti storici faziosi hanno raccontato al Paese. Non fu solo Hutter, a sinistra, a porsi il problema di interrompere la spirale violenta che la strage evidentemente annunciava. Anche il Manifesto commentò con toni di indignazione l’assemblea dell’autonomia romana all’Università nella quale, il 10 gennaio, un «clima terroristico» aveva impedito gli interventi di chi cercava di dissociarsi dall’uccisione «dei due giovani fascisti». Una presa di posizione riportata dal Secolo dell’epoca insieme al resoconto del dibattito alla Camera in cui il presidente Ingrao esprimeva una condanna non retorica e assoluta per gli autori della strage.
Trent’anni dopo, c’è da chiedersi perchè quello smarrimento e quella indignazione furono così rapidamente archiviati, perchè il tran-tran dell’antifascismo militante riprese così rapidamente il sopravvento. Non è azzardato rispondere che, una volta tanto, la società civile, gli intellettuali, il mondo del giornalismo e delle idee, fu in ritardo rispetto alle aree più sensibili della politica: non riuscì a cogliere l’entità del “passaggio”, non fu capace di uscire dallo schema secondo cui i morti di destra erano comunque vittime di serie B, non ascoltò, non capì che c’era l’occasione per interrompere o almeno depotenziare la spirale suicida della politica giovanile.
E a provocare il rapido oblio di quegli spunti fu un altro dato oggettivo: il terzo morto, Stefano Recchioni, fu ucciso da un capitano dei carabinieri in circostanze assolutamente senza giustificazione. Il ministro dell’Interno dell’epoca, Francesco Cossiga, pur spiegando l’accaduto con una ricostruzione di fantasia («essendosi inceppata la sua pistola prendeva un’altra arma, ma in quel momento cadeva a terra e dall’arma che impugnava partirono due colpi») dovette ammettere davanti alla Camera l’esigenza di prendere provvedimenti in ordine «all’organizzazione e all’addestramento» delle forze dell’ordine. Insomma, quella strage diventò ingombrante, molto ingombrante anche per lo Stato che se ne dimenticò del tutto e lasciò l’inchiesta a prender polvere anche quando, dieci anni dopo, dal racconto di una pentita, emersero i nomi dei membri del commando.
Oggi i manifesti che ricordano Ciavatta, Bigonzetti e Recchioni sono dedicati alla richiesta di “giustizia”. È un modo per ricordare la vergogna di cui si coprirono le istituzioni in quegli anni, perchè è ovvio che giustizia non può essere più fatta, non dopo sei lustri. Trent’anni dopo il riconoscimento più sincero che si può dare alle vittime è la verità dei fatti e, come facciamo qui accanto, un autentico ricordo di chi erano e come vivevano: non eroi su una barricata di ideali roboanti ma ragazzi qualsiasi, entrati in una sede del Msi forse per convinzione, forse per anticonformismo, ma più probabilmente per seguire un amico, una ragazza, una suggestione di impegno magari passeggera, come tanti che sono stati più fortunati, hanno avuto la possibilità di scordarsi gli anni ’70 e fare altro. E siamo sicuri che quei signori e quelle signore di mezza età che ogni 7 gennaio fanno un giro in macchina per affacciarsi due minuti ad Acca Larenzia, ci vanno pensando proprio a questo: «Era uno come me, potevo essere io e mi avrebbe fatto piacere che non mi dimenticassero».
Flavia Perina è deputato al Parlamento e direttore del Secolo d'Italia
Nella foto (da sinistra): Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano RecchioniIL MILITANTE, IL CHITARRISTA, IL PROLETARIO...
LE TESTIMONIANZE DI DOMENICO GRAMAZIO, FEDERICO ZAMBONI, GABRIELE MARCONI E MIRO RENZAGLIA.
Dice: sono trent’anni. Già trent’anni? Già trent’anni. Ma sempre un po’ in punta di piedi bisogna accostarsi all’anniversario di Acca Larenzia, quel crocevia disperato va attraversato con leggerezza, senza retorica, eppure provando a far capire quanto sarebbe stato importante non spegnere quelle tre note, indispensabili, come tutte le altre, a un’armonia che in una sera di gennaio diventò muta. Franco Bigonzetti, nel ricordo di Domenico Gramazio, era un ragazzo solare, innamorato della vita di sezione. «Ci passava l’intera giornata, molte volte anche la mattina. Scriveva manifesti a mano e veniva a prendere la colla da noi, alla sezione Appio. Il suo amico del cuore era Francesco Ciavatta e me li ricordo che arrivavano insieme, in motorino, a prendere il materiale, inseparabili...». All’epoca, il “materiale” erano i manifesti stampati dalla federazione con cui il Msi si conquistava una sua visibilità sui muri. Graficamente, spesso, facevano anche un po’ schifo, ma per difenderli si inventavano le peripezie più bizzarre in nome di quello che, anni dopo, sarebbero stato chiamato “orgoglio identitario”.
Di Bigonzetti si ricordano le doti di organizzatore, la precisione attivistica, la dedizione agli studi. Ma anche lui era, soprattutto, un “ragazzo”. Il primo a uscire dalla porta blindata della sezione, a cadere, a inchiodarci all’immagine, l’unica che si conosca, di un bel giovanotto che ci scruta malinconico dal rettangolino della fototessera.
Federico Zamboni ricorda così Stefano Recchioni: «Era proprio Capodanno? Era esattamente la sera del 31 dicembre 1977? O era invece subito prima, o subito dopo? Non me lo ricordo più. Mi ricordo solo che è stata l’ultima volta che ci siamo visti con Stefano Recchioni. E che, anche quella sera, l’espressione dominante sul suo viso, nei suoi occhi chiari, era quella di una bella serenità. Altri no. Altri avevano sempre, o quasi, un’aria più concentrata. Più tesa. Arrivavi in sezione (non che io ci capitassi così spesso) e li vedevi serissimi, vigili, sprofondati nella propria idea di militanza. Come se le cose potessero precipitare da un istante all’altro. Come se l’unica maniera di sopravvivere, in senso sia figurato che reale, fosse rinserrare i ranghi e tenersi pronti al peggio. In qualsiasi momento. In qualsiasi microsecondo della giornata. Stefano tendeva a sorridere, invece. Anche nei momenti di maggiore serietà l’impressione che mi dava era lontanissima dalla cupezza. Come è giusto che sia, quando si è ancora così giovani, sembrava che qualsiasi cosa, anche la più spiacevole, fosse nulla di più che un’ombra passeggera, destinata a svanire senza lasciare strascichi. Stefano, per così dire, mi faceva pensare a un pilota esordiente che sta scaldando il motore prima della gara. Un pilota che ha le sue chances di fare bene. Un pilota che sa, che sente, di averle. E questo è il prima. Il seguito mi arriva addosso di colpo la sera del 7 gennaio. Sono a casa che non faccio niente, se non ascoltare la radio in attesa della cena. Comincia il notiziario e annunciano che un ragazzo “di destra” è stato colpito da un proiettile esploso dalle forze dell’ordine. Non faccio in tempo a chiedermi chi può essere. Non faccio in tempo a pensare a nulla. “Stefano Recchioni”, dice lo speaker. Bisogna esserci passati, credo. Bisogna aver sentito dentro la stessa scossa di assoluta incredulità, un attimo prima, e di spaventosa certezza, un attimo dopo. La sensazione dell’ingiustizia: non la generica ingiustizia di un ragazzo che rimane vittima di un incidente, ma l’ingiustizia intollerabile di un amico che è stato colpito a freddo. Sangue chiama sangue. La violenza ingiusta chiede vendetta. Mai come quella volta. Né prima né dopo, mi sono trovato di fronte all’abisso della lotta armata».
Stefano Recchioni come uno che amava suonare la chitarra. Prima che come militante così lo conobbe, per caso, Gabriele Marconi, che sugli anni Settanta ha scritto il romanzo Io non scordo.
Ecco il suo racconto: «Il liceo Archimede era un casermone enorme, tre portoni per sette piani nella zona Nord-Est di Roma… lunghi corridoi e un grande cortile che dividevamo con il Pacinotti, un istituto tecnico altrettanto grande, frequentato quasi esclusivamente da maschi… tutti delle zone più popolari, mentre lo scientifico raccoglieva un’umanità più variegata. E soprattutto una notevole quantità di ragazze: dopo le medie alla Giusti… maschi in una sezione e femmine nell’altra… mi era sembrato il Paradiso terrestre. Uno che m’avesse guardato bene avrebbe visto gli ormoni schizzarmi dai capelli (e ce ne avevo, eh?, una massa di ricci che neanche Branduardi). Il problema era che non avevo la minima idea di cosa farne, e tutto quel ben di Dio mi girava attorno come un branco di orate a un pescatore senza esca, che per sovrapprezzo non sapeva nemmeno come e dove buttare la canna (e scusate l’involontario doppio senso). A scuola ci arrivavo col 38 barrato e già là dentro, pressati come… be’, come su un autobus, cominciava la caccia: ecco, quella è da tre giorni che sale e mi guarda… la guardo anch’io. Ma è l’unica cosa che mi riesce bene. Per il resto non so che fare. Un’altra con cui scambio sguardi da un mese la incontro in cortile prima che suoni la campanella, mi sorride pure, ma io le sorrido e basta. Poi scanso un compagno che mi porge un volantino di solidarietà ai compagni cambogiani “oggetto delle menzogne giornalistiche” ed entro, seguito dallo sguardo del compagno incazzato (di cui sono totalmente ignaro) e dallo sguardo della tipa, che magari non è proprio incazzata ma non sorride più e stringe le labbra scuotendo la testa (questo invece lo immagino, ma non riesco a farci niente). Tempo un’altra settimana e la situazione si era evoluta da sola: lei sorrideva
a un altro che, meno fesso di me, si fermava a chiacchierarci; il compagno del volantino, invece, continuava a guardarmi incazzato… in questo caso l’evoluzione consisteva nel fatto che adesso mi guardava male anche senza volantini di mezzo, e quando passavo mi indicava a quelli che stavano con lui. Un successone. La mia vita, insomma, era quella di qualsiasi ragazzo di quegli anni e l’impegno politico era totalizzante, sì, ma scorreva all’interno di una quotidianità che era la stessa di tanti miei coetanei. Tanto per capirci, nessuna alienazione: vita di quartiere, feste, gite. E anche quando dovetti cambiare scuola e lasciare l’Archimede (diventato per me invivibile, dato il dominio incontrastato di Autonomia Operaia) per approdare al liceo Azzarita, rappresentò semplicemente un altro passo di un cammino assolutamente naturale. Di abbozzare (ossia subire supinamente) non se ne parlava nemmeno, ma nemmeno mi andava di farmi pestare ogni giorno. Perciò era ovvio cambiare aria. Punto. Per un certo periodo continuai anche a frequentare la comitiva sotto casa… Insieme ai miei vec chi amici, una domenica al mese organizzavamo una gita sulla neve per alzare qualche lira e farci una sciata gratis. Durante una di queste spedizioni verso Campo Felice – poco prima di Natale 1977 – in fondo al pullman stavo come al solito strimpellando la chitarra… si cantava Battisti, De André, cose così. A un certo punto, approfittando di un momento di stanca, attaccai a cantare una canzone che gli altri non conoscevano: era “Noi”, degli Amici del Vento (meglio nota come Ragazzo biondo). E siccome tra i miei amici di quartiere nessuno faceva politica, tantomeno a destra come me, andai avanti a cantare da solo per un bel pezzo. Finché, con mio sommo stupore, non mi accorsi di una voce che mi veniva dietro. Proprio come nella canzone, era un ragazzo biondo… e non lo conoscevo. Era venuto con la cugina di un’amica nostra e si chiamava Stefano. Passammo la giornata insieme, cazzeggiando con tutti gli altri e al ritorno, prima di salutarci, mi insegnò una canzone scritta con altri della sua sezione – Colle Oppio – in ricordo di Mario Zicchieri, ammazzato dai compagni un paio d’anni prima davanti alla sezione Msi di via Gattamelata, al Prenestino. Dopo neanche due settimane, il 7 gennaio 1978, successe quello che stiamo ricordando oggi. Due giorni dopo, sul giornale c’erano le foto dei tre ragazzi assassinati a via Acca Larenzia. Quello ucciso dal capitano dei carabinieri, Stefano Recchioni, era lo stesso che mi aveva insegnato la canzone su un altro ragazzo morto per lo stesso motivo…».
Nel ricordo di Miro Renzaglia, infine, che ha assaggiato il piombo di quegli anni quasi fino a morirne, Acca Larenzia è anche la morte del «figlio del portiere», Francesco Ciavatta, un proletario ucciso dalla presunta rivoluzione proletaria.
«Mio figlio – sottolinea Renzaglia – che ha ventuno anni, s’è letto un po’ tutti i libri di quel periodo steso tra il fuoco, il piombo e la mitologia postuma e posticcia dei famigerati anni ’70: il mio, Cuori neri, Fascisti immaginari... Ogni tanto, monta su e, con la parvenza di chiedermi, invece, si dice: “Non capisco... ”. Ho cercato di spiegargli: ma deve esserci qualcosa di così siderale fra noi che i 30 anni trascorsi da allora non giustificano del tutto l’incapacità di comunicazione. Qualcuno dice follia, qualcuno delirio e qualcuno dà tutta la colpa alle ideologie degli opposti estremismi. Qualcuno (sempre meno per la verità...) continua a menar vanto di saper leggere la questione con le interpretazioni marxiane del proletariato in lotta contro la borghesia della quale, ovviamente, noi saremmo stati le guardie bianche... Ah! sì? Che lo andasse a spiegare al figlio di un portiere di stabile, Francesco Ciavatta, 18 anni, attivista missino, che era un servo del capitale... No, non può più spiegarglielo: quel ragazzo ha finito la sua esistenza davanti alle sventagliate skorpion di una volante rossa, davanti alla sezione missina di via Acca Larenzia, il 7 gennaio del 1978... Da quel che se ne sa, dietro la sigla: “Nuclei armati di potere territoriale”, fortemente sospettato di aver partecipato all’eccidio, c’era, fra gli altri, Mario Scrocca che, dimenticata la carriera rivoluzionaria (?), aveva messo su casa con moglie e figlio ed un mestiere di infermiere al Santo Spirito: finirà suicida a Regina Coeli, dieci anni dopo. Insomma: proletari che sparano ad altri proletari... Con buona pace delle lenti d’interpretazione marxiste e della possibilità di usarle per far capire qualcosa di quegli anni a mio figlio... Ma alle due vittime (Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti) di quel giorno infame se ne aggiunse un’altra, anzi: altre due. La terza è Stefano Recchioni, accorso sul luogo dell’eccidio e colpito per mano di un ufficiale dei carabinieri e, poi, una quarta a distanza di poco tempo... Perché, sapete?, siccome anche i fascisti hanno un’anima, quando qualcuno gliela strazia fino ad avere il cervello invaso dal dolore per l’assassinio di un figlio, possono anche pensare di mettere le cose in pareggio col mondo e sorbirsi mezzo litro di acido muriatico, fino a crepare. Come fece il padre di Francesco Ciavatta: portiere di condominio...».
Di Bigonzetti si ricordano le doti di organizzatore, la precisione attivistica, la dedizione agli studi. Ma anche lui era, soprattutto, un “ragazzo”. Il primo a uscire dalla porta blindata della sezione, a cadere, a inchiodarci all’immagine, l’unica che si conosca, di un bel giovanotto che ci scruta malinconico dal rettangolino della fototessera.
Federico Zamboni ricorda così Stefano Recchioni: «Era proprio Capodanno? Era esattamente la sera del 31 dicembre 1977? O era invece subito prima, o subito dopo? Non me lo ricordo più. Mi ricordo solo che è stata l’ultima volta che ci siamo visti con Stefano Recchioni. E che, anche quella sera, l’espressione dominante sul suo viso, nei suoi occhi chiari, era quella di una bella serenità. Altri no. Altri avevano sempre, o quasi, un’aria più concentrata. Più tesa. Arrivavi in sezione (non che io ci capitassi così spesso) e li vedevi serissimi, vigili, sprofondati nella propria idea di militanza. Come se le cose potessero precipitare da un istante all’altro. Come se l’unica maniera di sopravvivere, in senso sia figurato che reale, fosse rinserrare i ranghi e tenersi pronti al peggio. In qualsiasi momento. In qualsiasi microsecondo della giornata. Stefano tendeva a sorridere, invece. Anche nei momenti di maggiore serietà l’impressione che mi dava era lontanissima dalla cupezza. Come è giusto che sia, quando si è ancora così giovani, sembrava che qualsiasi cosa, anche la più spiacevole, fosse nulla di più che un’ombra passeggera, destinata a svanire senza lasciare strascichi. Stefano, per così dire, mi faceva pensare a un pilota esordiente che sta scaldando il motore prima della gara. Un pilota che ha le sue chances di fare bene. Un pilota che sa, che sente, di averle. E questo è il prima. Il seguito mi arriva addosso di colpo la sera del 7 gennaio. Sono a casa che non faccio niente, se non ascoltare la radio in attesa della cena. Comincia il notiziario e annunciano che un ragazzo “di destra” è stato colpito da un proiettile esploso dalle forze dell’ordine. Non faccio in tempo a chiedermi chi può essere. Non faccio in tempo a pensare a nulla. “Stefano Recchioni”, dice lo speaker. Bisogna esserci passati, credo. Bisogna aver sentito dentro la stessa scossa di assoluta incredulità, un attimo prima, e di spaventosa certezza, un attimo dopo. La sensazione dell’ingiustizia: non la generica ingiustizia di un ragazzo che rimane vittima di un incidente, ma l’ingiustizia intollerabile di un amico che è stato colpito a freddo. Sangue chiama sangue. La violenza ingiusta chiede vendetta. Mai come quella volta. Né prima né dopo, mi sono trovato di fronte all’abisso della lotta armata».
Stefano Recchioni come uno che amava suonare la chitarra. Prima che come militante così lo conobbe, per caso, Gabriele Marconi, che sugli anni Settanta ha scritto il romanzo Io non scordo.
Ecco il suo racconto: «Il liceo Archimede era un casermone enorme, tre portoni per sette piani nella zona Nord-Est di Roma… lunghi corridoi e un grande cortile che dividevamo con il Pacinotti, un istituto tecnico altrettanto grande, frequentato quasi esclusivamente da maschi… tutti delle zone più popolari, mentre lo scientifico raccoglieva un’umanità più variegata. E soprattutto una notevole quantità di ragazze: dopo le medie alla Giusti… maschi in una sezione e femmine nell’altra… mi era sembrato il Paradiso terrestre. Uno che m’avesse guardato bene avrebbe visto gli ormoni schizzarmi dai capelli (e ce ne avevo, eh?, una massa di ricci che neanche Branduardi). Il problema era che non avevo la minima idea di cosa farne, e tutto quel ben di Dio mi girava attorno come un branco di orate a un pescatore senza esca, che per sovrapprezzo non sapeva nemmeno come e dove buttare la canna (e scusate l’involontario doppio senso). A scuola ci arrivavo col 38 barrato e già là dentro, pressati come… be’, come su un autobus, cominciava la caccia: ecco, quella è da tre giorni che sale e mi guarda… la guardo anch’io. Ma è l’unica cosa che mi riesce bene. Per il resto non so che fare. Un’altra con cui scambio sguardi da un mese la incontro in cortile prima che suoni la campanella, mi sorride pure, ma io le sorrido e basta. Poi scanso un compagno che mi porge un volantino di solidarietà ai compagni cambogiani “oggetto delle menzogne giornalistiche” ed entro, seguito dallo sguardo del compagno incazzato (di cui sono totalmente ignaro) e dallo sguardo della tipa, che magari non è proprio incazzata ma non sorride più e stringe le labbra scuotendo la testa (questo invece lo immagino, ma non riesco a farci niente). Tempo un’altra settimana e la situazione si era evoluta da sola: lei sorrideva
a un altro che, meno fesso di me, si fermava a chiacchierarci; il compagno del volantino, invece, continuava a guardarmi incazzato… in questo caso l’evoluzione consisteva nel fatto che adesso mi guardava male anche senza volantini di mezzo, e quando passavo mi indicava a quelli che stavano con lui. Un successone. La mia vita, insomma, era quella di qualsiasi ragazzo di quegli anni e l’impegno politico era totalizzante, sì, ma scorreva all’interno di una quotidianità che era la stessa di tanti miei coetanei. Tanto per capirci, nessuna alienazione: vita di quartiere, feste, gite. E anche quando dovetti cambiare scuola e lasciare l’Archimede (diventato per me invivibile, dato il dominio incontrastato di Autonomia Operaia) per approdare al liceo Azzarita, rappresentò semplicemente un altro passo di un cammino assolutamente naturale. Di abbozzare (ossia subire supinamente) non se ne parlava nemmeno, ma nemmeno mi andava di farmi pestare ogni giorno. Perciò era ovvio cambiare aria. Punto. Per un certo periodo continuai anche a frequentare la comitiva sotto casa… Insieme ai miei vec chi amici, una domenica al mese organizzavamo una gita sulla neve per alzare qualche lira e farci una sciata gratis. Durante una di queste spedizioni verso Campo Felice – poco prima di Natale 1977 – in fondo al pullman stavo come al solito strimpellando la chitarra… si cantava Battisti, De André, cose così. A un certo punto, approfittando di un momento di stanca, attaccai a cantare una canzone che gli altri non conoscevano: era “Noi”, degli Amici del Vento (meglio nota come Ragazzo biondo). E siccome tra i miei amici di quartiere nessuno faceva politica, tantomeno a destra come me, andai avanti a cantare da solo per un bel pezzo. Finché, con mio sommo stupore, non mi accorsi di una voce che mi veniva dietro. Proprio come nella canzone, era un ragazzo biondo… e non lo conoscevo. Era venuto con la cugina di un’amica nostra e si chiamava Stefano. Passammo la giornata insieme, cazzeggiando con tutti gli altri e al ritorno, prima di salutarci, mi insegnò una canzone scritta con altri della sua sezione – Colle Oppio – in ricordo di Mario Zicchieri, ammazzato dai compagni un paio d’anni prima davanti alla sezione Msi di via Gattamelata, al Prenestino. Dopo neanche due settimane, il 7 gennaio 1978, successe quello che stiamo ricordando oggi. Due giorni dopo, sul giornale c’erano le foto dei tre ragazzi assassinati a via Acca Larenzia. Quello ucciso dal capitano dei carabinieri, Stefano Recchioni, era lo stesso che mi aveva insegnato la canzone su un altro ragazzo morto per lo stesso motivo…».
Nel ricordo di Miro Renzaglia, infine, che ha assaggiato il piombo di quegli anni quasi fino a morirne, Acca Larenzia è anche la morte del «figlio del portiere», Francesco Ciavatta, un proletario ucciso dalla presunta rivoluzione proletaria.
«Mio figlio – sottolinea Renzaglia – che ha ventuno anni, s’è letto un po’ tutti i libri di quel periodo steso tra il fuoco, il piombo e la mitologia postuma e posticcia dei famigerati anni ’70: il mio, Cuori neri, Fascisti immaginari... Ogni tanto, monta su e, con la parvenza di chiedermi, invece, si dice: “Non capisco... ”. Ho cercato di spiegargli: ma deve esserci qualcosa di così siderale fra noi che i 30 anni trascorsi da allora non giustificano del tutto l’incapacità di comunicazione. Qualcuno dice follia, qualcuno delirio e qualcuno dà tutta la colpa alle ideologie degli opposti estremismi. Qualcuno (sempre meno per la verità...) continua a menar vanto di saper leggere la questione con le interpretazioni marxiane del proletariato in lotta contro la borghesia della quale, ovviamente, noi saremmo stati le guardie bianche... Ah! sì? Che lo andasse a spiegare al figlio di un portiere di stabile, Francesco Ciavatta, 18 anni, attivista missino, che era un servo del capitale... No, non può più spiegarglielo: quel ragazzo ha finito la sua esistenza davanti alle sventagliate skorpion di una volante rossa, davanti alla sezione missina di via Acca Larenzia, il 7 gennaio del 1978... Da quel che se ne sa, dietro la sigla: “Nuclei armati di potere territoriale”, fortemente sospettato di aver partecipato all’eccidio, c’era, fra gli altri, Mario Scrocca che, dimenticata la carriera rivoluzionaria (?), aveva messo su casa con moglie e figlio ed un mestiere di infermiere al Santo Spirito: finirà suicida a Regina Coeli, dieci anni dopo. Insomma: proletari che sparano ad altri proletari... Con buona pace delle lenti d’interpretazione marxiste e della possibilità di usarle per far capire qualcosa di quegli anni a mio figlio... Ma alle due vittime (Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti) di quel giorno infame se ne aggiunse un’altra, anzi: altre due. La terza è Stefano Recchioni, accorso sul luogo dell’eccidio e colpito per mano di un ufficiale dei carabinieri e, poi, una quarta a distanza di poco tempo... Perché, sapete?, siccome anche i fascisti hanno un’anima, quando qualcuno gliela strazia fino ad avere il cervello invaso dal dolore per l’assassinio di un figlio, possono anche pensare di mettere le cose in pareggio col mondo e sorbirsi mezzo litro di acido muriatico, fino a crepare. Come fece il padre di Francesco Ciavatta: portiere di condominio...».
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