Dal Secolo d'Italia di mercoledì 27 febbraio 2008
«Gli specchietti a mosaico delle luci stoboscopiche iniziarono a girare vorticosamente. Ragazzi e ragazze, senza motivo plausibile, iniziarono a ballare e…vai con la disco». C’è sempre un inizio. E che inizio, almeno, a parere di un libro attento e suggestivo, anzi, pimpantissimo del critico musicale Peter Shapiro, You should be dancing. Biografia politica della discomusic, (Kowalsky editore, pp. 431, € 22,00).
A chi veleggia sulla quarantina non gli sarà sfuggito il titolo e le voci “in falsetto” dei Bee Gees, cioè quei trovatori del tempo nuovo che, proprio nel successo planetario, della canzone che regala il titolo al volume di Shapiro, con tanto di pantaloni a zampa d’elefante, camicie sparatissime e stivaletti a punta, segnarono, fenomenologicamente, la biografia e la geneaologia socioculturale della disco. Il canto profondo di una irresistibile forza, del tutto o quasi inspiegabile, se non come icona ufficiale del tempo e della maniera di vivere assoluta. Se cominciassimo a narrare le vicende quotidiane, gli eventi micro e macro, le sintesi e le opzioni, potremmo compiere un divertentissimo esercizio di stile parallelo fra gioco e serietà. La “grande mela” e l’ultima delle balere, dove Adriano Celentano e Lilly Carati ballano e riballano. Questa è la lunga storia di invenzioni, trucchi e curiosità, mescolanza di segni, alchimia sonoro e di un mondo assemblato, prima a villaggio globale, ora a ragnatela informatica.
In realtà, solo in America, frutto del passato e seme del futuro: architettura aperta di una nuova e grande sensazione, condotta nel cerimoniale di chi, anche se non lo sapeva, si buttava nel ballo, al pari della vita. La novità del libro sta nel prender partito sulla genuinità irresponsabile dell’energia musicale, non solo modaiola e fatua, tantomeno orripilante, almeno secondo quanto vergavano su magliette luride e sdrucite i punk: “La disco fa schifo”. Invece no. Barry White e Gloria Gaynor, Diana Ross e Asha Putly, in Italia Gepy&Gepy con la sigla di Discoring, stavano a fare la rivoluzione, brillucicante e glamourousa, senza saperlo. Con l’aiuto di stilisti come Gucci e Fiorucci e di un luogo, lo Studio 54 di New York.
Il sangue era funky. La vita tornava ad essere, forse disimpegnata, ma sganciata da schemi ideologici. L’importante era divertirsi, socializzando, al ritmo di canzoncine “inutili” e borghesi degli Abba e Labelle, quella di Lady Marmalade, non a caso, riproposta dal capolavoro pop di Baz Luhrman Moulin Rouge.
A chi veleggia sulla quarantina non gli sarà sfuggito il titolo e le voci “in falsetto” dei Bee Gees, cioè quei trovatori del tempo nuovo che, proprio nel successo planetario, della canzone che regala il titolo al volume di Shapiro, con tanto di pantaloni a zampa d’elefante, camicie sparatissime e stivaletti a punta, segnarono, fenomenologicamente, la biografia e la geneaologia socioculturale della disco. Il canto profondo di una irresistibile forza, del tutto o quasi inspiegabile, se non come icona ufficiale del tempo e della maniera di vivere assoluta. Se cominciassimo a narrare le vicende quotidiane, gli eventi micro e macro, le sintesi e le opzioni, potremmo compiere un divertentissimo esercizio di stile parallelo fra gioco e serietà. La “grande mela” e l’ultima delle balere, dove Adriano Celentano e Lilly Carati ballano e riballano. Questa è la lunga storia di invenzioni, trucchi e curiosità, mescolanza di segni, alchimia sonoro e di un mondo assemblato, prima a villaggio globale, ora a ragnatela informatica.
In realtà, solo in America, frutto del passato e seme del futuro: architettura aperta di una nuova e grande sensazione, condotta nel cerimoniale di chi, anche se non lo sapeva, si buttava nel ballo, al pari della vita. La novità del libro sta nel prender partito sulla genuinità irresponsabile dell’energia musicale, non solo modaiola e fatua, tantomeno orripilante, almeno secondo quanto vergavano su magliette luride e sdrucite i punk: “La disco fa schifo”. Invece no. Barry White e Gloria Gaynor, Diana Ross e Asha Putly, in Italia Gepy&Gepy con la sigla di Discoring, stavano a fare la rivoluzione, brillucicante e glamourousa, senza saperlo. Con l’aiuto di stilisti come Gucci e Fiorucci e di un luogo, lo Studio 54 di New York.
Il sangue era funky. La vita tornava ad essere, forse disimpegnata, ma sganciata da schemi ideologici. L’importante era divertirsi, socializzando, al ritmo di canzoncine “inutili” e borghesi degli Abba e Labelle, quella di Lady Marmalade, non a caso, riproposta dal capolavoro pop di Baz Luhrman Moulin Rouge.
Sinteticamente, la disco si riassume in tre parole: Halston, Gucci e Fiorucci. O evoca immagini di algide bellezze scandinave che ballano truccate con maquillages metallici e vestite di abiti scollati fino a lì. O forse il têteàtête tra Andy Wahrol e Bianca Jagger nella sala vip dello Studio 54... La disco è tutta superfici lucide e scintillanti, tacchi alti e rossetti voluttuosi, jeans attillati e pettorali scolpiti, archi sdolcinati che crescono e calano e ritmi travolgenti dal sapore latino”. Quel mondo che nell’Altra domenica di Renzo Arbore veniva restituito dagli inviati a New York, Michel Pergolani e Isabella Rossellini, nei pomeriggi dei ’70. Messo lì a guardia Leroy Gomez e “I Santa Esmeralda” con Don’t let me be misunderstood? e tante altre voci, gruppi, più o meno importanti. Soprattutto Mr. Barry White, un texano dalla voce di cashmere che componeva, arrangiava, anche produceva l’intuizione in musica, capace di assalire la memoria. Un soul da ritmare nei sette album decisivi, assieme alla Love Unlimited Orchestra. Breve ripasso: I’m gonna love you just a little more baby e Can’t get enough of your love babe, You’re the first, the last, my everything. Note di un riscatto sociale e di una intrapresa creativa nello showbiz, non più appannaggio degli anglosassoni o delle liturgie rock&roll, ma piattaforma stilistica e iconografica di una nuova maniera di stare al mondo: leggera, ma non fatua. Divertita, ma di gran classe.
Di tutte le argomentazioni, infatti, Shapiro sceglie la meno fumosa, dato che:«La disco è l’umile peone catapultato nel firmamento celeste grazie ai suoi vestiti e ai suoi passi di danza. La disco era il massimo del glamour, della decadenza e dell’indulgenza. Ma, anche se brillava come un diamante, puzzava di merda». Il dropout e il non-allineato, l’irregolare e l’eterodosso cui stavano strette le maglie della morale diffusa trovavano l’occasione della fuoriuscita dalla tragedia storica del Vietnam, o, in Italia del terrorismo evadendo/evoluendo sulla pista. In un attimo e solo uno, senza scie e ripercussioni. L’elenco dei benefattori della disco è sterminato, se vogliamo seguire una qualsiasi hit parade di quegli anni: Giorgio Moroder e Cerrone, Barry White e gli Chic, cui va il merito di donare l’inno nazionale di quegli anni con Le Freak.
Si tratta di un raro esempio di “comunità immaginarie” che il sabato sera “bollavano” in scantinati e danceroom riadibiti, per costruire un frammento di sogno, del tutto ignari se fosse musica commerciale, addirittura, da minus habens. Visto che l’annunciavano corpi di ragazze lucidissimi e patinatissimi, golose dell’infinito viaggio alla scoperta della notte da abitare e ricolonizzare, «nel piacere intriso di senso di colpa vissuto negli sgabuzzini assieme alle tende in macramé». Come, secondo Shapiro, avrebbe provato a fare la Swing Jugend, in barba ai divieti razzisti sull’Entartete Musik, cioè della musica degenerata negroide, secondo le paranoie della propaganda nazionalsocialista. Dalle cantine berlinesi, dove un disc jockey antelitteram se ne impippava delle SS fino a Londra e New York, il viaggio della disco è ben più complesso della tassonomia critica e filologica.
Non a caso, il libro e la sua sontuosa bibliografia è orientata a sondare la biografia politica e non la mitologia, neppure l’ennesima riedizione di un’operazione nostalgia. Che ragazzi e ragazze di tutto il mondo scelsero la disco, sub specie pre-politica e esistenziale, significa che il senso ludico del ballo, le piroette di RollerGirl nel film Boogie Nights, sugli inizi dell’industria pornografica americana, le sciarpe e l’abbigliamento in pelle e plastica. Di più il lasciare libero corso all’epidermide e all’ormone era ed è politica, la più autentica, nel momento in cui attraversi il deserto relazionale e l’anonimato spietato.
Il senso comune contro l’ideologia. La vita quotidiana, riscattata dai dischi “girati” e suonati erano allegri, sfrenati e vivaci spezzoni, contro il nichilismo imperante. La rivoluzione gentile e inarrestabile giocata in mezzo al mondo, facendo la fila al freddo, spogliandosi di ruoli e limiti, a colpi di groove, cioè di solchi nel vinile su cui ballava la puntina dello stereo. Una seconda pelle che, anagrafe alla mano, molti quarantenni collegano a uno dei pochi riti d’iniziazione della loro adolescenza, voluttuosa e ficcante, come la prima volta che ci trovammo a picchiettare e a muoverci, goffamente, al ritmo di Love to love you baby. Vai con la disco, ancora.
Di tutte le argomentazioni, infatti, Shapiro sceglie la meno fumosa, dato che:«La disco è l’umile peone catapultato nel firmamento celeste grazie ai suoi vestiti e ai suoi passi di danza. La disco era il massimo del glamour, della decadenza e dell’indulgenza. Ma, anche se brillava come un diamante, puzzava di merda». Il dropout e il non-allineato, l’irregolare e l’eterodosso cui stavano strette le maglie della morale diffusa trovavano l’occasione della fuoriuscita dalla tragedia storica del Vietnam, o, in Italia del terrorismo evadendo/evoluendo sulla pista. In un attimo e solo uno, senza scie e ripercussioni. L’elenco dei benefattori della disco è sterminato, se vogliamo seguire una qualsiasi hit parade di quegli anni: Giorgio Moroder e Cerrone, Barry White e gli Chic, cui va il merito di donare l’inno nazionale di quegli anni con Le Freak.
Si tratta di un raro esempio di “comunità immaginarie” che il sabato sera “bollavano” in scantinati e danceroom riadibiti, per costruire un frammento di sogno, del tutto ignari se fosse musica commerciale, addirittura, da minus habens. Visto che l’annunciavano corpi di ragazze lucidissimi e patinatissimi, golose dell’infinito viaggio alla scoperta della notte da abitare e ricolonizzare, «nel piacere intriso di senso di colpa vissuto negli sgabuzzini assieme alle tende in macramé». Come, secondo Shapiro, avrebbe provato a fare la Swing Jugend, in barba ai divieti razzisti sull’Entartete Musik, cioè della musica degenerata negroide, secondo le paranoie della propaganda nazionalsocialista. Dalle cantine berlinesi, dove un disc jockey antelitteram se ne impippava delle SS fino a Londra e New York, il viaggio della disco è ben più complesso della tassonomia critica e filologica.
Non a caso, il libro e la sua sontuosa bibliografia è orientata a sondare la biografia politica e non la mitologia, neppure l’ennesima riedizione di un’operazione nostalgia. Che ragazzi e ragazze di tutto il mondo scelsero la disco, sub specie pre-politica e esistenziale, significa che il senso ludico del ballo, le piroette di RollerGirl nel film Boogie Nights, sugli inizi dell’industria pornografica americana, le sciarpe e l’abbigliamento in pelle e plastica. Di più il lasciare libero corso all’epidermide e all’ormone era ed è politica, la più autentica, nel momento in cui attraversi il deserto relazionale e l’anonimato spietato.
Il senso comune contro l’ideologia. La vita quotidiana, riscattata dai dischi “girati” e suonati erano allegri, sfrenati e vivaci spezzoni, contro il nichilismo imperante. La rivoluzione gentile e inarrestabile giocata in mezzo al mondo, facendo la fila al freddo, spogliandosi di ruoli e limiti, a colpi di groove, cioè di solchi nel vinile su cui ballava la puntina dello stereo. Una seconda pelle che, anagrafe alla mano, molti quarantenni collegano a uno dei pochi riti d’iniziazione della loro adolescenza, voluttuosa e ficcante, come la prima volta che ci trovammo a picchiettare e a muoverci, goffamente, al ritmo di Love to love you baby. Vai con la disco, ancora.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
4 commenti:
sul sito di Luca Telese tempo e tempo e tempo fa si chiacchierava della Roma Pariolina e della Roma Borgatara, dove si incontravano due mondi della Destra completamente diverse tra loro.
e la discoteca ero uno dei punti di incontro/scontro tra chi voleva un Mondo Nuovo e chi voleva la Rivoluzione partendo dall'interno.
era curioso immaginare tutto questo col Charleston sotto che incalzava con un robusto quattro quarti come tempo...
:-) a presto! GB
Quante destre, è vero. In più di vent'anni di militanza politica ne ho incontrati di tutti i tipi, dal fasciobar di periferia al borghese che più borghese non si può, dal militarista convinto (e fanatico)all'obiettore di coscienza anarcofascista, dal missinoduroepuro al democristiano anticomunista. Dal repubblichino autentico all'ultimo dei bulli. Il Msi era un mondo straordinario, ambiguo quanto affascinante, tanta gente perbene e tanti matti. La prima volta che sono entrato in una sezione del Msi avevo i pantaloni corti, quattordici anni o quindici. Fu come entrare nella più stravagante delle famiglie.
Ciao GB, alla prossima!
R.
Perche non:)
necessita di verificare:)
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