Dal Secolo d'Italia di giovedì 24 gennaio 2008
Non è bastata neanche Pechino. Il karate resta sport “di nicchia” e non conquista nemmeno in questo 2008 i riflettori olimpici. I cinesi, grandiappassionati di arti marziali, hanno preferito il kung fu, codificato nella sua versione moderna negli anni del maoismo e quindi ritenuto politicamente più in sintonia con la realtà del Celeste impero in cui la deificazione del “grande timoniere” resiste a dispetto di qualsiasi apertura all’Occidente. Contro il karate, disciplina nata in Giappone, resiste un pregiudizio ideologico che non è limitato all’Oriente comunista. In Italia già frequentare una palestra di arti marziali, tra gli anni ’70 e ’80, significava implicitamente collocarsi politicamente.
Se poi in questa palestra si praticava il karate il passaggio a (sospetto) “picchiatore”era (quasi) matematico. la situazione peggiorò quando arrivarono i film cinesi sulle arti marziali e il ciclo con Bruce Lee. Così l’attore Gian Maria Volonté – sul Messaggero del 27 luglio 1975 – lanciava, dal suo punto di vista politicoculturale, un preoccupato allarme sul “fenomeno arti marziali”: «Il mercato è invaso di cinema subculturale, che va dal karate al cittadino che si fa giustizia da sé, e che si traduce in un’azione tendente a fascistizzare il pubblico». Ovvio che questi stereotipi erano il frutto di disinformazione che assimilava le palestre di karate a “covi” di estrema destra. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi le palestre di karate erano centri sportivi dove oltre alla faticosa tecnica si apprendeva una filosofia di vita ben lontana dalla violenza di strada.
Sarebbe il caso di ricordare quei primi anni ’70, quando chi scrive arrivava a Roma proveniente dalla Calabria per l’Università e cominciava a frequentare anche le palestre di karate. Resta così nella memoria lo Shiai, in fondo a via Livorno, la palestra dell’Istituto San Giovanni Evangelista. Il clima era quello accogliente e rilassato di un club in cui un gruppo di amici pratica uno sport che li unisce, indipendentemente dalla propria condizione socio-economica e dove le idee politiche non contano. E quando ci si rivolgeva in segreteria per l’iscrizione non ci si sentiva chiedere il proprio orientamento politico, ma di frequentare il club (gratuitamente) per qualche allenamento e poi, se si gradiva l’ambiente, di perfezionare l’iscrizione.
Allo Shiai si era accomunati nella ricerca della perfezione del gesto tecnico e al sano agonismo, che animava i lunghi e faticosi allenamenti. Era lo spirito che il Sensei (Maestro) l’indimenticato Maurizio Di Chiara, instillava negli allievi, lo stesso spirito che insieme all’amore per il karate lo portava ogni sera in palestra, anche quando il male che lo avrebbe poi consumato già intaccava il suo fisico. Tutti amici, tutti insieme, fieri dell’appartenenza al club, una vera scuola (e non solo di sport), tesi verso il risultato sportivo ottenuto con sacrificio e lunghi allenamenti, senza scorciatoie farmacologiche. Tante medaglie e titoli, in gare nazionali e internazionali, e le convocazioni in Azzurro.
Restano mella memoria romana degli anni Settanta quei ragazzi dello Shiai. Giuseppe, appassionato di paracadutismo, che affettuosamente veniva chiamato Paperino, per la sua capacità di imitare il personaggio dei cartoons. Alessandro detto “Cranius” per la sua già palese stempiatura, appassionato ed esperto di Kata. Mauro “il Toro di Marsciano”, un gigante con la mobilità articolare di un 60 chili. Carlo, detto “il Faina”, decano del gruppo e quasi imbattibile nel Kumite. Marcello appassionato di cultura fisica, grande atleta, che poi avrebbe fatto parte del nucleo storico della squadra dei Carabinieri. Francesco, detentore di vari titoli italiani, apprezzatissimo per la sua umanità oltre che per la sua bravura, che ci affascinava con i racconti sui suoi lunghi viaggi in oriente. Claudio, che insieme a Francesco e Alessandro costituiva il nocciolo duro della squadra del mio stesso club di provenienza. Ettore e Peppe, che tutte le sere venivano da Latina per frequentare la rinomata Scuola di Karate-Do stile Shotokan del Sensei Di Chiara. Ma allo Shiai non c’erano solo ragazzi con la passione per l’agonismo: resta nella memoria la bella famiglia di un rinomato primario medico (che i ventenni samurai consideravano “anziano”, con i suoi 45 anni) che dopo una lunga giornata di lavoro arrivava con moglie e figlio tredicenne a “rilassarsi” con questa dura disciplina. Aveva iniziato per finalità mediche (mal di schiena) e poi, affascinato aveva continuato sino a divenire cintura nera, come il figlio. E poi c’ero anche io, studente di Medicina, che lasciavo i miei libri solo per gli allenamenti allo Shiai.
E una sera, dopo molti anni, Mauro chiama tutti quelli che riesce a rintracciare: «Ragazzi venerdì prossimo ci si rivede, una pizza tutti insieme come ai vecchi tempi». E quando ci ritroviamo il clima e l’affiatamento sono sempre gli stessi. Ci sentiamo sempre i ragazzi dello Shiai, quel bel gruppo che gli altri club ammiravano.
Niente di strano, se non fosse che sono passati 29 anni dalla chiusura del club, e che ormai siamo tutti cinquantenni. Il primo pensiero va al Maestro Di Chiara, grazie al quale questo gruppo esiste(va) e a Ettore, che (come abbiamo scoperto) non è più tra noi. E così passiamo insieme una bella serata, con i ricordi e i racconti delle nostre gesta sportive e di gioventù. C’e’ Giuseppe, che è venuto appositamente da Verona, dove lavora per una ditta farmaceutica e dove ha una sua palestra: allena un gruppo di ragazzi che sanno tutto sullo Shiai attraverso i suoi racconti. Per lui il tempo non sembra passato, è sempre il “Paperino” che tutti ricordiamo mentre curava la nostra preparazione atletica e l’esecuzione dei Kata; e i suoi occhi diventano lucidi quando gli dico che questo pezzo sarà pubblicato dal quotidiano di cui suo padre è stato direttore. C’è il Faina, che ora dirige l’azienda di famiglia, con il suo sguardo sornione ed ironico di sempre. Alessandro “Cranius” ora è un chirurgo affermato, un po’ ingrassato, e medita di darsi al Sumo, ma lo sono anche io (peso esattamente la metà di lui). Mauro, il Toro di Marsciano, è diventato un affermato imprenditore, ma è sempre il solito giocherellone. Anche per Guido il tempo sembra essersi fermato (mi viene da pensare che forse è ancora veloce come allora). Francesco è sempre appassionato di arti marziali: V Dan di Nippon Kempo, ha una palestra tutta sua ed è sempre più “arma letale”, come lo chiamavamo da ragazzi. Anche Claudio si è un po’ ingrassato, ora dirige un’impresa d’impianti di sicurezza e conserva uno sguardo che ti trapassa. Io ho da poco 50 anni (e ancora non mi sento anziano!), ho preso 20 chili, ho meno capelli, sempre più brizzolati, ma mi alleno ogni volta che posso. Sono diventato un medico uro-oncologo, lavoro che faccio con passione, e parlo dello Shiai ai miei due figli, anche loro karateka, e con il mio attuale Maestro, Vitaliano Morandi (grazie al quale ho ripreso ad allenarmi) e che a quei tempi faceva parte di un altro storico club romano che affrontavamo in gara.
Nessuno di noi è in qualche modo coinvolto con impegni partitici anche se ovviamente abbiamo le nostre opinioni che spaziano dal nostalgico al riformista, al... chi se ne cura. Tra noi è ancora integro il filo invisibile che ci univa (e che ci unisce ancora) fatto di amicizia, rispetto e un pizzico di nostalgia per quei tempi e quell’entusiasmo. Come ha detto Gichin Funakoshi, fondatore del karate stile Shotokan: «Il fine ultimo del karate non è la vittoria o la sconfitta, ma il perfezionamento del carattere di chi lo pratica». È lo spirito dei ragazzi del karate anni Settanta.
F. d. P.
Se poi in questa palestra si praticava il karate il passaggio a (sospetto) “picchiatore”era (quasi) matematico. la situazione peggiorò quando arrivarono i film cinesi sulle arti marziali e il ciclo con Bruce Lee. Così l’attore Gian Maria Volonté – sul Messaggero del 27 luglio 1975 – lanciava, dal suo punto di vista politicoculturale, un preoccupato allarme sul “fenomeno arti marziali”: «Il mercato è invaso di cinema subculturale, che va dal karate al cittadino che si fa giustizia da sé, e che si traduce in un’azione tendente a fascistizzare il pubblico». Ovvio che questi stereotipi erano il frutto di disinformazione che assimilava le palestre di karate a “covi” di estrema destra. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi le palestre di karate erano centri sportivi dove oltre alla faticosa tecnica si apprendeva una filosofia di vita ben lontana dalla violenza di strada.
Sarebbe il caso di ricordare quei primi anni ’70, quando chi scrive arrivava a Roma proveniente dalla Calabria per l’Università e cominciava a frequentare anche le palestre di karate. Resta così nella memoria lo Shiai, in fondo a via Livorno, la palestra dell’Istituto San Giovanni Evangelista. Il clima era quello accogliente e rilassato di un club in cui un gruppo di amici pratica uno sport che li unisce, indipendentemente dalla propria condizione socio-economica e dove le idee politiche non contano. E quando ci si rivolgeva in segreteria per l’iscrizione non ci si sentiva chiedere il proprio orientamento politico, ma di frequentare il club (gratuitamente) per qualche allenamento e poi, se si gradiva l’ambiente, di perfezionare l’iscrizione.
Allo Shiai si era accomunati nella ricerca della perfezione del gesto tecnico e al sano agonismo, che animava i lunghi e faticosi allenamenti. Era lo spirito che il Sensei (Maestro) l’indimenticato Maurizio Di Chiara, instillava negli allievi, lo stesso spirito che insieme all’amore per il karate lo portava ogni sera in palestra, anche quando il male che lo avrebbe poi consumato già intaccava il suo fisico. Tutti amici, tutti insieme, fieri dell’appartenenza al club, una vera scuola (e non solo di sport), tesi verso il risultato sportivo ottenuto con sacrificio e lunghi allenamenti, senza scorciatoie farmacologiche. Tante medaglie e titoli, in gare nazionali e internazionali, e le convocazioni in Azzurro.
Restano mella memoria romana degli anni Settanta quei ragazzi dello Shiai. Giuseppe, appassionato di paracadutismo, che affettuosamente veniva chiamato Paperino, per la sua capacità di imitare il personaggio dei cartoons. Alessandro detto “Cranius” per la sua già palese stempiatura, appassionato ed esperto di Kata. Mauro “il Toro di Marsciano”, un gigante con la mobilità articolare di un 60 chili. Carlo, detto “il Faina”, decano del gruppo e quasi imbattibile nel Kumite. Marcello appassionato di cultura fisica, grande atleta, che poi avrebbe fatto parte del nucleo storico della squadra dei Carabinieri. Francesco, detentore di vari titoli italiani, apprezzatissimo per la sua umanità oltre che per la sua bravura, che ci affascinava con i racconti sui suoi lunghi viaggi in oriente. Claudio, che insieme a Francesco e Alessandro costituiva il nocciolo duro della squadra del mio stesso club di provenienza. Ettore e Peppe, che tutte le sere venivano da Latina per frequentare la rinomata Scuola di Karate-Do stile Shotokan del Sensei Di Chiara. Ma allo Shiai non c’erano solo ragazzi con la passione per l’agonismo: resta nella memoria la bella famiglia di un rinomato primario medico (che i ventenni samurai consideravano “anziano”, con i suoi 45 anni) che dopo una lunga giornata di lavoro arrivava con moglie e figlio tredicenne a “rilassarsi” con questa dura disciplina. Aveva iniziato per finalità mediche (mal di schiena) e poi, affascinato aveva continuato sino a divenire cintura nera, come il figlio. E poi c’ero anche io, studente di Medicina, che lasciavo i miei libri solo per gli allenamenti allo Shiai.
E una sera, dopo molti anni, Mauro chiama tutti quelli che riesce a rintracciare: «Ragazzi venerdì prossimo ci si rivede, una pizza tutti insieme come ai vecchi tempi». E quando ci ritroviamo il clima e l’affiatamento sono sempre gli stessi. Ci sentiamo sempre i ragazzi dello Shiai, quel bel gruppo che gli altri club ammiravano.
Niente di strano, se non fosse che sono passati 29 anni dalla chiusura del club, e che ormai siamo tutti cinquantenni. Il primo pensiero va al Maestro Di Chiara, grazie al quale questo gruppo esiste(va) e a Ettore, che (come abbiamo scoperto) non è più tra noi. E così passiamo insieme una bella serata, con i ricordi e i racconti delle nostre gesta sportive e di gioventù. C’e’ Giuseppe, che è venuto appositamente da Verona, dove lavora per una ditta farmaceutica e dove ha una sua palestra: allena un gruppo di ragazzi che sanno tutto sullo Shiai attraverso i suoi racconti. Per lui il tempo non sembra passato, è sempre il “Paperino” che tutti ricordiamo mentre curava la nostra preparazione atletica e l’esecuzione dei Kata; e i suoi occhi diventano lucidi quando gli dico che questo pezzo sarà pubblicato dal quotidiano di cui suo padre è stato direttore. C’è il Faina, che ora dirige l’azienda di famiglia, con il suo sguardo sornione ed ironico di sempre. Alessandro “Cranius” ora è un chirurgo affermato, un po’ ingrassato, e medita di darsi al Sumo, ma lo sono anche io (peso esattamente la metà di lui). Mauro, il Toro di Marsciano, è diventato un affermato imprenditore, ma è sempre il solito giocherellone. Anche per Guido il tempo sembra essersi fermato (mi viene da pensare che forse è ancora veloce come allora). Francesco è sempre appassionato di arti marziali: V Dan di Nippon Kempo, ha una palestra tutta sua ed è sempre più “arma letale”, come lo chiamavamo da ragazzi. Anche Claudio si è un po’ ingrassato, ora dirige un’impresa d’impianti di sicurezza e conserva uno sguardo che ti trapassa. Io ho da poco 50 anni (e ancora non mi sento anziano!), ho preso 20 chili, ho meno capelli, sempre più brizzolati, ma mi alleno ogni volta che posso. Sono diventato un medico uro-oncologo, lavoro che faccio con passione, e parlo dello Shiai ai miei due figli, anche loro karateka, e con il mio attuale Maestro, Vitaliano Morandi (grazie al quale ho ripreso ad allenarmi) e che a quei tempi faceva parte di un altro storico club romano che affrontavamo in gara.
Nessuno di noi è in qualche modo coinvolto con impegni partitici anche se ovviamente abbiamo le nostre opinioni che spaziano dal nostalgico al riformista, al... chi se ne cura. Tra noi è ancora integro il filo invisibile che ci univa (e che ci unisce ancora) fatto di amicizia, rispetto e un pizzico di nostalgia per quei tempi e quell’entusiasmo. Come ha detto Gichin Funakoshi, fondatore del karate stile Shotokan: «Il fine ultimo del karate non è la vittoria o la sconfitta, ma il perfezionamento del carattere di chi lo pratica». È lo spirito dei ragazzi del karate anni Settanta.
F. d. P.
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