domenica 10 febbraio 2008

Blade Runner torna una grande opera... sinfonica (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenciale del 10 febbraio 2008
Film di culto. Colonna sonora di culto. Saranno anche formulette stereotipate, ma a Blade Runner si attagliano alla perfezione. Il film è stato un grande successo commerciale, ma allo stesso tempo ha conservato il fascino dell’opera riservata a un pubblico selezionato, a suo modo d’élite.
Chi rimane in superficie si gode l’avventura, limitandosi ad avvertire la suggestione supplementare dell’ambientazione insolita in un futuro – denso e cupo, claustrofobico e disgregato, brulicante di gente e deprivato di umanità – che progredisce sul piano tecnologico e regredisce su quello sociale. Chi non si ferma alle immagini, alla lunga-incerta-crudele sfida tra il cacciatore di androidi Rick Dekard e i replicanti fuori controllo della serie Nexus 6, inanella domande su domande, in attesa di risposte che la pellicola si guarda bene dal fornire: poi, negli anni successivi all’uscita del film, che risale al 1982, le domande diventeranno dubbi, ipotesi, controversie tra i sostenitori delle diverse interpretazioni possibili. Narrativamente parlando: Rick Dekard è a sua volta un replicante? Filosoficamente almanaccando: che differenza rimane tra uomini e androidi, nel momento in cui questi ultimi hanno il nostro stesso aspetto, i nostri stessi pensieri, e persino, incredibile a dirsi, le nostre stesse emozioni?
Ridley Scott rimescola ulteriormente le carte. Insoddisfatto della prima versione, troppo condizionata dal volere dei produttori, dice e ripete che il vero Blade Runner è un altro: ancora più inquieto, enigmatico, senza nessuna chance di rassicurazione. Al diavolo l’happy end posticcio e virato in rosa. Rick Dekard è un replicante. O forse no: è un individuo che non ha più nessuna certezza. Nemmeno quella, appunto, di essere effettivamente un uomo. Tutto quello che sa (che constata) è di avere un corpo, un cervello, dei ricordi, dei sentimenti. Una volta li avrebbe potuti considerare prove certe della propria appartenenza alla razza umana. Ora sono solo indizi, tutt’altro che conclusivi.
Scott raggiunge il suo scopo nel 1991: fa uscire Blade Runner nella nuova veste, la cosiddetta Director’s Cut. Che però non sostituisce la prima, ma la affianca in uno strano, e ammaliante, sdoppiamento di versioni ‘originali’. Qual è il criterio da adottare? Il calendario pubblico del business, e quindi l’ordine cronologico con cui le due varianti sono arrivate nelle sale, o quello privato dell’artista, che rovescia la questione e stabilisce che, senza le interferenze del marketing, Blade Runner sarebbe apparso fin dall’inizio così come lo aveva concepito Ridley Scott?
Stranamente, accadde qualcosa di simile anche con la colonna sonora. La musica originale era stata composta da Vangelis, ma in un primo tempo ne venne pubblicato solo l’adattamento, peraltro efficacissimo, realizzato dalla New American Orchestra. Interessante: nel film la musica accompagnava magnificamente le scene e contribuiva non poco all’atmosfera complessiva, così in bilico tra spietatezza e malinconia, tra energia febbrile e languori di pura decadenza, ma finiva con l’avere a sua volta un che di frammentario, di intermittente, quasi di incompiuto. Nelle mani dell’orchestra, invece, il materiale veniva portato alla piena maturazione, conquistando una compattezza che ne esaltava il potenziale e lo affrancava dal legame esclusivo col film, fino a configurarlo come un’opera autonoma. E del tutto autosufficiente.
Era solo un caso? No che non lo era. Come dimostra la sua vastissima discografia, infatti, Vangelis tende a promettere più di quello che mantiene. Accumula quantità enormi di spunti, avvolti nelle ampie tessiture di brani che, per lo più, rifuggono la canzone per aprirsi alla suite, ma non sempre li approfondisce come meriterebbero. Come ci si aspetterebbe. Più che dei viaggi veri e propri, condotti su rotte precise e selezionate, sembrano traiettorie ispirate dalla curiosità di vedere che cosa succede, assecondando un certo soffio di vento o lasciandosi spingere dalla corrente. Molto fascino, all’inizio. Una crescente perplessità, lungo il tragitto. Poi, un po’ troppo spesso, un velo di insoddisfazione, alla fine.
L’eccesso di sicurezza di un autodidatta geniale, si direbbe. Come ha sottolineato lui stesso, parlando proprio del fatto che ha cominciato a suonare da piccolissimo e che ha imparato a farlo da solo, «ho sempre sentito di non dover apprendere le mie conoscenze musicali dagli altri perché ho sempre ritenuto fondamentale l'esperienza e l'evoluzione personale».
Pregi che diventano difetti. Come le cattive abitudini di chi, specialmente grazie alle risorse pressoché illimitate dell’elettronica, si abitua a fare tutto da solo. Libertà assoluta. Controllo totale. Ma anche, purtroppo, il venir meno di una controparte che ti spinga a confrontarti con un parere diverso. Vangelis, probabilmente, inorridirebbe alla sola ipotesi, ma la presenza al suo fianco di un produttore – magari con un atteggiamento alla Jon Landau, che non impone nulla ma che consiglia molto – potrebbe giovargli parecchio. Aiutandolo a selezionare meglio tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è. A capire quale sia quella giusta, tra le tante ipotesi che gli frullano per la mente e che reclamano la sua attenzione.
A proposito: nella versione della New American Orchestra l’intero album non arrivava a 34 minuti; in quella di Vangelis, apparsa nel 1994 con l’aggiunta di alcuni inediti, si dilatava a circa un’ora; in quest’ultima, che è stata appena pubblicata in occasione del 25ennale, si espande ulteriormente. Senza peraltro aggiungere, com’era facile pronosticare, nulla di memorabile.
Film di culto, d’accordo. E una colonna sonora che resta indimenticabile, e che meritava l’oscar assai più di Momenti di gloria. Ma c’è culto e culto. C’è fedele e fedele. Chi l’ha detto che bisogna precipitarsi ogni volta al santuario (al bazar) del Santissimo Inedito, e pagare il biglietto d’ingresso augurandosi, contro ogni logica, che un avanzo d’archivio si riveli un capolavoro?
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

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