di Ranieri Polese
Milano - Francesco Guccini l'ha sempre detto, con quel suo vocione tonante e l'aria tra il serio e il faceto: «Io il Sessantotto l'ho fatto nel Sessantasette, poi basta». Che, tradotto, significa: le idee sono una cosa, le etichette un'altra cosa, e dunque smettetela di appiccicarmele addosso.
Adesso il decano dei cantautori gauchistes - classe 1940, sessantotto anni a giugno - chiarisce ancor meglio l'idea, e, da spirito libero, lo fa in un'intervista a una testata che proprio di sinistra non è, trattandosi di Charta minuta, mensile vicino a Gianfranco Fini che al quarantennale del Sessantotto dedica un numero speciale. «Più che testi di politica - dice l'autore di Eskimo - a quell'epoca leggevo poesia: non tanto Marx e Marcuse, quanto Jorge Luis Borges e Omar Kayyam, che infatti citavo in una canzone dell'epoca. E molti autori americani: Dos Passos, Steinbeck, Caldwell, Hemingway, Kerouac, Salinger». Nonché ovviamente Bob Dylan, il poeta in musica difficilmente inscrivibile in una fazione, influenzato com'era sia da Dante e dalla Bibbia, sia da Rimbaud e Blake, sia da Ginsberg e dai grandi beatnik: eravamo dylaniani fino al midollo, fu lui, non Marcuse, a farci scoprire la contestazione studentesca e la canzone di protesta». Ma l'eskimo, allora? L'indumento mutuato dai portuali genovesi era diventato l'uniforme della gioventù politicizzata, ma lui taglia corto: «Lo comprai a Trieste, ero là per il servizio di leva e faceva un freddo boia: lo usavo non certo come una divisa, ma come un cappotto che teneva caldo e costava poco».
E infatti «portavo solo un eskimo innocente - canta Guccini appunto in Eskimo, che è una delle sue canzoni più intense - dettato solo dalla povertà/non era la rivolta permanente». E oggi chiosa, evocando Giovanni XXIII, Jan Palach, le utopie d'allora ma alla sua maniera, più esistenziale che politica: «Direi che il Sessantotto è stato il proseguimento di una vicenda umana, non soltanto mia, ma di tutta quella generazione che veniva dagli anni Cinquanta, piena di desiderio, a volte forse inconscio, di cambiamento. Dunque, prima che politico, direi che il Sessantotto fu un fatto propriamente umano». Da vivere tuttora, nella memoria, in chiave appunto esistenziale, un po’ come Guccini ha fatto con una sua canzone sul Che, evocato in un disco di qualche anno fa come icona d'una giovinezza che se n'è andata e dunque va comunque rimpianta.E non solo: «C'è un ideale libertario che è sempre esistito nell'uomo e non ha colori o etichette, non può essere fatto proprio da un'ideologia e va ben oltre gli schieramenti di destra e sinistra», dice il cantautore emiliano.
L'intervista gucciniana, in un momento mediatico in cui quello di fare le pulci alle scelte politiche dei cantautori pare divenuto un giochino alla moda, non mancherà di suscitare polemiche tra i duri e puri da un lato, legati a un'idea dogmatica della politica, e dall'altro i più laici, per lo più fedeli alle loro idee di sempre, ma capaci d'una visione più dialettica: come furono i De André e i Gaber, e come sono i Paoli, i De Gregori, i Dalla - di sinistra, certo, ma «non marxista», si descrive Lucio -, che senza ripudiare le loro opinioni sono capaci di ascoltare anche punti di vista diversi, rispettandoli e magari cogliendone il meglio. Ecco dunque un Gaber che per trent'anni mette sotto accusa le inadempienze e le ambiguità della sinistra cui peraltro appartiene, un Paoli che si dice disposto ad appoggiare l'iniziativa musicale d'un amico di centrodestra «non per come la pensa ma perché è una persona per bene, non sembra neppure un politico», spiega. E ancora un De Gregori che non lesina critiche «da sinistra» al suo amico Veltroni, e un Fossati che rivendica la non politicità d'una sua canzone adottata dai Diesse come sigla d'un loro convegno. Transfughi? No di certo: semmai, semplicemente artisti, direi per la pluridecennale consuetudine che ho con molti di loro. Artisti e come tali resi un po’ anarchici da quell'inettitudine all'organicità che è propria di chiunque abbia scelto la creatività - «Signora Libertà, signorina Fantasia», cantava De André nel lontano 1980 - come ferro del mestiere.
Quando canta La Locomotiva, al momento di «trionfi la giustizia proletaria» tutti alzano il pugno al cielo. E' inevitabile, come lo sono le nostalgie per quell'«eskimo innocente », le invettive contro «portaborse, ruffiani e mezze calze,/ feroci conduttori di trasmissioni false» coll'invito ai «liberisti» di turno: «buttate giù le carte/ tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese/ in questo benedetto assurdo bel paese». Francesco Guccini ha anticipato il '68 fornendo una parte notevole di colonna sonora, è andato avanti malmostoso e indignato tra poeti maledetti e osti generosi, forse ha precorso (per esempio con gli ultimi versi citati, che vengono da Cyrano) persino Beppe Grillo. Per molti dei suoi fans la delusione sarà cocente, se leggeranno l'intervista a Charta Minuta, rivista vicina a Alleanza Nazionale, che ha dedicato un numero monografico al quarantennale del '68. Guccini parla con la destra, quelli che un tempo erano i «fasci» e da anni lo corteggiano un poco, per dire qualcosa di pesante. Non è neanche la prima volta: la sede gli conferisce però un risalto speciale.«Il '68 è stato il proseguimento di una vicenda umana, non soltanto mia, ma di tutta quella generazione che veniva dagli anni Cinquanta, piena di desiderio, a volte inconscio, di cambiamento. Dunque prima che politico, direi che il '68 è stato un fatto propriamente umano. Insomma, un fenomeno di costume». I suoi miti, rivela, non erano Marx e Marcuse (mai letti) ma Bob Dylan, Hemingway, l'America. E l'eskimo «non era politicizzato, non aveva significato ideologico». Infine, il colpo del ko: «L'ideale libertario è sempre esistito nell'uomo e non ha colori o etichette, non può essere fatto proprio dall'ideologia e va ben al di là degli schieramenti di destra e di sinistra».E la fiaccola dell'anarchia?E le bandiere che si è sempre pensato dovessero garrire lì intorno? Deposte, abbandonate incanalandosi nel fiume del tempo, a pochi giorni dalle dichiarazioni di Lucio Dalla che si professa ammiratore dell'Opus Dei? Crollano i miti, a uno a uno? Sono casi diversi, fa notare Enrico Deaglio, «perché uno è un frutto del '77, l'altro no. L'anno che verrà è stata una canzone del movimento. Anche la Locomotiva, beninteso, ma Guccini c'era già prima. E credo sia sempre stato impolitico. Ricordo che dopo la strage di Bologna lo intervistammo per il quotidiano di Lotta Continua. Si stupì, non coglieva il nesso». Lucio Dalla ha parzialmente rettificato, qualche giorno fa, parlando al Tg1. Il «modenese volgare», spiega invece da tempo che le sue canzoni sono esistenziali, perché fare una canzone politica è come comporre l'inno per la propria squadra di calcio. Ma l'effetto rimane. Chi ha fermato la locomotiva? Nessuno, risponde Edmondo Berselli, le cui tesi sul '68 (in Adulti con riserva, Mondadori) non sono poi così lontane. In quel libro, un «Guccio» immaginario - ma verosimile - elogia prima gli inglesi e poi gli americani, in due discorsi di tre pagine, nella Bologna degli anni Sessanta. In realtà, spiega Berselli, c'è un grande fraintendimento: «Guccini è stato unanimemente considerato un vessillifero della rivoluzione, mentre non lo era affatto. Semmai è da sempre un tranquillo riformista, arrabbiato soprattutto per via letteraria. Ha letto più libri dei suoi colleghi». La differenza è però che «gli altri cantautori raccontavano favole, intrecciavano metafore, poesie simboliste, lui raccontava storie, narrava la vita della gente». Ivi compresa quella del ferroviere anarchico che si immola in un attentato suicida. La Locomotiva ha avuto ammiratori insospettabili. Dicono le cronache dell'ormai lontana estate '94 che Umberto Bossi, durante una serata a Ponte di Legno, chiese di cantare «quella canzone lì di Guccini, come si chiama, il treno? ». E' come un poster di Che Guevara: ognuno ci vede quel gli pare. Ed è del resto assolutamente vero, ci assicura Berselli, che al momento della «bomba proletaria », nei concerti, «alzano il pugno e inneggiano anche quelli che adesso votano Forza Italia». L'eskimo è innocente, la Locomotiva è metafisica. E Guccini è sempre lì.
La provocazione di Guccini"L'eskimo? Solo un cappotto"
Francesco Guccini si racconta e forse delude chi lo ama come autore di quella "Locomotiva" simbolo della «giustizia proletaria». Il cantante scrittore, in un´intervista a «Charta minuta» (mensile della fondazione «Farefuturo», vicina al leader di An Gianfranco Fini) spiega infatti che «l´eskimo era solo un cappotto che costava poco». «Non ho mai letto Marx - aggiunge - e credo in quell´ideale libertario che va ben al di là degli schieramenti di destra e di sinistra». «Il mio eskimo senza ideologia», questo il titolo dell´intervista, per raccontare il '68 dopo quarant´anni.L´autore di canzoni come «L´avvelenata» e «Dio è morto» ricorda le notti bolognesi segnate dalla poesia piuttosto che dalla politica, da Bob Dylan e Jorge Luis Borges piuttosto che da Marx e Marcuse. «Direi che il '68 è stato più il proseguimento di una vicenda umana, non soltanto mia, ma di tutta quella generazione che veniva dagli anni Cinquanta, piena di desiderio, a volte forse inconscio, di cambiamento. Dunque, prima che politico, direi che il '68 è stato un fatto propriamente umano. Insomma, un fenomeno di costume».E i modelli, i miti di Guccini in quegli anni? Innanzitutto, e su tutto, l´America. «Era il mito in tutto. Noi leggevamo libri americani, ascoltavamo musica americana, guardavamo film americani. Sapevamo quasi a memoria Caldwell, Hemingway, Doss Passos e Steinbeck». Nella musica, dopo la passione per gente come Jacques Brel o Georges Brassens, ecco che irrompe Bob Dylan: «Lui ci ha spalancato le porte della contestazione studentesca e della canzone di protesta, influenzando molto il comporre di quel periodo: eravamo dylaniani fino al midollo».Nel '68 senza ideologia di Guccini, allora, si capisce meglio anche «l´eskimo innocente» della canzone: «Non lo presi come divisa, ma come un cappotto che costava poco. Lo comperai perché faceva freddo, a Trieste, finito il servizio militare. Non era politicizzato, non aveva significati ideologici». Letture politiche «non ne ho mai fatte in vita mia» e dopo la passione giovanile per i fumetti, da Linus a Snoopy a Paperino, ecco allora Borges, Kerouac, Salinger, «non certo Marx nè Marcuse». «Il nostro era un ideale libertario che è sempre esistito nell´uomo e non ha colori o etichette, non può essere fatto proprio da un´ideologia e va ben al di là degli schieramenti di destra e sinistra».
Da la Repubblica (Bologna) di giovedì 3 gennaio 2008
5 commenti:
qui va a finire che l'ultimo comunista sono io...
...e non sto scherzando...
Komunista, semmai :)))
mi sfugge la sottile differenza fra "comunista" e "Komunista"...
però...
fra veltroni che non è mai stato comunista...
lucio dalla ch... non sia mai...
Guccini che l'eskimo se l'è comprato perché faceva freddo e costava poco...
De André... ma che ne parlamo a fa'?
De Gregori che con il cuoco di salò ha fatto merenda...
rifondazione comunista che accetta di cancellare la falce e martello dal simbolo della "cosa rossa-arcobaleno..."
vuoi vedere che io, proprio io, personalmente io, con il mio chiodo fisso della socializzazione, resto con il cerino in mano?
avanti, autocarri...
Komunista è la più morbida declinazione kennedyana :))
Vabbé, mica bisogna essere comunisti per parlare di socializzazione...
ecco, perché non capivo:
ai miei tempi, usare il "K" innvece della "C" era un'aggravante...
tipo: "Kossiga boia" e non, invece, "Cossiga" con quel che segue...
vabbeh...
per uqanto riguarda la socializzazione, è vero: mica bisogna essere comunisti per assumerne l'eredità storica...
fatto sta: che a fini, alemanno, storace, alessandra mussolini e compagnia cantante, NON passa neanche per l'anticamera del cervello NON dico di proporla come finalità politica (la socializzazione...) ma, almeno, di parlarne...
avanti, autocarri...
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