Chi può rimpiangere la prima Repubblica?
Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di giovedì 29 febbraio 2008
Dedicato a quelli che non si stancano di ripetere che «sì, però, i politici di una volta erano un’altra cosa»; a quelli che «in fondo la Prima Repubblica era senz’altro molto meglio della Seconda»; a quelli che «non c’è confronto, vuoi mettere Moro, Fanfani, Andreotti…»; dedicato a quelli che si sono dimenticati cosa sono stati per l’Italia la partitocrazia, il consociativismo, le convergenze parallele, la mediazione continua, il tirare a campare, i governi che cadevano con la frequenza di mele marce, il voto di scambio, il sistema di potere dc, la corruzione e chi più ne ha più ne metta… Il nuovo romanzo di Massimo Tosti, Dentro la notizia (Barbera editore, pag 317, euro 15, 90) va proprio comprato: sicuramente va letto, ma soprattutto va regalato a chi vomita nostalgia spacciandola per cultura politica.
Perché Dentro la notizia è una vero e proprio romanzo storico sulla Prima Repubblica: la fa rivivere nelle sue meschinità e nella sue pochezze. Ma attenzione, non è un romanzo storico come tanti: più che altro Dentro la notizia è un “reperto storico”, perché scritto in presa diretta, come spiega la giusta avvertenza all’inizio del testo: «Questo romanzo è stato scritto nel 1988. Fu dato allora in lettura ad alcune case editrici (fra le più importanti) che restituirono il manoscritto adducendo motivi generici per rifiutarne la pubblicazione. Qualche critico, interpellato seguendo altre strade, fornì un giudizio globalmente positivo dell’opera, manifestando tuttavia qualche preoccupazione in merito al contenuto politico della stessa. L’autore ritiene che proprio la ricostruzione di un ambiente estremamente corrotto (le indagini di Tangentopoli erano di là da venire) abbia suggerito agli editori di attener si a un sano principio di prudenza. Proprio per questi motivi, l’autore ha ritenuto di riproporre il romanzo nella sua stesura originale, senza alcuna correzione». Va detto, Massimo Tosti, giornalista da oltre quarant’anni, e cronista parlamentare per un lungo periodo, non è nuovo a queste nitide fotografie del sistema politico italiano. Era opera sua, ad esempio, la famosa Guida ai misteri e piaceri della politica che nel 1973, dopo essere rimasta ai vertici delle classifiche per trenta settimane, fu inclusa da Newsweek nell’elenco dei migliori libri dell’anno. E nessuno può dimenticare che il Tosti trentacinquenne diresse quel Settimanale che ha rappresentato, tra il ’78 e l’81, un primo periodico di centrodestra a larga tiratura che anticipava i tempi e nella cui redazione figuravano nomi come Giano Accame, Alfredo Cattabiani ed Enzo Iacopino, Antonio Tajani e Andrea Ronchi. E dove scrivevano Franco Cardini, Gianfranco de Turris, Stenio Solinas, Claudio Quarantotto, Massimo Fini, Enrico Nistri...
È un romanzo, quello che Tosti ha appena mandato in libreria, con due protagonisti che hanno un rapporto di interdipendenza. Una serie di pesi e contrappesi psicologici che risultano metafora compiuta di un sistema di potere a somma zero, in cui ogni decisione comporta un contrappeso che ne annulla l’efficacia. Ciascuno dei due scrive un romanzo che ha l’altro come protagonista. I capitoli sono alternati, ma devono essere letti in sequenza perché il destino di ognuno dei due dipende dall’umore dell’altro. Intorno ai due personaggi principali ruotano i protagonisti della Roma corrotta e corruttrice, le marionette spavalde di una città infernale in cui potere e malcostume, politica e trivialità si fondono in una miscela esplosiva. Dentro la notizia, allora, diventa antidoto perfetto contro ogni forma di nostalgia di quei tempi, di quel sistema di potere, di quei personaggi, di quei politici. Di quel tempo in cui c’erano ministri come tal D’Ovidio: «Un esemplare da laboratorio, la dimostrazione scientifica di come la forza di volontà e la grinta contino nella vita più di qualunque altra virtù: della cultura, della sensibilità, dell’educazione, perfino dell’intelligenza. Non era intelligente: di norma faticava più di tutti i suoi collaboratori per affermare l’essenza di un problema. Si sarebbe detto che la sua mente vagasse nello spazio, in cerca di rampini che gli permettessero di ancorare la questione di cui si discuteva. Ma quel che maggiormente colpiva quanti avessero l’opportunità di conoscerlo era la sua smodata ignoranza. Parlava una sua lingua particolare, che era un mélange fra il politichese e il dialetto contadino dei suoi antenati, arricchito però da citazioni più o meno dotte, e tutte rigorosamente storpiate, e da parole in francese o in inglese: dette a sproposito, e con una pronuncia involontariamente comica e decisamente improponibile». È l’idealtipo di un certo tipo di uomo politico e facendo un minimo sforza di immaginazione... Quel che più importata, comunque, è che, oggi, nessuno può certo azzardarsi a parlar bene di tipi del genere.
Il romanzo di Tosti ha il grande pregio di castrare intellettualmente ogni forma di desiderio revanscista: quel mondo è finito e nessuno si azzardi a dire che era preferibile a quello che è arrivato dopo. Un dopo, un oggi, che avrà sicuramente i suoi difetti ma che, comunque, concede ancora il sogno del cambiamento. Proprio quel sogno che durante gli ultimi anni della Prima Repubblica sembrava inaridirsi nelle piccole beghe della quotidianità: «Si è liberi dentro, non fuori – dice un personaggio a uno dei protagonisti – e per la rivoluzione c’è sempre tempo. I rivoluzionari, quelli veri, hanno sempre una certa età, e in genere non hanno figli da mantenere. Fra quindici o vent’anni, se resterai della stessa idea, potrai sempre contare su di me: sarò maturo per la clandestinità. Per adesso, nuoto. I democristiani mi hanno offerto un seggio al Senato, i socialistila presidenza di un ente pubblico, i liberali mi vorrebbero al Parlamento europeo, i comunisti mi considerano uno di loro, e i radicali mi adorano. Ricordati bene: il mio motto è adeguarsi. E il tuo deve diventare mi piego ma non mi spezzo». La foto ingiallita di un tempo che la memoria nostalgica rischia di far diventare d’oro, diventa, nel romanzo di Tosti, di nuovo a colori. Quella vischiosità, quell’eterno compromesso con la coscienza, quella sensazione di soffocamento ritornano in vita e fanno, non ricordare, ma rivivere, quel tempo in cui l’Italia rimaneva chiusa su sé stessa, preda di un egoismo provinciale che la obbligava ad accontentarsi di un infinito presente senza utopia. Un tempo in cui un libro come La casta, giusto per fare un paragone con l’oggi, non poteva nascere perché non lo avrebbe pubblicato nessuno e nessuno lo avrebbero recensito.
Eppure la casta di allora, bisogna ripeterselo per non farci convincere del contrario, era di gran lunga peggiore di quella di oggi: più arrivista, senza controllo, senza alcun ritegno. Nel 1988, Massimo Tosti lo aveva già scritto questo libro, ma nessuno lo ha voluto ascoltare. La reazione era apparentemente assente non perché nessuno si ribellava ma perché la cappa era troppo pesante. Allora ci voleva molto più coraggio per dire certe cose: «Questo è un paese di merda: ormai ci siamo abituati a questa dieta, ci siamo assuefatti. Li disprezzo tutti, dal più profondo del cuore. Sfrutto le loro meschinerie, gioco sulle loro ambizioni sfrenate, sul loro desiderio di continuare ad arrampicarsi: dovrebbero trasferire il Parlamento a Palazzo di Giustizia. Non sono cose da scrivere. Non serve a niente scriverle. Non ci crede nessuno. In Italia è cambiato definitivamente il comune senso della morale. Non rubano i ladri, rubano i furbi. E quelli che si fanno beccare sono soltanto dei coglioni…».
Sono passati vent’anni. Molte cose sono cambiate. Certo, la politica deve fare ancora molta strada per togliersi di dosso le scorie di quella lunga stagione. Ma l’unica cosa che non deve fare, è cadere nella scorciatoia di una nostalgia mielata che serve solo a nascondere la paura per i cambiamenti che sta per affrontare.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
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