Articolo di Adriano Scianca
Dal Secolo d'Italia di martedì 8 gennaio 2008
Dal Secolo d'Italia di martedì 8 gennaio 2008
All’inizio degli anni ’80 lo studioso Jeffrey Herf (foto a destra) coniava l’espressione “modernismo reazionario” per definire quelle correnti politico-intellettuali che negli anni ’20 e ’30 in Germania «univano reazione politica e progresso tecnologico». Parafrasando il professore dell’università del Maryland, si potrebbe invece affermare che buona parte della seconda metà del Novecento sia invece stata dominata dal “reazionarismo moderno”, fenomeno tutto di sinistra. Ovvero da quell’atteggiamento che fa della modernità di stampo illuministico un valore assoluto e imprescindibile, che è impossibile e quasi blasfemo mettere in discussione. E che, nel concreto dibattito etico-politico, si trasforma in un neo-moralismo stizzito, intristito e rancoroso che non sa accettare le sfide della contemporaneità postmoderna. Un atteggiamento che ha ricreato anche di recente improbabili assi politici e culturali tra illuministi e marxisti, uniti nella lotta contro la tentazione postmoderna.
Uno degli alfieri del “reazionarismo moderno” è stato senz’altro il critico letterario americano di estrazione neo-marxista Fredric Jameson (a sinistra), la cui opera principale, risalente anch’essa agli anni ’80, è giunta nelle librerie italiane in versione integrale solo da pochissimo. Parliamo di Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (Fazi editore, 450 p. 39,50 €), saggio mastodontico di cui nel nostro paese era uscita in traduzione solamente il primo capitolo. L’argomento di Jameson è trasparente sin dal titolo della sua opera: per lo studioso americano il postmoderno non sarebbe altro che la “dominante culturale” dell’Occidente nella sua fase “tardo-capitalista”. La cultura postmoderna non sarebbe per nulla una ludica e innocente sperimentazione nietzscheana, quanto piuttosto la ben più concreta espressione sovrastrutturale del nuovo dominio economico e militare dell’America nel mondo. «Soltanto nei termini di quest’altra realtà, quella delle istituzioni economiche e sociali – afferma il critico letterario – è a mio avviso possibile teorizzare adeguatamente il sublime postmoderno».
Per Jameson, la cultura della postmodernità non sarebbe altro che un «paesaggio “degradato” di kitsch e scarti, di serial televisivi e cultura da Reader’s Digest, di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B e della cosiddetta paraletteratura con i suoi paperback da aeroporto, divisi nelle categorie del gotico e del romanzo rosa, della biografia romanzata e del giallo, della fantascienza e della fantasy: materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente “citati”, come sarebbe potuto accadere in Joyce o Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza». Ecco quindi che la problematica che si impone agli occhi dell’osservatore della “condizione postmoderna” non può che essere quella di indagare «in che modo lo squallore urbano possa essere un piacere per gli occhi, quando è espresso con la mercificazione, e in che modo un balzo incomparabilmente alto nell’alienazione della vita quotidiana della città possa ora essere vissuto sotto forma di una nuova e strana allegria allucinatoria». Una critica impietosa, ma dietro la quale emergono tratti marcatamente “reazionari”, nel senso di passatisti se non nostalgici. C’è l’impressione, insomma, che il “progresso” abbia corso troppo per far sì che i progressisti stessero al passo. Da qui le grida scandalizzate dei fautori moralistici del nuovo ancien régime. Per i quali ormai la vitalità è un peccato, i giovani non sono più quelli di una volta a causa delle “diavolerie tecnologiche” e, di sicuro, “si stava meglio quando si stava peggio”. Un neo-moralismo, questo, che sembra attecchire con particolare facilità a sinistra, dove il residuo acidulo di complessi di superiorità fuori tempo massimo e la delusione ancora non digerita per le promesse non mantenute di troppi messianismi ha dato vita ai nuovi soloni in servizio permanente effettivo contro il “disimpegno” e la “crisi dei valori”. È esattamente in questo senso che Eugenio Scalfari, insieme a tutta la truppa radical chic, lanciò qualche anno fa una crociata neoilluminista contro le pericolose tentazioni nietzscheane del mondo culturale. «Il mondo moderno – sosteneva l’ex direttore di la Repubblica – soffre non per un eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità; la razionalità è minoritaria, la razionalità è controcorrente, la razionalità meriterebbe un’azione filosofica e storica di recupero». I valori (illuministi) di una volta, insomma, non ci sono più. O tempora, o mores. Un bel passo indietro, dopo che gli intellettuali francesi degli anni Settanta (Deleuze, Guattari, Foucault, Derrida) si erano ubriacati, pur provenendo “da sinistra”, del nettare di Zarathustra. Il pensatore americano Scott Lash, del resto, aveva già evidenziato, dal canto suo, l’inadeguatezza del postmodernismo a portare avanti battaglie politiche canalizzate a sinistra: «Ritengo – aveva scritto – che la cultura postmodernista, tutto sommato, non abbia approntato un terreno favorevole per la politica di sinistra. Il modernismo ha offerto un’arena molto più favorevole su cui ingaggiare le tradizionali battaglie culturali della sinistra».
Il segugio politicamente corretto Richard Wolin, già segnalatosi per aver “smascherato” le frequentazioni intellettualmente poco chic di Martin Heidegger e Hans-George Gadamer, rincarava la dose: «La mia opinione è che a un certo punto, l’ostilità del postmodernismo nei confronti della “ragione” e della “verità” sia intellettualmente insostenibile e politicamente debilitante [.. ]. Quando, in virtù della pratica dell’“ermeneutica del sospetto” neonietzscheana, la ragione e la democrazia sono ridotti ad oggetti di diffidenza, si è invitati all’impotenza politica: si rischia di abbandonare ogni capacità di azione effettiva nel mondo».
E, su tutti, si era distinto il filosofo francofortese pentito Jürgen Habermas, che ricevendo il Premio Adorno, l’11 settembre 1980, aveva denunciato come i postmoderni «ammantino soltanto la loro complicità con una veneranda tradizione del controilluminismo, spacciandola per post-illuminismo». Per dirla con Giovanna Borradori, insomma, Habermas criticava il postmodernismo in quanto il suo attacco alla ragione illuministica sfocia nell’irrazionalismo, «una tendenza che ci rende più vulnerabili e non meno vulnerabili, alla minaccia del fascismo». Addirittura. Il nuovo fascismo contro cui serrare i ranghi, quindi, sarebbe un misto di Nietzsche e Quentin Tarantino, Heidegger e i videofonini, Deleuze e le Veline, Gadamer e Vacanze di natale. Ecco allora che il “fronte della tristezza” si compatta contro la superficialità fascio-postmoderna, in nome di una morigerata serietà cattocomunista ben ritratta nel volto tirato del premier Romano Prodi, che per distinguersi dalle “gigionerie” della destra ha ormai smesso di sorridere. Perché c’è da lavorare, capite?, c’è da riportare la realtà al pari della “Ragione”, altro che chiacchiere. E se i fatti danno torto alla Ragione, allora tanto peggio per i fatti, così come se gli italiani non capiscono il governo sono loro ad essere “matti”. Matti e ingrati, che non comprendono chi tutela il loro bene. È proprio vero, non c’è più religione.
Uno degli alfieri del “reazionarismo moderno” è stato senz’altro il critico letterario americano di estrazione neo-marxista Fredric Jameson (a sinistra), la cui opera principale, risalente anch’essa agli anni ’80, è giunta nelle librerie italiane in versione integrale solo da pochissimo. Parliamo di Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (Fazi editore, 450 p. 39,50 €), saggio mastodontico di cui nel nostro paese era uscita in traduzione solamente il primo capitolo. L’argomento di Jameson è trasparente sin dal titolo della sua opera: per lo studioso americano il postmoderno non sarebbe altro che la “dominante culturale” dell’Occidente nella sua fase “tardo-capitalista”. La cultura postmoderna non sarebbe per nulla una ludica e innocente sperimentazione nietzscheana, quanto piuttosto la ben più concreta espressione sovrastrutturale del nuovo dominio economico e militare dell’America nel mondo. «Soltanto nei termini di quest’altra realtà, quella delle istituzioni economiche e sociali – afferma il critico letterario – è a mio avviso possibile teorizzare adeguatamente il sublime postmoderno».
Per Jameson, la cultura della postmodernità non sarebbe altro che un «paesaggio “degradato” di kitsch e scarti, di serial televisivi e cultura da Reader’s Digest, di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B e della cosiddetta paraletteratura con i suoi paperback da aeroporto, divisi nelle categorie del gotico e del romanzo rosa, della biografia romanzata e del giallo, della fantascienza e della fantasy: materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente “citati”, come sarebbe potuto accadere in Joyce o Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza». Ecco quindi che la problematica che si impone agli occhi dell’osservatore della “condizione postmoderna” non può che essere quella di indagare «in che modo lo squallore urbano possa essere un piacere per gli occhi, quando è espresso con la mercificazione, e in che modo un balzo incomparabilmente alto nell’alienazione della vita quotidiana della città possa ora essere vissuto sotto forma di una nuova e strana allegria allucinatoria». Una critica impietosa, ma dietro la quale emergono tratti marcatamente “reazionari”, nel senso di passatisti se non nostalgici. C’è l’impressione, insomma, che il “progresso” abbia corso troppo per far sì che i progressisti stessero al passo. Da qui le grida scandalizzate dei fautori moralistici del nuovo ancien régime. Per i quali ormai la vitalità è un peccato, i giovani non sono più quelli di una volta a causa delle “diavolerie tecnologiche” e, di sicuro, “si stava meglio quando si stava peggio”. Un neo-moralismo, questo, che sembra attecchire con particolare facilità a sinistra, dove il residuo acidulo di complessi di superiorità fuori tempo massimo e la delusione ancora non digerita per le promesse non mantenute di troppi messianismi ha dato vita ai nuovi soloni in servizio permanente effettivo contro il “disimpegno” e la “crisi dei valori”. È esattamente in questo senso che Eugenio Scalfari, insieme a tutta la truppa radical chic, lanciò qualche anno fa una crociata neoilluminista contro le pericolose tentazioni nietzscheane del mondo culturale. «Il mondo moderno – sosteneva l’ex direttore di la Repubblica – soffre non per un eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità; la razionalità è minoritaria, la razionalità è controcorrente, la razionalità meriterebbe un’azione filosofica e storica di recupero». I valori (illuministi) di una volta, insomma, non ci sono più. O tempora, o mores. Un bel passo indietro, dopo che gli intellettuali francesi degli anni Settanta (Deleuze, Guattari, Foucault, Derrida) si erano ubriacati, pur provenendo “da sinistra”, del nettare di Zarathustra. Il pensatore americano Scott Lash, del resto, aveva già evidenziato, dal canto suo, l’inadeguatezza del postmodernismo a portare avanti battaglie politiche canalizzate a sinistra: «Ritengo – aveva scritto – che la cultura postmodernista, tutto sommato, non abbia approntato un terreno favorevole per la politica di sinistra. Il modernismo ha offerto un’arena molto più favorevole su cui ingaggiare le tradizionali battaglie culturali della sinistra».
Il segugio politicamente corretto Richard Wolin, già segnalatosi per aver “smascherato” le frequentazioni intellettualmente poco chic di Martin Heidegger e Hans-George Gadamer, rincarava la dose: «La mia opinione è che a un certo punto, l’ostilità del postmodernismo nei confronti della “ragione” e della “verità” sia intellettualmente insostenibile e politicamente debilitante [.. ]. Quando, in virtù della pratica dell’“ermeneutica del sospetto” neonietzscheana, la ragione e la democrazia sono ridotti ad oggetti di diffidenza, si è invitati all’impotenza politica: si rischia di abbandonare ogni capacità di azione effettiva nel mondo».
E, su tutti, si era distinto il filosofo francofortese pentito Jürgen Habermas, che ricevendo il Premio Adorno, l’11 settembre 1980, aveva denunciato come i postmoderni «ammantino soltanto la loro complicità con una veneranda tradizione del controilluminismo, spacciandola per post-illuminismo». Per dirla con Giovanna Borradori, insomma, Habermas criticava il postmodernismo in quanto il suo attacco alla ragione illuministica sfocia nell’irrazionalismo, «una tendenza che ci rende più vulnerabili e non meno vulnerabili, alla minaccia del fascismo». Addirittura. Il nuovo fascismo contro cui serrare i ranghi, quindi, sarebbe un misto di Nietzsche e Quentin Tarantino, Heidegger e i videofonini, Deleuze e le Veline, Gadamer e Vacanze di natale. Ecco allora che il “fronte della tristezza” si compatta contro la superficialità fascio-postmoderna, in nome di una morigerata serietà cattocomunista ben ritratta nel volto tirato del premier Romano Prodi, che per distinguersi dalle “gigionerie” della destra ha ormai smesso di sorridere. Perché c’è da lavorare, capite?, c’è da riportare la realtà al pari della “Ragione”, altro che chiacchiere. E se i fatti danno torto alla Ragione, allora tanto peggio per i fatti, così come se gli italiani non capiscono il governo sono loro ad essere “matti”. Matti e ingrati, che non comprendono chi tutela il loro bene. È proprio vero, non c’è più religione.
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