Dal Secolo d'Italia di mercoledì 6 febbraio
La sua è una delle vicende artistiche più importanti del Novecento. Sono indimenticabili i suoi “sacchi”, i suoi “legni”, i “ferri”, le “combustioni”, le “plastiche”, i “cretti”. Il suo quadro SZ1 del 1949, oggi universalmente riconosciuto come il vessillo della sua rivoluzione nella storia della pittura moderna, anticipa Rauschenberg, Tàpies e la stessa Pop Art. In quel quadro aveva utilizzato porzioni di sacco con la bandiera americana anticipando Jasper Johns che solo nel ’54 produrrà un’opera con lo stesso soggetto. Come annota Lorenza Trucchi, «pur essendo uno degli artisti più nuovi, germinali, Alberto Burri, aveva un “cuore antico”: non ha mai rinnegato l’altra tradizione dell’Occidente, e all’opposto, ha creduto sempre con fermezza al primato della cultura e dell’arte europee». In un clima montante di inarrestabile predominio americano venne definito «il primo classico dell’Europa povera». Del resto, Burri fu artista senza maestri e scuole. Scelse di diventare pittore in un campo di prigionia texano in cui, per oltre due anni, fu internato tra i “non cooperatori”: quegli italiani che, non avendo accettato la proposta di collaborazionismo degli americani, avevano continuato in questo modo la guerra fascista anche da prigionieri.
A 13 anni dalla morte un artista così importante non aveva però ancora trovato un biografo in Italia. È quindi un fatto di rilievo l’iniziativa della Quadriennale di Roma – guidata dall’infaticabile Gino Agnese – di pubblicare con l’editrice Electa la prima biografia del maestro nato a Città di Castello il 12 marzo 1915. Non si tratta oltretutto di un arido libro d’arte, ma piuttosto del racconto dell’avventura esistenziale, la ricostruzione della cultura, delle amicizie, degli affetti di un artista che ha lasciato il suo inconfondibile segno sul Novecento. La ricostruzione è stata affidata a Piero Palumbo, una vera garanzia – già giornalista di vaglia, ex inviato speciale, tra i fondatori del Bagaglino, autore teatrale e di programmi radiofonici e televisivi – per un libro ben scritto e che si legge tutto d’un fiato. Burri una vita, è il frutto di una ricerca durata quasi due anni, alla quale ha collaborato l’Archivio Biblioteca della Quadriennale di Roma. Oltre duecento pagine e decine di fotografie ripercorrono la vita di Burri, dagli anni dell’infanzia a Città di Castello agli scenari africani di due guerre, dal “cielo rosso” del Texas alla Roma polemica ed effervescente del dopoguerra, da Los Angeles fino all’ultimo periodo del “buen retiro” sulla Costa Azzurra. Arricchito dai ricordi di tre amici del maestro – Giovanni Caradente, Lorenza Trucchi e lo stesso Gino Agnese – il libro raccoglie anche un centinaia d’immagini, molte delle quali inedite, con scatti d’autore firmati tra gli altri da Amendola, Loy, Lulas, fotografi che hanno frequentato l’artista in periodi diversi della sua vita. «Riconosciuto in tutto il mondo come artefice di una svolta rivoluzionaria nel campo dell’arte, rappresentato nelle più importanti sedi museali, insignito di riconoscimenti definitivi, occupa – scrive Palumbo nell’introduzione – senza contestazione un posto di prima fila nella classifica degli italiani che hanno illuminato la seconda metà del Novecento». E il critico Cesare Brandi, lo definì «italiano senza retorica e internazionale» allo stesso tempo. Non indossò mai la cravatta, rifiutava la mondanità. Era legato solo al paese natio e agli amici dell’infanzia e della giovinezza, amava l’avventura, la natura, la caccia, la fotografia, il vino, le serate all’osteria, la lettura, il gioco del calcio… Non fu un uomo facile, mai accomodante, non si arricchì, nessuna delle sue scelte suggerita dal calcolo dell’utilità. Rifiuto, e fece di tutto per non farsela mai affibbiare, l’etichetta di intellettuale. Precisa Palumbo: «Era un uomo riluttante a compiacere i potenti, incapace di blandire, sollecitare, affidarsi alle benevolenze altrui». Rifiutò quasi sempre i premi, non amava i giornali, si sottraeva alle cerimonie ufficiali, ignorava la mondanità. All’inaugurazione del museo che aveva voluto per tutta la vita, l’istituzione cui aveva regalato la maggior parte delle sue opere, non fu presente, tanto aveva in fastidio i discorsi ufficiali, la retorica, le benedizioni e gli inni». Politicamente, si vantò di non essere mai andato alle urne dopo il 2 giugno 1946, unica volta in cui votò, facendone pubblica dichiarazione, a favore della Repubblica. Il modo migliore, spiegò, per esprimere tutta la sua riprovazione per il tradimento dell’8 settembre. All’origine del suo immaginario e delle sue intuizioni c’erano, indubbiamente, le sue due passioni giovanili: i fumetti e la letteratura greca. Da adolescente divorava L’Avventuroso, L’Intrepido, Jumbo e Rin Tin Tin, i settimanali a fumetti degli anni Trenta. E anche quando sarà anziano e celebre manderà suoi amici alla mostra del fumetto di Lucca per acquistare per lui vecchie raccolte a fumetti. Sullo sfondo, l’attrazione per l’esotismo e l’avventura. «Il mal d’Africa – racconta Palumbo – lo contagiò prima di ogni esperienza africana, molto prima che Mussolini ne attribuisse i sintomi agli italiani tutti». E il trascorrere degli anni non affievolirà mai questa sua attitudine: per tutta la vita Burri avrà una predilezione per la sahariana, indossata in tutte le circostanze della sua vita. L’altra grande passione, oltre a quella di leggere tutto, dalla fantascienza ai Cantos di Ezra Pound, era per la letteratura greca classica. E c’è chi ha collegato questa passione con lo sviluppo della sua specifica arte. Secondo la grecista Monica Centanni, infatti, «conoscere il greco, leggerlo tutta la vita come fece Burri significa cercare specialmente nella poesia greca un modo di dire il mondo. La sua opera – sostiene la studiosa – “pensa greco”: frammenti di versi come frammenti di materia che sono passati attraverso il fuoco di una catastrofe epocale (il naufragio della letteratura greca come la guerra mondiale del Novecento) ma che riescono a restituire per brani il racconto di un mondo perduto». A vent’anni, nell’ottobre del 1935, il giovane Burri si entusiasma quindi per l’avventura italiana in Etiopia. Del resto, come ha scritto lo storico francese Pierre Milza, tutti gli italiani aderirono entusiasti attratti dal tema «della guerra dei poveri, dei diseredati, dei proletari contro il fronte del conservatorismo». E, studente di medicina a Perugia, si arruola e parte volontario con gli universitari della 104° Legione. Torna nel ’36, e si butta begli studi convinto di dover fare un giorno il medico. Ma il 9 ottobre 1940, cinque mesi dopo la laurea, fu richiamato alle armi, trasmigrò al 102° battaglione Camicie Nere, unità con la quale si imbarcò il 6 aprile 1941 da Bari alla volta dell’Albania. Poi, dopo la tragica notizia che suo fratello Vittorio era morto sul fronte russo, destinazione Libia. Nel 1943, ufficiale medico, viene fatto prigioniero dagli inglesi e poi trasferito agli americani che lo deportarono a Hereford, un campo di concentramento di guerra presso Amarillo, in Texas. «Quando fui deportato in America – ricordò lo stesso Burri – l’unico bagaglio che portai con me fu lo zainetto sanitario che conteneva fiale, medicine e altro. Pensai che ne avrei avuto bisogno durante la prigionia. E invece fu la prima cosa che mi tolsero. Mi tolsero lo zainetto e mi rubarono l’orologio. Ecco quale fu per me il benvenuto…». Con Burri, condivisero quell’esperienza tanti ufficiali che diverranno poi personaggi noti nell’Italia postfascista: tra i tanti, i romanzieri Giuseppe Berto – che propriò lì comincio a scrivere il suo Il cielo è rosso – e Gaetano Tumiati, lo scrittore Dante Troisi, il giornalista e gastronomo Vincenzo Buonassisi, il musicista Mario Medici, i pittori Ervardo Fioravanti, Gaio Bacci e Dino Gambetti, i futuri parlamentari missini Beppe Niccolai, Roberto Mieville, Nino De Totto e Gianni Roberti. Burri era arrivato a Hereford convinto di poter esercitare la sua professione di medico, Ma proprio lì la conversione. Più o meno disgustato, impedito di fare diagnosi e terapie, sin dalle prime settimane si mise a dipingere: divenne un pittore. «La leggenda che circolava nel campo – scriverà anni dopo Giuseppe Berto – era che c’era fra noi un medico il quale, schifato dall’umanità, aveva deciso che gli uomini non meritavano più le sue cure e perciò s’era riproposto di non fare più il medico». E tutto sommato Burri confermerà. «C’è una parte di verità», dirà a Stefano Zorzi. Come il francese Cèline, anche l’italiano Burri deciderà si passare dalla medicina all’arte. E l’opera prima riconosciuta dalla critica è Texas: la raffigurazione del paesaggio che i prigionieri vedevano ogni giorno, una distesa di terra colorata dai riflessi di un sole implacabile. Un paesaggio texano con il treno da una parte e il reticolato dall’altra, dipinto – è la prima volta – su una tela di sacco. Finita la prigionia, Burri tornò in Italia fermo nella sua determinazione di non tornare alla medicina e di darsi completamente all’arte. Il “dottor Burri” sarebbe stato il pittore Burri. Alla fine degli anni Quaranta è a Roma, shierato decisamente dalla parte dell’arte d’avanguardia. Erano gli anni della polemica tra figurativi e astratti. «Per un paradosso non infrequente – annota Palumbo – sulla trincea della conservazione si attestarono soprattutto i partiti e gli intellettuali progressisti, debitori di lealtà nei confronti del realismo di Zdanov, ministro della cultura di Stalin». E non a caso l’apparizione alla galleria d’arte moderna di un “sacco” di Burri susciterà nel 1959 un’indignata interrogazione parlamentare firmata dall’esponente del Pci Umberto Terracini. I comunisti attaccavano quasiasi artista che si distaccava dal realismo socialista e propondesse per scelte moderne. «Riabbracciò – ricorda Palumbo – sempre volentieri i commilitoni della prigionia, aderì e pagò puntualmente le quote all’associazione dei reduci di Hereford, partecipando anche ai raduni annuali». Poi, dal 1949 in poi saranno gli ambienti internazionali a scoprirlo e lanciarlo come uno dei più grandi artisti del secolo. E dai “sacchi” Burri passerà a tante altre “materie“, tutte utili allo scopo, nessuna insostituibile: cellotex, legni, catami, solo per ricordarne qualcuna. Quando il più noto degli imprenditori italiani, Gianni Agnelli, bussò alla sua porta per acquistare un “sacco”, Burri finse di essere colpito da un improvviso mal di schiena. Lo accolse e gli disse di no: «Peccato, avvocato… Se fosse venuto trent’anni fa, l’avrebbe acquistato per pochi soldi: adesso li ho dati tutti via…». Negli anni Sessanta l’ex prigioniero di Hereford – che nel frattempo aveva sposato un’americana – si indusse anche ad acquistare una casa a Los Angeles, dove trascorreva buona parte dell’anno. Nel 1991, dopo molti anni di pendolarismo tra l’Italia e la California, decise di tornare definitivamente in Europa. E la casa di Beaulieu-sur-mer, sulla Costa azzurra, fu l’ultima tappa del suo itinerario che concluse da ottantenne il 13 gennaio 1995. La sua salma fu trasportata a Città di Castello. E nel cimitero della cittadina umbra fu salutata solo da una piccola folla di amici e estimatori. Burri aveva indosso la sahariana di sempre. Ha raccontato il suo amico Primetto Barelli: «Gli infilai ai piedi le scarpe militari, come lui voleva».
A 13 anni dalla morte un artista così importante non aveva però ancora trovato un biografo in Italia. È quindi un fatto di rilievo l’iniziativa della Quadriennale di Roma – guidata dall’infaticabile Gino Agnese – di pubblicare con l’editrice Electa la prima biografia del maestro nato a Città di Castello il 12 marzo 1915. Non si tratta oltretutto di un arido libro d’arte, ma piuttosto del racconto dell’avventura esistenziale, la ricostruzione della cultura, delle amicizie, degli affetti di un artista che ha lasciato il suo inconfondibile segno sul Novecento. La ricostruzione è stata affidata a Piero Palumbo, una vera garanzia – già giornalista di vaglia, ex inviato speciale, tra i fondatori del Bagaglino, autore teatrale e di programmi radiofonici e televisivi – per un libro ben scritto e che si legge tutto d’un fiato. Burri una vita, è il frutto di una ricerca durata quasi due anni, alla quale ha collaborato l’Archivio Biblioteca della Quadriennale di Roma. Oltre duecento pagine e decine di fotografie ripercorrono la vita di Burri, dagli anni dell’infanzia a Città di Castello agli scenari africani di due guerre, dal “cielo rosso” del Texas alla Roma polemica ed effervescente del dopoguerra, da Los Angeles fino all’ultimo periodo del “buen retiro” sulla Costa Azzurra. Arricchito dai ricordi di tre amici del maestro – Giovanni Caradente, Lorenza Trucchi e lo stesso Gino Agnese – il libro raccoglie anche un centinaia d’immagini, molte delle quali inedite, con scatti d’autore firmati tra gli altri da Amendola, Loy, Lulas, fotografi che hanno frequentato l’artista in periodi diversi della sua vita. «Riconosciuto in tutto il mondo come artefice di una svolta rivoluzionaria nel campo dell’arte, rappresentato nelle più importanti sedi museali, insignito di riconoscimenti definitivi, occupa – scrive Palumbo nell’introduzione – senza contestazione un posto di prima fila nella classifica degli italiani che hanno illuminato la seconda metà del Novecento». E il critico Cesare Brandi, lo definì «italiano senza retorica e internazionale» allo stesso tempo. Non indossò mai la cravatta, rifiutava la mondanità. Era legato solo al paese natio e agli amici dell’infanzia e della giovinezza, amava l’avventura, la natura, la caccia, la fotografia, il vino, le serate all’osteria, la lettura, il gioco del calcio… Non fu un uomo facile, mai accomodante, non si arricchì, nessuna delle sue scelte suggerita dal calcolo dell’utilità. Rifiuto, e fece di tutto per non farsela mai affibbiare, l’etichetta di intellettuale. Precisa Palumbo: «Era un uomo riluttante a compiacere i potenti, incapace di blandire, sollecitare, affidarsi alle benevolenze altrui». Rifiutò quasi sempre i premi, non amava i giornali, si sottraeva alle cerimonie ufficiali, ignorava la mondanità. All’inaugurazione del museo che aveva voluto per tutta la vita, l’istituzione cui aveva regalato la maggior parte delle sue opere, non fu presente, tanto aveva in fastidio i discorsi ufficiali, la retorica, le benedizioni e gli inni». Politicamente, si vantò di non essere mai andato alle urne dopo il 2 giugno 1946, unica volta in cui votò, facendone pubblica dichiarazione, a favore della Repubblica. Il modo migliore, spiegò, per esprimere tutta la sua riprovazione per il tradimento dell’8 settembre. All’origine del suo immaginario e delle sue intuizioni c’erano, indubbiamente, le sue due passioni giovanili: i fumetti e la letteratura greca. Da adolescente divorava L’Avventuroso, L’Intrepido, Jumbo e Rin Tin Tin, i settimanali a fumetti degli anni Trenta. E anche quando sarà anziano e celebre manderà suoi amici alla mostra del fumetto di Lucca per acquistare per lui vecchie raccolte a fumetti. Sullo sfondo, l’attrazione per l’esotismo e l’avventura. «Il mal d’Africa – racconta Palumbo – lo contagiò prima di ogni esperienza africana, molto prima che Mussolini ne attribuisse i sintomi agli italiani tutti». E il trascorrere degli anni non affievolirà mai questa sua attitudine: per tutta la vita Burri avrà una predilezione per la sahariana, indossata in tutte le circostanze della sua vita. L’altra grande passione, oltre a quella di leggere tutto, dalla fantascienza ai Cantos di Ezra Pound, era per la letteratura greca classica. E c’è chi ha collegato questa passione con lo sviluppo della sua specifica arte. Secondo la grecista Monica Centanni, infatti, «conoscere il greco, leggerlo tutta la vita come fece Burri significa cercare specialmente nella poesia greca un modo di dire il mondo. La sua opera – sostiene la studiosa – “pensa greco”: frammenti di versi come frammenti di materia che sono passati attraverso il fuoco di una catastrofe epocale (il naufragio della letteratura greca come la guerra mondiale del Novecento) ma che riescono a restituire per brani il racconto di un mondo perduto». A vent’anni, nell’ottobre del 1935, il giovane Burri si entusiasma quindi per l’avventura italiana in Etiopia. Del resto, come ha scritto lo storico francese Pierre Milza, tutti gli italiani aderirono entusiasti attratti dal tema «della guerra dei poveri, dei diseredati, dei proletari contro il fronte del conservatorismo». E, studente di medicina a Perugia, si arruola e parte volontario con gli universitari della 104° Legione. Torna nel ’36, e si butta begli studi convinto di dover fare un giorno il medico. Ma il 9 ottobre 1940, cinque mesi dopo la laurea, fu richiamato alle armi, trasmigrò al 102° battaglione Camicie Nere, unità con la quale si imbarcò il 6 aprile 1941 da Bari alla volta dell’Albania. Poi, dopo la tragica notizia che suo fratello Vittorio era morto sul fronte russo, destinazione Libia. Nel 1943, ufficiale medico, viene fatto prigioniero dagli inglesi e poi trasferito agli americani che lo deportarono a Hereford, un campo di concentramento di guerra presso Amarillo, in Texas. «Quando fui deportato in America – ricordò lo stesso Burri – l’unico bagaglio che portai con me fu lo zainetto sanitario che conteneva fiale, medicine e altro. Pensai che ne avrei avuto bisogno durante la prigionia. E invece fu la prima cosa che mi tolsero. Mi tolsero lo zainetto e mi rubarono l’orologio. Ecco quale fu per me il benvenuto…». Con Burri, condivisero quell’esperienza tanti ufficiali che diverranno poi personaggi noti nell’Italia postfascista: tra i tanti, i romanzieri Giuseppe Berto – che propriò lì comincio a scrivere il suo Il cielo è rosso – e Gaetano Tumiati, lo scrittore Dante Troisi, il giornalista e gastronomo Vincenzo Buonassisi, il musicista Mario Medici, i pittori Ervardo Fioravanti, Gaio Bacci e Dino Gambetti, i futuri parlamentari missini Beppe Niccolai, Roberto Mieville, Nino De Totto e Gianni Roberti. Burri era arrivato a Hereford convinto di poter esercitare la sua professione di medico, Ma proprio lì la conversione. Più o meno disgustato, impedito di fare diagnosi e terapie, sin dalle prime settimane si mise a dipingere: divenne un pittore. «La leggenda che circolava nel campo – scriverà anni dopo Giuseppe Berto – era che c’era fra noi un medico il quale, schifato dall’umanità, aveva deciso che gli uomini non meritavano più le sue cure e perciò s’era riproposto di non fare più il medico». E tutto sommato Burri confermerà. «C’è una parte di verità», dirà a Stefano Zorzi. Come il francese Cèline, anche l’italiano Burri deciderà si passare dalla medicina all’arte. E l’opera prima riconosciuta dalla critica è Texas: la raffigurazione del paesaggio che i prigionieri vedevano ogni giorno, una distesa di terra colorata dai riflessi di un sole implacabile. Un paesaggio texano con il treno da una parte e il reticolato dall’altra, dipinto – è la prima volta – su una tela di sacco. Finita la prigionia, Burri tornò in Italia fermo nella sua determinazione di non tornare alla medicina e di darsi completamente all’arte. Il “dottor Burri” sarebbe stato il pittore Burri. Alla fine degli anni Quaranta è a Roma, shierato decisamente dalla parte dell’arte d’avanguardia. Erano gli anni della polemica tra figurativi e astratti. «Per un paradosso non infrequente – annota Palumbo – sulla trincea della conservazione si attestarono soprattutto i partiti e gli intellettuali progressisti, debitori di lealtà nei confronti del realismo di Zdanov, ministro della cultura di Stalin». E non a caso l’apparizione alla galleria d’arte moderna di un “sacco” di Burri susciterà nel 1959 un’indignata interrogazione parlamentare firmata dall’esponente del Pci Umberto Terracini. I comunisti attaccavano quasiasi artista che si distaccava dal realismo socialista e propondesse per scelte moderne. «Riabbracciò – ricorda Palumbo – sempre volentieri i commilitoni della prigionia, aderì e pagò puntualmente le quote all’associazione dei reduci di Hereford, partecipando anche ai raduni annuali». Poi, dal 1949 in poi saranno gli ambienti internazionali a scoprirlo e lanciarlo come uno dei più grandi artisti del secolo. E dai “sacchi” Burri passerà a tante altre “materie“, tutte utili allo scopo, nessuna insostituibile: cellotex, legni, catami, solo per ricordarne qualcuna. Quando il più noto degli imprenditori italiani, Gianni Agnelli, bussò alla sua porta per acquistare un “sacco”, Burri finse di essere colpito da un improvviso mal di schiena. Lo accolse e gli disse di no: «Peccato, avvocato… Se fosse venuto trent’anni fa, l’avrebbe acquistato per pochi soldi: adesso li ho dati tutti via…». Negli anni Sessanta l’ex prigioniero di Hereford – che nel frattempo aveva sposato un’americana – si indusse anche ad acquistare una casa a Los Angeles, dove trascorreva buona parte dell’anno. Nel 1991, dopo molti anni di pendolarismo tra l’Italia e la California, decise di tornare definitivamente in Europa. E la casa di Beaulieu-sur-mer, sulla Costa azzurra, fu l’ultima tappa del suo itinerario che concluse da ottantenne il 13 gennaio 1995. La sua salma fu trasportata a Città di Castello. E nel cimitero della cittadina umbra fu salutata solo da una piccola folla di amici e estimatori. Burri aveva indosso la sahariana di sempre. Ha raccontato il suo amico Primetto Barelli: «Gli infilai ai piedi le scarpe militari, come lui voleva».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
1 commento:
molto intiresno, grazie
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