Dal Secolo d'Italia di sabato 1 marzo 2008
Uno dei protagonisti, Franco Piperno (nella foto a destra), ricordando quei fatti continua ancora oggi a parlare di vera e propria “battaglia”. E anche lo storico Ernesto Galli della Loggia ha riconosciuto che «Valle Giulia per i contestatori vale come la marcia su Roma» per gli squadristi degli anni Venti. È vero: la “battaglia di Valle Giulia” resta, nell’immaginario italiano, come il simbolo stesso del ’68. Tanto che la foto che riproduciamo all’interno, nel centro del paginone, divenne subito un maxiposter affisso in camera dalla maggior parte dei ragazzi per tutti gli anni Settanta. È la fotografia che immortalava il battesimo di massa del movimento studentesco a Roma. Tutte le librerie Feltrinelli tenevano quel poster in bella vista. Lo aveva stampato e diffuso Quindici, la rivista nata nel ’67 dal Gruppo ’63, la neo-avanguardia di Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Angelo Guglielmi e Alberto Arbasino... E quel poster – proprio quella foto in bianco e nero con sotto la scritta “la battaglia di Valle Giulia” – continua a comparire ancora oggi sui libri dedicati alla contestazione.
La foto, scattata esattamente quarant’anni fa, il 1° marzo 1968, è inconfondibile: in basso le camionette della polizia, sullo sfondo, sotto la scalinata della facoltà romana di Architettura, l’avanguardia di quei ragazzi le cui immagini entreranno nella fantasia e nella memoria di tanti e tanti giovani. Studenti ben vestiti, molti ancora in giacca e cravatta, qualcuno con il tipico montgomery degli anni Sessanta, capelli per lo più corti, solo qualcuno precorre i tempi con una chioma fino alle spalle. Qualcuno di loro diventerà famoso: c’è Guido Paglia (immagine a sinistra) – allora ventunenne, da poco eletto per il Fuan-Caravella consigliere di facoltà a Giurisprudenza, anni dopo giornalista e vice di Indro Montanelli al Giornale, oggi capo della comunicazione e delle relazioni esterne della Rai; c’è Franco Papitto, allora dirigente giovanissimo della pacciardiana Primula goliardica, successivamente corrispondente da Bruxelles per la Repubblica; e ci sono tanti altri noto studenti di destra della capitale. Non solo Mario Michele Merlino, che nella foto sfida gli sbirri con una stanga di panchina in mano, ma anche Pierfranco Di Giovanni, Roberto Palotto, Antonio Fiore, Roberto Raschetti, Adriano Tilgher, Stefano Delle Chiaie, Domenico Pilolli... E sarà proprio grazie a loro – ai ragazzi di "quella” fotografia – se Paolo Pietrangeli potrà celebrare Valle Giulia nella celebre canzone sottolineando la novità del 1° marzo: «Non siam scappati più...».
L’appuntamento era a Trinità dei Monti in cima alla scalinata di piazza di Spagna, da dove partì il corteo con più di quattromila studenti universitari e liceali. «Ci dirigevamo – racconta Guido Paglia – verso Valle Giulia per liberare la facoltà di Architettura che era stata sgombrata dalla polizia dopo una occupazione del movimenti studentesco che, in quella prima fase, era un fenomeno che accomunava tutti gli studenti, senza distinzioni ideologiche. Chi oggi critica il ’68 quarant’anni dopo confonde tutto e non capisce niente della nostra rivolta contro l’autoritarismo baronale che in quegli anni soffocava l’università e la ricerca...».
Nel corteo, aperto da uno striscione con la scritta «Via il rettore D’Avack, via Moro, via la polizia» c’erano molti giovani che avrebbero fatto carriera: Massimiliano Fuksas, Claudio Petruccioli, Paolo Liguori, Oreste Scalzone e Franco Piperno, Renato Nicolini, un Giuliano Ferrara immortalato in una foto mentre scappa dalla polizia e molti altri... Ma anche tanti ragazzi aderenti alle organizzazioni giovanili di destra: il Fuan-Caravella, la Giovane Italia, Avanguardia nazionale, la Giovane Europa, il Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori, Primula goliardica... Tra i tanti: Massimo Magliaro e Mario Fedi, Ruggero Bianchi e Sandro Giovannini, Maurizio Messina, Lamberto Roch, Giampiero Rubei, Maurizio Bergonzini... Il corteo si muove alle dieci e invade il centro: via del Babbuino, piazza del Popolo, via Flaminia, Belle Arti. All’arrivo del corteo a Valle Giulia, la polizia è già schierata. Poliziotti con il cappotto blu d’ordinanza, il casco, il manganello. E carabinieri in assetto simile. Gli studenti cominciano l’assalto arrampicandosi sulle collinette. Ai preordinati lanci di uova si aggiungono i sassi e le stanghe delle panchine divelte e usate come bastoni. La polizia usa i lacrimogeni, gli idranti, organizza caroselli con le autoblindo per disperdere e accerchiare i manifestanti. I primi ragazzi feriti sono portati all’ospedale da auto di passaggio, ma il traffico presto si ferma completamente. Ma la novità è che gli studenti non pensano solo a difendersi, ma contrattaccano. Come canterà Pietrangeli: «Undici e un quarto avanti Architettura / non c’era ancor ragione di aver paura / ed eravamo davvero in tanti / e i poliziotti in faccia agli studenti / hanno impugnato i manganelli e han picchiato come fanno sempre loro / e all’improvviso è poi successo / un fatto nuovo un fatto nuovo / non siamo scappati più / non siam scappati più...».
L’episodio è uno dei nodi centrali del romanzo Il fasciocomunista (Mondadori), dove l’autore Antonio Pennacchi ripercorre, dietro la fugura di Accio Benassi, la sua stessa autobiografia: «A Valle Giulia, sotto Architettura, la polizia ha caricato il corteo. Era pacifico, non c’era uno solo coi bastoni o col casco da motociclista, non s’erano mai visti ancora. Ma la polizia ha caricato e ha cominciato a menare e loro, all’inizio non hanno fatto che prenderle, sono scappati sulla scalinata...» Ma alla manifestazione – aggiunge Pennacchi – c’erano pure quelli del Fuan e gli altri studenti di destra: «Loro hanno cominciato a resistere, a restituire i colpi». Mentre quelli di sinistra cercavano rifugio nei giardini o sulle scale, i ragazzi di destra – quelli del poster – sono rimasti ad affrontare la polizia. Allo scontro diretto non parteciparono più di duecento persone ma furono almeno duemila quelle che diedero l’appoggio logistico. Cesare Perri, allora presidente del Fuan-Caravella, dichiarò alla rivista L’Orologio che, tra quei ragazzi, «solo poche decine erano comunisti» e che lo slogan «Via la polizia dall’università» gridato dai “fascisti” aveva prevalso da quello gridato dalla sinistra: “Polizia fascista”. E alla fine della “battaglia” – racconta bene Pennacchi – «sopra i tizzonidelle camionette ancora fumanti, abbacci e braci coi fascisti del Fuan e Stefano Delle Chiaie. C’erano i fratelli Di Luia, due rugbisti...».
In serata la Questura fa il bilancio della giornata: 148 feriti, fra poliziotti, carabinieri e funzionari, mentre sono 47 i dimostranti curati negli ospedali. Tra i primi feriti, Ugo Cascella, responsabile studentesco di Ordine Nuovo. «Avevo quattordici anni», ha ricordato Attilio Russo – futuro frate francescano e allora precisissimo militante di destra – che quel giorno con un sanpietrino spaccò la faccia a un commissario: «Quello aveva una fascia tricolore e mi tirava il braccio. Lo vedo ancora che cade giù stecchito come in fumetto...». E tra quei ragazzi c’era Mario Fedi, successivamente per tanti anni funzionario prima del Msi e poi di An, che viene immortalato in una foto mentre si difende con un bastone tra le mani.
Dopo la battaglia di Valle Giulia, il settimanale L’Espresso pubblica una poesia di Pier Paolo Pasolini. «Bella vittoria, dunque la vostra», attaccava l’intellettuale friulano scagliandosi in quei versi contro i giovani contestatori: «Avete facce di figli di papà / vi odio come odio i vostri papà». Era un’invettiva dal sapore snobista con cui il poeta faceva una precisa scelta di campo: schierarsi dalla parte dei poliziotti e contro gli studenti. I ragazzi che, a migliaia, a Valle Giulia si erano scontrati con la polizia che voleva impedirgli l’accesso alla facoltà di Architettura occupata, non erano altro, per Pasolini, che «figli di papà», i soliti studenti ribelli provenienti dal ceto medio, nella linea del «sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale)». La vicenda è stata ricordata – e in questi stessi termini – anche dal regista Bernardo Bertolucci: «Abitavo a via del Babuino. Passano gli studenti e io scendo. Ero un pochino più grande di loro, perché avevo 27 anni e insieme al corteo andiamo a Valle Giulia, dove la facoltà di Architettura era occupata dagli studenti. Poi mentre ricordo il corteo che va, mentre lo vedo arrivare a Valle Giulia, mentre ripenso ai primi scontri, mi vengono in mente le parole di Pasolini che uno o due giorni dopo scrive una poesia in cui dice più o meno: vi odio, cari studenti, perché in voi ritrovo quell’odore piccolo borghese che era lo stesso che sentivo nei fascisti. Insomma, tra voi e i poliziotti sto dalla parte dei poliziotti. E subito mi viene in mente Pier Paolo nel ’68, nello stesso anno, al Festival del cinema di Venezia, che va a Cà Foscari a parlare con gli studenti e questi gli sputano addosso perché si ricordano di quella poesia...».
Una cosa era certa. Anche da questo punto di vista, la contestazione si poneva oltre le vecchie discriminanti – a cominciare da quella fascismo/antifascismo – e ridefiniva le contrapposizioni in atto. È emblematica la cronaca a caldo raccontata sul quotidiano Il Tempo di Roma il giorno dopo Valle Giulia, il 2 marzo, con un articolo “incredulo” del fatto che giovani di destra e di sinistra, laici e cattolici, fossero insorti insieme per rivendicare i propri diritti da studenti. E si era costretti ad ammettere che alla battaglia erano presenti, oltre ai ragazzi di sinistra, anche «missini e cattolici, socialisti e radicali, liberali e repubblicani». In questo senso, all’indomani di Valle Giulia, tutte le strade erano aperte. «Eravamo forse degli ingenui rivoluzionari da quattro soldi – ammette oggi Paglia – ma comunque ci abbiamo provato. Solo che quindici giorni dopo ci giocammo tutto...». Il riferimento va al blitz del 16 marzo alla città universitaria di Roma, quando un gruppo di missini – guidati da Giorgio Almirante, Giulio Caradonna e Luigi Turchi – con il pretesto di “liberare dai rossi l’università” tentarono alla vigilia delle elezioni politiche di far parlare i giornali e cavalcare elettoralmente il consenso di una certa opinione pubblica conservatrice spaventata dalla contestazione. Scrisse Giano Accame subito dopo quella “spedizione punitiva”: «I missini hanno scaricato e buttato a mare i loro giovani, che avevano visto giusto, per andare a caccia di voti preferenziali negli ambienti più ottusi dell’elettorato». Quel blitz, d’altronde, chiudeva definitivamente la possibilità di una nuova fase. Lo ha spiegato Franco Piperno, uno dei leader del Movimento studentesco romano: «L’assalto a Lettere del 16 marzo provocò la scomparsa dei giovani di destra dai nostri cortei e dalle nostre assemblee, mentre fino a quel momento loro c’erano stati. Era una cosa che io ritenevo molto buona per il Movimento, perché per me il movimento aveva anche il significato di rimescolare tutte le vecchie suddivisioni utili all’immobilismo del mondo politico italiano. da quel momento, insomma, l’antifascismo tornò a essere una discriminante, con un effetto di ritardo della società italiana e con le conseguenze che tutti conosciamo...»
Concorda Guido Paglia: «Quel gesto fu una vera tragedia. Almirante si era fatto travolgere dal perbenismo e dalla voglia di mettersi in mostra mentre si chiudeva la segreteria di Michelini. E in quegli scontri rischiò fisicamente: fui io personalmente a salvarlo e allontanarlo insieme a un maoista. Ma il fatto più grave è che il Msi, con quella scelta scellerata, si prese la responsabilità di far nascere la destra extraparlamentare verso cui accorsero la maggior parte dei ragazzi...». Certo, sono passati quarant’anni e la destra italiana ha avuto il coraggio di fare autocritica: «Gianfranco Fini – aggiunge Paglia – ha recentemente pronunciato parole che restano sull’incapacità dei vertici della destra di allora di comprendere le ragioni della contestazione. Stupisce solo che qualche intellettuale continui, nonostante tutto, a sputare sul ’68 senza conoscere niente di quei fatti e confondendo la nostra critica a una società bloccata e all’autoritarismo baronale con il principio d’autorità. Ma si tratta solo di reazionari impolitici...». Che forse si trovano più in sintonia con Pasolini che con la memoria di quei ragazzi grazie ai quali tutti i giovani, come cantava Pietrangeli, hanno potuto dire:«Non siam scappati più».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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