Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 2 marzo 2008
Osserviamoli dall’esterno, gli appassionati di Guitar Hero: il videogame musicale che nel giro di un paio d’anni ha raggiunto la terza edizione e superato, già con la seconda, un miliardo di dollari di fatturato. Osserviamo i ragazzi – per lo più nel senso letterale del termine, ma magari anche in quello, assai più estensivo, autorizzato da cinque decenni di rock’n’roll e dal moltiplicarsi di “ragazzi” over 60 alla Robert Plant e Mick Jagger – che accendono il computer e imbracciano una specie di chitarra elettrica senza corde. Una “chitarra” che riproduce in scala ridotta la sagoma di celebri esemplari della Gibson, la SG “diavoletto” e la Les Paul . Ma che, appunto, non ha nessuna corda da far vibrare sotto le dita o sotto il plettro. Solo alcuni tasti colorati, invece, disposti nella parte superiore del manico. I primi tre si usano subito, gli altri due se e quando si è migliorati a sufficienza.
I ragazzi danno un’ultima occhiata allo schermo, su cui è pronto un lungo elenco di titoli più o meno famosi, più o meno impegnativi, e ne scelgono uno. Poi, in base alla loro perizia, stabiliscono il livello di difficoltà dell’esecuzione. Facile, medio, difficile, esperto. Adesso sono pronti. One... two... three... four. Vai. Dalla memoria del pc si sprigiona la musica. Sul monitor scorrono le indicazioni necessarie a chiarire ciò che bisogna fare. Come in un karaoke, più o meno. Ma nel karaoke devi cantare le parole via via che compaiono. Qui devi seguire la musica. Un tasto dopo l’altro: e a ciascuno corrisponde un piccolo o piccolissimo spezzone del brano, che andrà “suonato” rispettando la sequenza prestabilita. Più sei preciso, più punti acquisisci. Più punti acquisisci, più fai “carriera”. Da oscuro principiante, intimorito anche dai pezzi più semplici e indaffaratissimo, perciò, a corrergli dietro con la preoccupazione di non perdere il filo e di dover ricominciare daccapo, a robusto conoscitore di un repertorio che, se lo padroneggi da cima a fondo, conta decine di pezzi e spazia in lungo e in largo tra vecchie glorie e nuove leve. Pronto, in attesa che esca una nuova versione e ci si possa misurare con le nuove sfide, a fare una capatina nei locali in cui Guitar Hero inizia a sostituire, o ad affiancare, il succitato karaoke, ed esibirsi in pubblico. Dove, però... C’è un altro problema, Jack. Sui pezzi vai forte, ma per stare in scena come si deve ci vuole qualcosa di più. Devi saperti muovere. Devi avere un tuo stile. O, almeno, devi saper riprodurre adeguatamente quello dei grandi chitarristi di cui riproponi i pezzi. Mai sentito parlare di “Air Guitar”?
Il fenomeno Air Guitar esiste da molto più tempo di Guitar Hero. Spunta alla fine degli anni 70 – quando il pc era ancora di là da affermarsi e le prestazioni dei primi modelli erano, rispetto a quelle di oggi, l’equivalente di un bimbetto che farfuglia le sue primissime sillabe – e si diffonde a tal punto che, a partire dal 1996, si svolgono ogni anno i campionati mondiali. I primi in Finlandia, poi negli Stati Uniti, infine in Giappone. Concorrenti scatenati e soprannomi in stile. Clay “Bangers” Connolly. Michael “The Destroyer” Heffels. Gabriele “The Hoxton Creeper” Matzeu. Più comodi di un tatuaggio: nessun dolore per indossarli; nessun fastidio per liberarsene.
In cosa consiste l’Air Guitar? Semplice. Si fa finta di suonare una chitarra (ovviamente elettrica, tendenzialmente Heavy Metal) e ci si muove di conseguenza, mimando ogni sorta di gesto tecnico o di espressione corporea. Mani che guizzano fulminee nell’apoteosi di un assolo. Braccia che disegnano le traiettorie maestose, quasi sprezzanti, delle “pennate” che colpiscono le corde e le fanno vibrare all’unisono. Passi e piroette. Qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Qualsiasi altra cosa che catturi lo sguardo del pubblico e contribuisca a esplicitare il potere assoluto, quasi sciamanico, di un grande solista rock. Che domina il suono, il ritmo, l’elettricità. Le emozioni. I sogni. Forse, il senso stesso dell’esistenza.
Il tutto, se già non si fosse capito, avviene però senza imbracciare un bel niente. Nemmeno la chitarretta fasulla del videogame. Nulla di nulla. Tutto immaginario. E che vuoi che sia, del resto? L’arte è finzione. E’ ricorso continuo a codici convenzionali, a sottintesi, a trucchi condivisi tra chi si assume il compito di affascinare e chi non vede l’ora di lasciarsi sedurre. Mica ti stanno ingannando, d’altronde. Non pretendono di essere musicisti. Semmai una specie di ballerini. O di saltimbanchi.
Oppure, più verosimilmente, non lo sanno nemmeno loro. Non sanno, non immaginano, non hanno nessun interesse a sapere, che la loro è la rappresentazione plastica di un desiderio (di un bisogno) sempre più diffuso: quello di andare in scena a qualsiasi costo, con qualsiasi pretesto, a prescindere da qualunque criterio che sia fissato una volta per sempre. Un po’ come nel Guinness dei Primati, si elimina a priori l’idea che ci siano attività degne di riconoscimento e altre di nessun rilievo. Messner che scala tutti gli Ottomila del pianeta finisce sullo stesso piano di quello che si è ingozzato di uova sode o dell’allegra brigata che ha battuto il record della doccia più lunga. Il chitarrista a scartamento ridotto di Guitar Hero si compiace della propria abilità sopraffina. Il chitarrista a mani vuote di Air Guitar vince il titolo mondiale e diventa famoso.
Che colpa ne hanno, in fondo, se non sanno suonare?
I ragazzi danno un’ultima occhiata allo schermo, su cui è pronto un lungo elenco di titoli più o meno famosi, più o meno impegnativi, e ne scelgono uno. Poi, in base alla loro perizia, stabiliscono il livello di difficoltà dell’esecuzione. Facile, medio, difficile, esperto. Adesso sono pronti. One... two... three... four. Vai. Dalla memoria del pc si sprigiona la musica. Sul monitor scorrono le indicazioni necessarie a chiarire ciò che bisogna fare. Come in un karaoke, più o meno. Ma nel karaoke devi cantare le parole via via che compaiono. Qui devi seguire la musica. Un tasto dopo l’altro: e a ciascuno corrisponde un piccolo o piccolissimo spezzone del brano, che andrà “suonato” rispettando la sequenza prestabilita. Più sei preciso, più punti acquisisci. Più punti acquisisci, più fai “carriera”. Da oscuro principiante, intimorito anche dai pezzi più semplici e indaffaratissimo, perciò, a corrergli dietro con la preoccupazione di non perdere il filo e di dover ricominciare daccapo, a robusto conoscitore di un repertorio che, se lo padroneggi da cima a fondo, conta decine di pezzi e spazia in lungo e in largo tra vecchie glorie e nuove leve. Pronto, in attesa che esca una nuova versione e ci si possa misurare con le nuove sfide, a fare una capatina nei locali in cui Guitar Hero inizia a sostituire, o ad affiancare, il succitato karaoke, ed esibirsi in pubblico. Dove, però... C’è un altro problema, Jack. Sui pezzi vai forte, ma per stare in scena come si deve ci vuole qualcosa di più. Devi saperti muovere. Devi avere un tuo stile. O, almeno, devi saper riprodurre adeguatamente quello dei grandi chitarristi di cui riproponi i pezzi. Mai sentito parlare di “Air Guitar”?
Il fenomeno Air Guitar esiste da molto più tempo di Guitar Hero. Spunta alla fine degli anni 70 – quando il pc era ancora di là da affermarsi e le prestazioni dei primi modelli erano, rispetto a quelle di oggi, l’equivalente di un bimbetto che farfuglia le sue primissime sillabe – e si diffonde a tal punto che, a partire dal 1996, si svolgono ogni anno i campionati mondiali. I primi in Finlandia, poi negli Stati Uniti, infine in Giappone. Concorrenti scatenati e soprannomi in stile. Clay “Bangers” Connolly. Michael “The Destroyer” Heffels. Gabriele “The Hoxton Creeper” Matzeu. Più comodi di un tatuaggio: nessun dolore per indossarli; nessun fastidio per liberarsene.
In cosa consiste l’Air Guitar? Semplice. Si fa finta di suonare una chitarra (ovviamente elettrica, tendenzialmente Heavy Metal) e ci si muove di conseguenza, mimando ogni sorta di gesto tecnico o di espressione corporea. Mani che guizzano fulminee nell’apoteosi di un assolo. Braccia che disegnano le traiettorie maestose, quasi sprezzanti, delle “pennate” che colpiscono le corde e le fanno vibrare all’unisono. Passi e piroette. Qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Qualsiasi altra cosa che catturi lo sguardo del pubblico e contribuisca a esplicitare il potere assoluto, quasi sciamanico, di un grande solista rock. Che domina il suono, il ritmo, l’elettricità. Le emozioni. I sogni. Forse, il senso stesso dell’esistenza.
Il tutto, se già non si fosse capito, avviene però senza imbracciare un bel niente. Nemmeno la chitarretta fasulla del videogame. Nulla di nulla. Tutto immaginario. E che vuoi che sia, del resto? L’arte è finzione. E’ ricorso continuo a codici convenzionali, a sottintesi, a trucchi condivisi tra chi si assume il compito di affascinare e chi non vede l’ora di lasciarsi sedurre. Mica ti stanno ingannando, d’altronde. Non pretendono di essere musicisti. Semmai una specie di ballerini. O di saltimbanchi.
Oppure, più verosimilmente, non lo sanno nemmeno loro. Non sanno, non immaginano, non hanno nessun interesse a sapere, che la loro è la rappresentazione plastica di un desiderio (di un bisogno) sempre più diffuso: quello di andare in scena a qualsiasi costo, con qualsiasi pretesto, a prescindere da qualunque criterio che sia fissato una volta per sempre. Un po’ come nel Guinness dei Primati, si elimina a priori l’idea che ci siano attività degne di riconoscimento e altre di nessun rilievo. Messner che scala tutti gli Ottomila del pianeta finisce sullo stesso piano di quello che si è ingozzato di uova sode o dell’allegra brigata che ha battuto il record della doccia più lunga. Il chitarrista a scartamento ridotto di Guitar Hero si compiace della propria abilità sopraffina. Il chitarrista a mani vuote di Air Guitar vince il titolo mondiale e diventa famoso.
Che colpa ne hanno, in fondo, se non sanno suonare?
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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