Articolo di Ivo Germano
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 10 febbraio 2008
Bretellone, pantalone ascellare, calzino corto color “grigio topo”, camicia da travet, salivazione azzerata e…lombi a disagio nel dominare una poltrona-trappola infernale. Un quadro plastico indimenticabile: il ragioniere Giandomenico Fracchia, creato da un ex operaio dell’ Italsider Paolo Villaggio e il dirigente d’azienda Gianni Agus, maestro irraggiungibile dell’ “incazzatura a freddo”. Improvvisa, tremenda, implacabile. Come improvvisamente accadde che l’oggetto d’arredamento transitasse dal salotto ordinato, per invadere una mentalità e un modo d’essere.
Il vero ’68 da festeggiare, unico e vivo, una volta cadute mitologie, automatismi e veti ideologici, grazie ad una concezione rivoluzionaria del design. Giorno più o meno, durante un’esposizione nella Parigi post joli mai, veniva presentata la poltrona “Sacco”, inventata da Franco Teodoro, Cesare Paolini e Piero Gatti, prodotta da Zanotta a Nova Milanese, a mo’ di sfida all’usuale e all’utile. I quali, subito, non fecero salti di gioia, salvo accorgersi dell’ “effetto scia”, generato dalla macchietta del duo Agus&Villaggio. C’è che “l’immaginazione andava al potere” ribaltando il concetto di “salotto buono”, gozzaniano, passatista. Alle chincaglierie e “cineserie”, variamente diffuse, si sostituiva una cosa stropicciata e da stropicciare, accessorio prediletto per gli intellettuali e uomini di cultura. La mutazione epidermica della cultura e dello stile d’arredamento, non a caso, è stata accolta da ventisei musei, al punto che la “poltrona Sacco” è considerata un best-seller e un must dei must. Anche perché imitatissima iconologia, pensiero simbolico ed estetica: tutto ciò che, profondamente, dà forma e anima al nostro alfabeto segnico, allo scambio, alle relazioni economiche e politiche. La seduzione, cioè, che richiamava l’ immaginario mitopoietico di luoghi e tempi della contemporaneità. La “poltrona Sacco” indicava che la nostra civiltà è un universo simbolico che proprio attraverso le icone, la pubblicità riesce a comunicarci i suoi colori, i suoi suoni, le sue sensazioni. Possibilità di rappresentare e di comunicare i sogni di tutti noi. Senza questa spinta “estetica” non ci sarebbe stato più spazio per l’occidente, come Nietzsche e Heidegger avevano insegnato, a partire dalla percezione della realtà sino al lo svolgimento stesso della cose a noi contemporanee. La rappresentazione del mondo come ci poteva piacere e parere ci era suggerita da uno sketch televisivo che mediava la venatura pedagogica del biancoenero con le venature ispirate del colore comico e irridente.
Fracchia e una poltrona, mai doma, a tratti, scivolosa, spesso ostile nel marcare lo stato di minorità, verso quel che si definiva, allora, “il padronato”, formavano un corpo solo. Quasi un centauro, o, una figura del bestiario moderno che, appunto, complice un oggetto d’arredamento innovava la sintassi comica e sarcastica. Non più il monsù travet, ma il vapoforno, l’alveare, gli spazi monodimensionali del “quartario”, aborrito da Luciano Bianciardi ne Il Lavoro culturale. Epicentro di due fenomeni che le maschere di Villaggio e Fracchia interpretavano, la consumazione della dignità dei rapporti umani e sociali e il più ignobile carrierismo, misto di angheria e viltà. Altrimenti sarebbe stata, sempre e solo, ideologia, fuliggine contrapposta e seriosa. La battaglia con la poltrona, viceversa, donava la possibilità di un punto di vista sull’impiegato che mal si poneva, nei confronti della convenzione borghese, nonostante gli sforzi di vestirsi, parlare, agire, per far piacere a un capoufficio qualsiasi. L’antiretorica totale, pura, unita allo sberleffo futurista e dinamico, dietro e oltre la poltrona in questione.
Il lungo quarantennale agiografico, monocorde del’68 in ogni salsa trova il contraltare dignitoso nell’anniversario innovativo e tellurico di un paradigma inedito di concezione dell’abitare. Liberamente ispirato ai posacenere a soffietto, dotati di molla rimuovi mozziconi e ai sacchi di stoppia, adoperati dai contadini, la poltrona “Sacco”, segnava il distacco radicale dal puro decoro e dall’equilibrio scontato. Senza un sostegno che uno, internamente rigida, perciò instabile, poteva e doveva adattarsi alla forma di chi vi sedeva. Con un’attenzione particolare alla personalità. Più stato d’animo che modo di sedersi. Suggestione più che mero utilizzo, il corpo, nel suo complesso, doveva trovarvi asilo, armonicamente e serenamente. Di più: il materiale di rivestimento poteva essere di qualsiasi tipologia, a patto che garantisse morbidezza nell’imbottitura, per le tante palline di polistirolo in essa contenute.
Il segreto risiedeva nel profondo umorismo che non poteva risultare inosservato alla vis comica di Villaggio che tuttora ne possiede una e che, insieme al basco di Fantozzi, costituirà la sua lapide. Bella e divertente trappola delle goffagini di chi, destinato a subire, si conformava al “prego si sieda” energico e autoritario, prima, fingendosi di adagiare, poi, drammaticamente risucchiato dalla vertigine improbabile e da un senso di vergogna.
Un Sessantotto strano, meglio, come usa citare Il Foglio l’altra storia del 1967+1, culturalmente distillato in “curiosità militante”. Fracchia e la sua poltrona, insomma, hanno fatto scuola e quasi giurisdizione sociale, per esperienza molteplice, secca, asciutta, benché rispettosissima dell’essere pendolari nel pensiero del mondo, da Bataille alla Yourcenar, da Camus a Sottsass. Fracchia sembrò proprio il demiurgo della lotta e il rabdomante televisivo del gusto nuovo e, finalmente, per nulla patologico di chi si divertiva a usare e riusare, recependone la sfida mozzafiato di una poltrona mai vista prima. Frullando registri “alti” e “bassi”, per legittimare la vita activa del costume nazionale, rigorosamente nel segno dei tempi.
Con lungimiranza magistrale, infatti, tre designers diedero fiducia al tempo che cambiava, con un tocco in più del dato anagrafico e non dei curricula, segnando il punto della situazione di costume politico e sociale di un Paese imperfetto. Si tratta di un piccolo “filo d’Arianna” dell’ironia del diritto di una parola intellettuale e di tempra libertaria, alla ricerca di qualcosa di diverso, compiendo un viaggio attraverso la cultura di massa, in ogni sua piega. Mettendo la freccia, per non correre il rischio di tramutarsi in mostri sacri, in eroe delle patrie lettere sessantottine, il cui Pantheon celebrativo non conosce troppi dimissionari eccellenti.
Ora che si ciancia di scrittura creativa, di quotidiane rivoluzioni artefatte dello stile narrativo e estensivo, è ancor più giusto celebrare il quarantennale del '68 che Fracchia sbullonò per ben, benino nelle liturgie del tempo e della critica, utilizzando il materiale di una poltrona, come pretesto, al tempo stesso, massimizzando l’attenzione al dettaglio lieve. Quasi un lieve ricamare dei segni non prendendosi troppo sul serio, dal momento che i peggiori nemici di noi stessi, siamo proprio noi. A cavallo di una “poltrona Sacco” ancor di più.
Il vero ’68 da festeggiare, unico e vivo, una volta cadute mitologie, automatismi e veti ideologici, grazie ad una concezione rivoluzionaria del design. Giorno più o meno, durante un’esposizione nella Parigi post joli mai, veniva presentata la poltrona “Sacco”, inventata da Franco Teodoro, Cesare Paolini e Piero Gatti, prodotta da Zanotta a Nova Milanese, a mo’ di sfida all’usuale e all’utile. I quali, subito, non fecero salti di gioia, salvo accorgersi dell’ “effetto scia”, generato dalla macchietta del duo Agus&Villaggio. C’è che “l’immaginazione andava al potere” ribaltando il concetto di “salotto buono”, gozzaniano, passatista. Alle chincaglierie e “cineserie”, variamente diffuse, si sostituiva una cosa stropicciata e da stropicciare, accessorio prediletto per gli intellettuali e uomini di cultura. La mutazione epidermica della cultura e dello stile d’arredamento, non a caso, è stata accolta da ventisei musei, al punto che la “poltrona Sacco” è considerata un best-seller e un must dei must. Anche perché imitatissima iconologia, pensiero simbolico ed estetica: tutto ciò che, profondamente, dà forma e anima al nostro alfabeto segnico, allo scambio, alle relazioni economiche e politiche. La seduzione, cioè, che richiamava l’ immaginario mitopoietico di luoghi e tempi della contemporaneità. La “poltrona Sacco” indicava che la nostra civiltà è un universo simbolico che proprio attraverso le icone, la pubblicità riesce a comunicarci i suoi colori, i suoi suoni, le sue sensazioni. Possibilità di rappresentare e di comunicare i sogni di tutti noi. Senza questa spinta “estetica” non ci sarebbe stato più spazio per l’occidente, come Nietzsche e Heidegger avevano insegnato, a partire dalla percezione della realtà sino al lo svolgimento stesso della cose a noi contemporanee. La rappresentazione del mondo come ci poteva piacere e parere ci era suggerita da uno sketch televisivo che mediava la venatura pedagogica del biancoenero con le venature ispirate del colore comico e irridente.
Fracchia e una poltrona, mai doma, a tratti, scivolosa, spesso ostile nel marcare lo stato di minorità, verso quel che si definiva, allora, “il padronato”, formavano un corpo solo. Quasi un centauro, o, una figura del bestiario moderno che, appunto, complice un oggetto d’arredamento innovava la sintassi comica e sarcastica. Non più il monsù travet, ma il vapoforno, l’alveare, gli spazi monodimensionali del “quartario”, aborrito da Luciano Bianciardi ne Il Lavoro culturale. Epicentro di due fenomeni che le maschere di Villaggio e Fracchia interpretavano, la consumazione della dignità dei rapporti umani e sociali e il più ignobile carrierismo, misto di angheria e viltà. Altrimenti sarebbe stata, sempre e solo, ideologia, fuliggine contrapposta e seriosa. La battaglia con la poltrona, viceversa, donava la possibilità di un punto di vista sull’impiegato che mal si poneva, nei confronti della convenzione borghese, nonostante gli sforzi di vestirsi, parlare, agire, per far piacere a un capoufficio qualsiasi. L’antiretorica totale, pura, unita allo sberleffo futurista e dinamico, dietro e oltre la poltrona in questione.
Il lungo quarantennale agiografico, monocorde del’68 in ogni salsa trova il contraltare dignitoso nell’anniversario innovativo e tellurico di un paradigma inedito di concezione dell’abitare. Liberamente ispirato ai posacenere a soffietto, dotati di molla rimuovi mozziconi e ai sacchi di stoppia, adoperati dai contadini, la poltrona “Sacco”, segnava il distacco radicale dal puro decoro e dall’equilibrio scontato. Senza un sostegno che uno, internamente rigida, perciò instabile, poteva e doveva adattarsi alla forma di chi vi sedeva. Con un’attenzione particolare alla personalità. Più stato d’animo che modo di sedersi. Suggestione più che mero utilizzo, il corpo, nel suo complesso, doveva trovarvi asilo, armonicamente e serenamente. Di più: il materiale di rivestimento poteva essere di qualsiasi tipologia, a patto che garantisse morbidezza nell’imbottitura, per le tante palline di polistirolo in essa contenute.
Il segreto risiedeva nel profondo umorismo che non poteva risultare inosservato alla vis comica di Villaggio che tuttora ne possiede una e che, insieme al basco di Fantozzi, costituirà la sua lapide. Bella e divertente trappola delle goffagini di chi, destinato a subire, si conformava al “prego si sieda” energico e autoritario, prima, fingendosi di adagiare, poi, drammaticamente risucchiato dalla vertigine improbabile e da un senso di vergogna.
Un Sessantotto strano, meglio, come usa citare Il Foglio l’altra storia del 1967+1, culturalmente distillato in “curiosità militante”. Fracchia e la sua poltrona, insomma, hanno fatto scuola e quasi giurisdizione sociale, per esperienza molteplice, secca, asciutta, benché rispettosissima dell’essere pendolari nel pensiero del mondo, da Bataille alla Yourcenar, da Camus a Sottsass. Fracchia sembrò proprio il demiurgo della lotta e il rabdomante televisivo del gusto nuovo e, finalmente, per nulla patologico di chi si divertiva a usare e riusare, recependone la sfida mozzafiato di una poltrona mai vista prima. Frullando registri “alti” e “bassi”, per legittimare la vita activa del costume nazionale, rigorosamente nel segno dei tempi.
Con lungimiranza magistrale, infatti, tre designers diedero fiducia al tempo che cambiava, con un tocco in più del dato anagrafico e non dei curricula, segnando il punto della situazione di costume politico e sociale di un Paese imperfetto. Si tratta di un piccolo “filo d’Arianna” dell’ironia del diritto di una parola intellettuale e di tempra libertaria, alla ricerca di qualcosa di diverso, compiendo un viaggio attraverso la cultura di massa, in ogni sua piega. Mettendo la freccia, per non correre il rischio di tramutarsi in mostri sacri, in eroe delle patrie lettere sessantottine, il cui Pantheon celebrativo non conosce troppi dimissionari eccellenti.
Ora che si ciancia di scrittura creativa, di quotidiane rivoluzioni artefatte dello stile narrativo e estensivo, è ancor più giusto celebrare il quarantennale del '68 che Fracchia sbullonò per ben, benino nelle liturgie del tempo e della critica, utilizzando il materiale di una poltrona, come pretesto, al tempo stesso, massimizzando l’attenzione al dettaglio lieve. Quasi un lieve ricamare dei segni non prendendosi troppo sul serio, dal momento che i peggiori nemici di noi stessi, siamo proprio noi. A cavallo di una “poltrona Sacco” ancor di più.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
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